Parola Puttana

di  Nessuna

 

 

  Le parole sono come palloncini, talvolta possono salire leggere nell’aria, non possiedono ombra, solo colore e vita finché sono traccia percettibile, altre volte sono troppo gonfie di sé e ti scoppiano in faccia, diventando rumore acuto, potente e in qualche modo dolore.
Chissà perché partorisco queste cose di mattina presto, invece che smaltire lentamente il sonno. Sto qui e penso e penso come se fosse un bene tutto questo rimuginare, eppure è così che reagisco quando vengo mollata, non lotto, non piango, ma mi trituro i pensieri finché quasi non sanguinano. E ora penso a Paolo e alle sue di parole, anzi a quella parola precisa che quando gli sale alle labbra è tanto potente da cambiarne persino la forma. Puttana.
Già mi piaceva quando mi chiamava puttana mentre mi sbatteva con la sua forza un po’ da contadino, quando mi intimava “puttana Vieni”, sapendo che avrei obbedito, toccata quasi più da quel sibilare stronzo e sottile di parole, che non dal suo cazzo, che pur sapeva usare con una certa mancanza di grazia che lo rendeva tanto piacevole.
E la puttana, in quel contesto era un palloncino, che volava lontano, vortice dopo vortice, nelle contrazioni acquose dell’orgasmo.
Eppure, forse per mancanza di validi argomenti, forse perché la rabbia gli ha mutilato un dizionario, che già nei dialoghi rilassati da divano, mostrava le sue lacunose debolezze, sempre questa benedetta parola gli è venuto da usare l’altra sera, quando così, stanco molto più di me, che non dei motivi dietro cui si è pavidamente nascosto, mi ha mollato, dopo otto mesi di voli a palloncino, frequenti come pisciatine di cane, di pochi e insensati progetti, ed una vacanza alle canarie che, manco a dirlo, ho pagato io, euro su euro.
E così, sulla porta di casa sua mi urla “Vattene Puttana”, e lì per lì mi vien da ridere perché tutto ciò che realizzo è la nemesi verbale. Me cretina, avrei dovuto realizzare invece che a trent’anni suonati ancora mi sarei ritrovata sulla piazza intasata da tante giovani bellezze, con l’animo intontito dalla parola scoppiatami contro, e le rughe che mica accennano a regredire solo perché mi piacerebbe che qualcuno, ogni tanto capisse con precisione che esaudendo il desiderio di una giovane donna, si guadagna in lei una fedele imperitura.
E oggi piove anche, merda.
Ma non doveva cominciare la primavera? l’hanno detto persino alla tv.
Fortuna che ora sono in metropolitana che mi son bagnata quasi fin le mutande, ed ho pure messo quelle strette stamane, che le altre stavano tutte a lavare. Ma non potevo perder due minuti a prendere il piumino, cazzo, invece che mettere questo spolverino dannato, che non mi tiene calda neppure ad agosto? Tanto la metro passa ogni tre per due, e al lavoro oggi potevano anche aspettarmi dieci minuti di più, uffa e uffa.
Di anni ne tengo trenta, ma voglia di fare i capricci da dieci proprio, me lo dico da sola, che così il prossimo uomo lo trovo sicuro.
Ah ecco la metro.
Alla faccia ma quanta gente c’è si vede che piove, siamo pigiati come grani in clessidra.
E questo che mi sta davanti spinge pure, mica starà svenendo.
Spinge?
No, no, un attimo, mi sta toccando. Ha le dita che mi cercano come avessero occhi. Mi gira la testa, siamo in troppi qua dentro,e cazzo, queste mani sanno come toccare, no di più, sanno come stringere, che è lì lì, che sono tutta, in quel centimetro di pelle che sta premendo con il pollice. Il clitoride mi pulsa come fosse ferito. Mi appoggio non ce la faccio, ne voglio di più di questa mano, la voglio tutta, no anzi la voglio solo così, perché mi tormenta.
I binari curvano, barcollo.
Vorrei portasse una camicia con i bottoni sulla schiena, per poterci strusciare sopra i capezzoli, fino a farli diventare grossi come caramelle, caramelle gonfie, rosse..lucide.
No, non posso venire ora pensando alle caramelle, anche se quasi me ne sento il gusto in bocca.
Cosa fa?
Che importa qualsiasi cosa sia, fallo, fallo e non ti voltare, che non voglio vederti in faccia, non me ne frega niente che tu sia bello, anzi voglio che tu sia brutto, voglio che tutta la virtù che tu possiedi sia concentrata in questa mano, che sembra aspettare qualcosa.
Non resisto, gli mordo una spalla.
Chissenefrega di dove sono.
Troppa gente si annulla, l’una con l’altra, è come se non ci fosse nessuno.
Lui mi sente, prende attraverso la stoffa del vestito, l’elastico delle mie mutandine, quelle strette, e tira, e sono ancora più strette, e tagliano, strisciano, segano il mio clitoride in due, mentre non resisto,è troppo e vengo vengo.
Vengo.
Poi la metro si arresta, e vomita fuori tutto il suo indigesto contenuto, anche l’uomo dalla mano con gli occhi, che si porta via sulla pelle il mio profumo e, ancora più indelebile, la mia gratitudine. Mi cammina davanti, ma non si volta, vedo solo il profilo sfilacciato dei jeans, sporchi, bagnati, e mi vengono in mente le mie mutande, che ha tirato, sporcato, grazie al cielo bagnato.
Sulla spalla ha il segno del mio rossetto.
Sbrigati ad andartene, vorrei urlare, poi per fortuna è come se mi sentisse, e scompare, come tutti gli altri.
Rimango un momento in cima alle scale, prima di uscire, annuso l’aria, che è vero sa di pioggia, ma più in profondo ha una nota diversa, forse di quella caramella a cui già pensavo prima, e realizzo che è per me l’odore della primavera, è l’odore del sorriso che intanto sento mi sale alle labbra.
E alle labbra importanti. Quelle che fanno la differenza. Quelle che amano, quelle che mentono, quelle che trattengono quando occorre coraggio, le labbra che sono il volto di una donna quando per pudore nasconde gli occhi, che sono il ruggito del suo volere quando dice no, con molta più forza e convinzione di quando si abbandona a tanti sì.
E penso a quanto sono stupida, a come sorrido, non perché un gesto mi abbia sciolto la carne, ma perché ho goduto di uno sconosciuto, preso con una contrazione di egoismo che era più di mente che di fica.
Come farebbe una puttana, che non guadagna soldi, ma punti stronzi da inserire nella suo curriculum sensi. E me lo dico io, senza che me lo dica Paolo, ma me lo dico compiaciuta, e vaffanculo a tutto quel piagnucolare di solo un quarto d’ora fa.
Aspetto che passino tutti, e mi sistemo le mutande, che ancora sono come lo sconosciuto le ha lasciate e ora sono quasi tormento, e via tra la pioggia, più sicura, perché se è vero che a volte le parole son palloncini, che volano, o scoppiano, altre volte semplicemente si sgonfiano, e tutta quell’interezza, quella presenza, quella consistenza, che era lì anche solo un attimo prima, ora svanisce, in un pezzo di lattice slabbrato e stanco, come un gommino dopo una gran scopata.
E non sono più Nulla.
Solo parole, senza colore, senza rumore.