La stanza inviolabile
 

di  Nocturna_aa

 



Racconto nato per Borgonarrante da incipit contenente le seguenti frasi:
    "Gli oggetti sono cose che non dovrebbero commuovere, perché non sono vive…" (da “La nausea” di Jean-Paul Sartre)
    "Stavo per infilare la chiave nella toppa quando sentii la serratura aprirsi dall’interno…" (da “Arcobaleno” di Banana Yoshimoto).

 


Stavo per infilare la chiave nella toppa quando sentii la serratura aprirsi dall’interno; sorpreso, ma non troppo, mi trovai di fronte Suni che mi guardava colpevole, sapendo di aver disatteso a mie precise istruzioni.
Ero stato chiaro quando le avevo detto che la soglia della stanza viola non doveva essere varcata; aveva accesso a tutte le camere della villa, ma a quella no; lì, oltre a me, nessuno poteva avere accesso.
Era il mio angolo di paradiso, inibito a tutti quanti.
Compresa mia moglie.
Era stato un vezzo di mia madre battezzare ogni stanza con un colore; la biblioteca era la stanza azzurra, la sala da pranzo la stanza gialla; le camere, invece, richiamavano tutte le gradazioni dei colori caldi, dal giallo all’arancio fino al rosso della camera da letto degli ospiti.
Nella stanza viola non era entrato più nessuno, oltre a me, da quando mia madre era morta; a parte Suni quella mattina.
Lei non pronunciava parola, nell’attesa della mia reazione; si spostò di lato per consentirmi di chiudere la porta a doppia mandata.
Allungai la mano per prendere il duplicato che stringeva: aveva le nocche bianche dallo sforzo e, in lei, il terrore era palese mentre lasciava cadere nel mio palmo aperto la chiave ancora lucida per il poco uso. Pensai che fosse la prima volta che aveva osato avventurarsi, ma che certamente ci pensava da un pezzo.
In quel momento sentimenti contrastanti albergavano in me. Ero indeciso: prenderla a schiaffi o baciare quel suo viso terrorizzato.
Mi conosceva bene Suni, sapeva che come ero in grado di tenerezze incredibili e di gesti inattesi, ero anche un fuoco sopito al quale bastava un piccolo soffio per accendersi e divampare con violenza.
M’imposi di restare calmo e presi Suni per mano, era diaccia.
La accompagnai nella stanza verde, il salotto. Qui il camino ardeva, la feci accomodare sul divano di fianco. Assorbiva il calore, ma continuava a tremare.
“Suni, cosa ti dissi quando venimmo ad abitare in questa casa?”
“Che potevo andare dove volevo meno che nella stanza viola”
“E perché mi hai rubato la chiave, ne hai fatto un duplicato, e ci sei entrata? Sono calmo, calmissimo, ma devi rispondermi, Suni, non voglio arrabbiarmi ma tu mi hai disubbidito ed io devo sapere”
Suni non riusciva a parlare, il tremore aumentava e scoppiò in singhiozzi, nascondendo il viso tra le mani.
La prima volta che presentai a Suni la nostra residenza, la servitù era sulle scale ad aspettarci ed a mia moglie non pareva vero di poter impartire ordini anziché riceverli come era sempre avvenuto prima che io la incontrassi e la sposassi.
Le presentai le stanze della casa tra i suoi commenti entusiasti e ci fermammo davanti alla porta della stanza viola, spiegandole che per nessuna ragione al mondo sarebbe dovuta entrare in quella camera, della quale solo io possedevo le chiavi.
Suni annuì. Pareva aver compreso e speravo che i miei ordini sarebbero stati rispettati. Fino a poco prima lo aveva fatto, era riuscita a resistere al richiamo per oltre venti mesi.
La guardavo, sempre singhiozzante e terrorizzata sul divano; pareva essersi rattrappita. Immaginavo che ciò che aveva visto dentro la stanza l’avesse potuta sconvolgere, ma ero certo che, più di ogni altra cosa, ciò che la sconvolgeva era immaginare la mia punizione che sarebbe arrivata inesorabile.
Mi accomodai di fronte a lei, meditando. Mi accesi un sigaro che gustai in silenzio, lasciando Suni a continuare a piangere.
Rimasi muto a osservare alternativamente mia moglie e le volute dense che salivano al soffitto.
Spento il sigaro, mi avvicinai a lei, la afferrai per un braccio e la trascinai per il corridoio, per portarla nuovamente nella stanza dei segreti.
Suni mi guardava implorante, con gli occhi di un animale impaurito cercava una via di fuga, sapendo che non ve n’era alcuna.
La tenni stretta mentre feci scivolare la chiave nella serratura.
Dentro, fioche lampadine erano accese a rischiarare appena l’oscurità che avvolgeva l’ambiente.
La costrinsi ad avvicinarsi alla parete alla quale erano fissati anelli di ferro, due in alto e due in basso.
“Spogliati. E’ un ordine”
Suni obbedì senza protestare, girando lo sguardo alle pareti cariche di ritratti polverosi e agli strani oggetti che erano sui ripiani della libreria al posto dei volumi. Li aveva sicuramente già notati durante la sua escursione, ma che non aveva compreso l’uso.
Gli oggetti sono cose che non dovrebbero commuovere, perché non sono vive, ma quegli anelli fissati alla parete di destra mi procurarono immediatamente un brivido di piacere lungo la schiena, mentre sistemavo le braccia e le gambe di mia moglie che continuava ad essere spaventatissima, ma non osava fare alcun gesto di fuga o di ribellione.
Suni era terrorizzata e urlò quando le strinsi i bracciali di ferro ai polsi ed alle caviglie.
Era splendida in quel momento e avrei voluto solamente baciarla a lungo, eccitarla e poi scoparla lì, in piedi, legata, come avevo fatto tantissime volte con le donne che per pochi soldi acconsentivano al mio gioco preferito.
Le facevo entrare dalla porta del retro, quando la casa era vuota e nessuno avrebbe potuto ascoltare i rumori del piacere filtrare dalla porta viola.
Suni urlava mentre dalla libreria prendevo una maschera di cuoio con la quale le coprii gli occhi e urlò ancora più forte alla prima scudisciata che le rigò i seni.
Piangeva ed implorava, urlava di smetterla, di perdonarla mentre il ferro degli anelli le segava sempre più la carne ad ogni suo vano tentativo di liberarsi.
Non potevo perdonarla, non mi aveva ubbidito, aveva violato il mio segreto e doveva essere punita.
Smisi di frustarla soltanto quando svenne e la slegai, sollevandola ed adagiandola sul divano presso il quale tante volte mi ero steso dopo le frustate inflitte alle compagne occasionali di poche ore di dolore e godimento estremo.
Iniziai a cullarla dolcemente, leccandole i segni rossi che marchiavano a fuoco il suo corpo inerme.
Passò un tempo imprecisato e Suni rinvenne.
Gli occhi che mi piantò in faccia erano furiosi di dolore.
Lentamente si sollevò, guardandosi il seno che era un ammasso informe di segni rossi e gonfi.
Sapevo che in quel momento voleva uccidermi.
Barcollando allungò la mano a prendere il frustino che avevo appoggiato al mio fianco.
Frecce di odio puro e una luce indefinibile non mi fecero fermare la sua mano che si era spostata ad impugnare il sottile scudiscio di cuoio, sporco del suo sangue ormai rappreso.
La stilettata che mi arrivò sul petto lacerò la mia camicia: la aspettavo, l’avevo vista arrivare dal braccio di mia moglie e il dolore fu tremendo e meraviglioso assieme, al punto che implorai un altro colpo e un altro ancora.
Suni rideva mentre mi colpiva e mi colpiva ancora, dimentica del dolore che la strappava ad ogni gesto.
Mi slacciò la cintura dei calzoni e tirò fuori il mio cazzo che era duro e voglioso di esplodere, s’impalò su di me, così, in un colpo solo, e iniziò a godere come mai l’avevo vista fare, con grida e urla che nulla avevano da invidiare alle troie a pagamento, habitué della stanza viola.
Non ebbi più necessità di prendere contatto con il gestore di un sito specializzato di slave su Internet: da quella sera la mia stanza viola, la camera dei miei segreti, divenne la stanza preferita del dolore e del piacere da condividere con mia moglie.