Interno notte
di Rossogeranio
Dissolvenza in apertura: Grand Hotel Royal.
Trailer.
In un notturno buio e tempestoso, rimango seduta sulla poltrona girevole del mio
ufficio, introducendo un pensiero diabolico e malizioso.
L’inquadratura in campo medio a configurare uno spezzone di trivialità in bianco
e nero, scandito come un filmato fantastico e suggestivo.
Un racconto girato dall’occhio della mente.
Cade un fulmine visibile attraverso la persiana.
La mia versione implacabile, compromessa dall’alcool e dall’affascinamento per
le perverse ed elastiche contorsioni, mi appanna completamente la prospettiva
dell’indugio.
Dietro la cinepresa di un’epoca farisea di scambi superficiali in libagioni
sessuali, l’approccio visivo indossa facce, tegumenti e sensazioni che si
riconducono sempre ad un carosello di angolature ardite.
Un mondo di luci ed ombre in movimento
Un’altra saetta spigola sul mio davanzale.
Sullo schiocco ha inizio una contemporanea di sequenze.
Sono sul cuore trafitto da due lance e la maniacalità sgancia il tridente
diabolico di una strategia olocaustica e voluttuosa.
I rivoletti di liquido meningeo rimangono copiosi fra i fragorosi fiumi
celebrali ed avvicinarmi ad una nuova esperienza stimolante, è un azzardo
sospettato.
L’atomismo sensuale mi proietta in un dejà vu scomposto in ripartizione
circolare.
L’astratta illusione che credo e so, siano ordinati, quindi scomponibili.
Riproducibili in sequenza umana.
Esorcizzare la creatività ingiustificata in me medesima.
La fosforescenza dell’ascensore mi conduce al piano attico.
Abbraccio la telecamera.
La vista è screziata di luce al neon e crea un disegno di schegge aperte.
Una visione a tela di ragno contro pareti di liscio cemento.
La ragazza ha la carnagione chiara, come una cascata fresca di montagna.
Accompagna questi uomini bombati, che popolano la Suite da 1,500 Euro a notte,
la migliore della città.
Un fermo immagine in Panavision, singolarmente bello.
Il Manager è vestito in gessato nero, con tanto di cravatta in tinta, alto più
di 1,85.
Sta bevendo dell’acqua Perrier direttamente dalla bottiglia.
Un giovane marocchino dalla pelle ambrata, tamburella con le dita sullo
scrittoio.
Ha una chioma folta di capelli che gli arrivano al colletto della camicia di
seta.
Indossa jeans stretti, stivali texani ed un giubbottino di pelle scolorita.
Al collo porta una sciarpa tetra.
Un terzo uomo, d’età matura, con le guance incavate e ingrigite da un accenno di
barba trascurata, annusa un grosso sigaro cubano.
Inquadro un paio di mocassini lustri ed un appariscente anello intagliato con
pietra scura e lucida.
Lei è tatuata da una guaina aderente nera, come una stele a macchia
d’inchiostro.
Le braccia scoperte sono avviluppate da nastri di luce sfilacciata che filtrano
tra le crepe delle tende in shantung.
Vernice fosca che strappa i buchi della mia retina, in minuscoli frammenti
optical.
Intarsi di lama affilata.
Si moltiplicano fili e nervi nel mio cervello, intricati senza sollievo né
remissione.
Come squarci sottili al centro del mirino, rimango con le unghie conficcate
nell’impugnatura morbida dello strumento ottico.
C’e’ un chiarore accigliato, come se la lampada del proiettore fosse uscita dal
suo alloggiamento.
La luce si contrae in una sfera poi in un punto luminoso.
Scompare.
Sono sul campo visivo.
Il neon lampeggia, poi si spegne.
Interno Notte.
L’ambientazione è una vasta sala, con una locazione interrotta.
Le veneziane grigio perla che vanno dal pavimento al soffitto e la moquette
nella stessa tinta.
Il mobile bar in onice di metallo cromato, i divani di pelle color ebano.
Improvvisamente l’obiettivo è invaso da una tormenta di pois infinitesimali, per
poi tornare preciso.
Stacco immagine.
Sono tutti nudi.
Lei è adagiata sul pavimento, con le braccia lievemente discoste dal corpo.
Mette in evidenza le natiche rotonde e rende prominenti i fianchi.
Gli uomini celano una maschera sul volto.
Sono corpi massicci avvolti in enormi stringhe di cuoio che ringhiano
incrociandosi.
Costumi luccicanti da borchie argentee e cerniere.
I respiri risultano staccati.
Nell’effetto chiaroscuro i personaggi sembrano godere delle loro nudità.
Le hanno chiare in mente.
Il ruotare pastoso attorno a se stesse.
I genitali ignorati sino a questo momento si risvegliano.
Sotto la cintura compaiono ampie aperture triangolari, con rigide verghe carnose
che spuntano dalla macchia scura e spessa di peli riccioluti.
Si stanno schierando intorno alla giovane donna, scrutandole le parti intime tra
le gambe.
Si toccano e palpano il membro, continuando la baldoria lenta, in un circolo
vizioso in progressione.
Come un accumulatore a distanza, l’intercapedine è alimentata dai miei occhi
stretti in un pertugio d’illusione.
Gli scorpioni irritati, snodano una danza in cerchio a quel tenero corpo ancora
in sboccio, gli orifizi non avvezzi alle invasioni.
Il viavai diventa sempre più frenetico, i gemiti più sonori.
Il rumore arcaico, che prima era silente sta cercando di sentire i loro corpi
per sconfinare nell’urlo.
Lei rimane immobile ad accarezzarsi la propria pelle luminosa.
Nessuno sembra prestarle attenzione materiale.
Pone le mani sotto i seni rotondi e nivei nell’atto di sollevarli per metterli
alla portata della lingua, ignorandone l’impraticabilità.
Grazie a quel movimento la figura appare piu’ slanciata, i muscoli si dispongono
diversamente.
Le natiche si arrotondano e si stringono e le si forma una fossetta sul fianco,
nel punto dove si snoda la coscia.
La lingua non arriva a raggiungere i capezzoli, ma lei continua a tirarla dentro
e fuori.
Rigida, appuntita.
Inizia a bramire guardandosi il petto, spremendosi i bottoni floridi, oramai
aguzzati.
Uno degli uomini le afferra i polsi roventi di battito forte e regolare.
L’altro con un salto felino si attacca al suo dorso in modo così stretto che il
suo membro scompare tra le dune bianche e prominenti.
Come se il solco fosse un astuccio fatto su misura.
Le applique ai muri danzano nascoste dietro i paralumi in stile Impero.
Le braccia del terzo la cinge per la vita, conficcando il suo mento barbuto tra
la scanalatura delle scapole.
Le toglie le mani dai seni per portarle a flagellarsi nella vulva palpitante.
Gli amplessi si fanno sempre più stretti.
La camera si accende di gemiti, di grida soffocate, di sospiri, di rantoli, di
lamenti.
I corpi sudati rilucono al bagliore dei lampi artificiali.
Non un nodo, ma il legamento di carne con più teste e più braccia.
Un lombrico dalla linea perfetta nella miscela esotica di questo pulp
pancromatico in bianco e nero.
L’accoppiamento multiplo in un’alcova colore della brace.
Esclamazioni, spasimi, mentre i cumuli si accavallano, si rotolano, si sollevano
in nuove contorsioni.
Un copioso fiotto di filamenti liquidi veloci.
Esplosioni d’iridi nel sovvertire le scale dei vari colori.
Messa a fuoco.
I tentacoli spingono nel mio bulbo di vetro, per cercare una porta, lo spiraglio
per sfondare il complesso.
Scariche di energia statica crepitano sotto i rialzi dei miei tacchi e corrono
in promozioni di scintille, brandendo la scena.
L’ansia ludica è un reboante batticuore d’anticipazione nel montare e rimontare
le forme tonde in una miriade di figure scintillanti.
Il foglio di celluloide gocciola e langue per ingrassarsi della Passione altrui.
Si avverte la massa interiora intrappolata tra le gambe nel lavorio dei circuiti
sottili, infervorati e intrecciati tra loro.
Un’inquadratura sensuale nel peso della massa informe di ventri e pubi,
l’insistenza delle propaggini con le quali esplorare i tessuti.
Dissolvenza in nero.
Piomba su di me un cono d’ombra.
Il silenzio perituro che si contrae, strappato dal potente grido nel punto
culminante dell’appagamento.
Le parole oscene, dopo la tensione, si diradano poco a poco, tornando selvagge
ma misurate, bisognose di sciogliersi in risa pudiche di un fotogramma
ristabilito.
Si allargano, si restringono come un muscolo di polpa vivace, aderente ad una
pigna di luce.
Con l’atemporalità, l’illusione, l’effetto speciale che seduce.
La morsa che sconvolge in un afflato questo effetto instabile e folle, che
traina il proprio mezzo fuggevole sulla membrana invisibile della pellicola.
Sono ad un passo dall’irruzione, la sto sfiorando con la punta del mio muscolo
cardiaco.
Ma improvvisamente sfugge, scappa lontano a tornire ancora il quadrante dal
perigeo alla terra.
L’emulsione fotosensibile spugnosa, disegna nuovi schizzi in matrice di
gelatina.
Il morbo onirico smette di gemere.
Non finisco mai di rinascere e morire.
Il lembi di stoffa candida tremano intorno alle mie gambe scoperte.
La gamma dinamica che pascolo nelle mie viscere è la sagoma in fusione sulle
membra oramai aride.
Nessuno mi risponde.
Oramai posso vedere tutto.
Il senso come una profondità di campo, la latitudine di posa.
Il grande anfratto sprecato e spremuto, esente dalle leggi digitali nel
complesso storage del nuovo amplesso.
Ho infranto le porte dei Regni per entrare nella voragine del pathos.
L’audacia indefessa che si ottiene solo intagliando l’anima sul filo della
squama in celluloide.
La deriva dell’immaginario raccoglie un nastro sincopato che racconta in maniera
digressiva le emozioni che vi hanno preso parte.
Il poliestere in cellulosa è nel mio corpo che si adora, l’auriga che segnerà la
strada per la mia fine e l’estrema guarigione.
Il colpo allucinatorio del flashback della prossima esecuzione.
Nell’arresto simbolico del mio controcampo, la metafora nel montaggio è
perfetta.
Ad un’ora dall’aurora, le cappe lordose della luna ritagliano una flebile fiamma
nel tempo reale di una diversa panoramica.
Dissolvenza in apertura.
La luce greggia della clessidra del sole, spacca la sovrimpressione con una
linea nitida e verticale.
Torno al primo piano d’origine.
Sprofondata nella poltrona ergonomica del mio ufficio, sgancio ogni repertorio
del dubbio.
Premuta contro l’enorme schienale, strizzo gli occhi contro la luce cruda della
telecamera.
Al Grand Hotel Royal, inizia un nuovo giorno.
Ciak.
Si gira.