Musa

di  Sophieboop

 

 

  Finalmente ho trovato la mia donna. Indossa lunghe gonne di foglie e ha i capelli lunghi e corvini, striati di un rosso mestruale, a cui mi posso aggrappare per domarla, direzionarla, dirigerla a solcare abissi dalla prua della nave, come una polena da annegare. Da trasformare in fertilizzante nel punto in cui il mare è più profondo.
La mia donna ha incontrato tra le bolle il canto salato delle sirene, bolle che ha fatto scoppiare una ad una con le piccole dita dispettose ornate di artigli per drogarsi di ossigeno. Ha raschiato gli angoli delle grotte per raccogliere minuscole conchiglie da infilarsi nelle orecchie per sentire sempre l’eco del mare.
La mia donna sbalzata dalle onde ha puntato le stelle con una carabina di stelle filanti, gli ha fatto il solletico mentre sghignazzava nella tempesta. La mia donna si è fatta togliere un seno per scoccare frecce più veloci nel cuore degli alberi. Preferisce amare loro invece degli uomini. E io sono una betulla pronta a piangere la sua linfa allargando i rami.
La prima volta che le ho allargato le gambe – la gonna di foglie le copriva la faccia – ho trovato un fiore intagliato in un nocciolo levigato e duro. Un nocciolo con la corteccia mobile, da scostare con dita e labbra. Lei non protestava dal suo letto d’erba e io ho infilato la mia faccia tra le sue gambe e la mia lingua è rimasta incollata al sapore della sua resina. Legata dalle fibre di un frutto acerbo da far maturare in fretta, all’ombra di piccoli gesti rapidi, sfregamenti i pietre morbide da cui far nascere il fuoco. Penetro la mia donna con la mano, la penetro con tentacoli tattili, altri tentacoli succhiano aperti il latte dal suo seno mentre con parole oscene richiamo il suo orgasmo, lo reclamo, lo provoco per poter ammirare le fiamme dello scandalo. La incito a regalarmi più forti i suoi gemiti – i suoi gemiti sono il mio cibo, le mie orecchie cannibali sonori – che rimbombano in cellule cave, suoni che sprigionano l’elettricità del corpo, finché non viene dalla gola – profonda fino alla vagina – un grido che le rivolta occhi, uno spasimo che continua a pulsare. Finché il suo corpo d’avorio non resta fulminato, terremotato, dalle radici alle punte. Tra le mie mani resta una ciocca rossa di capelli strappati. Ricrescerà. Ricresce sempre più folta, sempre più umida e spessa, come un tumore benevolo in filato in criniera.
Io resto, mi riposo a guardarla, mentre riflesso un miracolo arriva tra le mie gambe, una lucciola tra le mani, un inchiostro che accorre sulle mie dita. Le lecco. Sanno di vita.