Tre stelle inferiore

di  Sophieboop

 

 

  “Spiacente, ma questa sera siamo al completo” dice la donna alla reception da dietro la sua guardiola trasparente, guardandoci con gli occhi di chi ha visto troppo ma è convinto di non sapere niente.
Ci guardiamo in silenzio per un attimo, forse un po’ troppo lungo. E spero che tu abbia la forza di leggermi nella mente.
“Se volete aspettare finché non si libera una camera, potete parcheggiare nella piazzola e sedervi nella hall.”
La donna dice “dovrebbe liberarsene una verso le 4″ e le mie pupille si stringono stizzite di disappunto.
Io non ho voglia di aspettare. Non posso aspettare. E da come mi guardi, dalla stretta della tua mano sulla mia coscia, neanche tu.
Quando hai voglia di scopare non c’è nulla di più antipatico di trovare il motel con le camere otturate da altri corpi. Non c’è nulla di più spiacevole, soprattutto se la macchina davanti alla tua ha appena passato la sbarra che porta alle suites, e a comunicare l’ingrata notizia è una vecchia zitella arcigna che rosica come una cagna sfiancata dalla fame nel vedere tanto amore che le passa davanti agli occhi, sfrecciando veloce come le strisciate delle carta di credito.
“Bene. E adesso dove andiamo?”
“Ci dovrebbe essere un altro motel da queste parti. Ma è un tre stelle.”
“Va beh, ce l’avranno un letto, no?”
Ingrani la retro, e ci allontaniamo sulla strada lucida e viscida, illuminata solo dalle insegne della zona industriale. Capannoni vuoti. Silenzi prefabbricati.
Fa freddo, piove, e io sono tutta bagnata da prima. Sopra, sotto, e in mezzo. Voglio solo un letto in una camera riscaldata per fare l’amore con te.
“Dai fermati”
“Sei sicura?”
“Sì”
La freccia ticchetta meccanica, poi tace e ci troviamo davanti a una costruzione grezza e a una sbarra. La guardiola è piena solo i luci al neon e mobili rivestiti di formica grigia. Tutto molto cheap. Ma lo sappiamo. Questa sarà la nostra avventura low cost. La nostra notte alla Bonnie & Clyde in fuga dalla tachicardia infrasettimanale.
Non si vede nessuno, solo un principio di villaggio dell’amore. 3 stelle inferiore, con gli intonaci scrostati e le siepi calve. Aspettiamo ma ancora non si vede nessuno. Dopo un colpo di clacson emerge un signore sulla 60ina, i capelli bianchi e lo sguardo spento. So già che farà il tirchio. Gli diciamo che ci fermiamo per la notte. Per la modica cifra di 80 euro, da pagare subito, prego. E ribadisce con aria scocciata che le stanze “devono essere liberate entro e non oltre le ore 12″.
Il simpaticone fa cadere nella tua mano un blocco che sembra una tetta d’ottone, a cui è attaccata la chiave della camera numero 22. Ci dirigiamo verso la nostra camera, una casetta nascosta da cespugli che non hanno un incontro ravvicinato con il giardiniere da diverso tempo.
Aprendo la porta ci accorgiamo che la maniglia è montata al contrario. Entriamo e la stanza si riveste debolmente di una luce triste e umida, squallida.
Squallida come la chiazza umidità che trasuda dal soffitto, come la doccia monoporzione castigata in un angolo del bagno. Una luce troppo corta, come la coperta marrone vecchia e spessa, ruvida di acari, come la superficie graffiata dello specchio, che non riesce a inquadrarti nei tuoi 182 cm. Fredda come il pavimento nudo e senza tappeto, come le lenzuola di cotone con le pieghe della stiratura che risalgono a un momento morto molto tempo fa. Una luce squallida, corta e fredda per noi due che ci baciamo in piedi, stringendoci nel passaggio davanti al letto, con la ventola della stufetta fa le fusa, come un gatto morente che canta la sua sinfonia di malinconie e topi mai catturati.
E pensare che dovevamo trovarci in un lussuoso motel a 4 stelle, con vasca idromassaggio doppia, letto king size, broccati e velluti, riscaldamento, marmi, luci soffuse. Ma è nel grigio che i colori risaltano di più.
Ti guardo nei tuoi occhi che mi guardano e capisco che non mi importa davvero di niente, di niente di tutto quello che abbiamo attorno, del mondo che c’è fuori e brulica più degli acari della nostra coperta. La butto sul pavimento, che ora avrà un tappetino, e mi lascio cadere sul letto, trascinandoti con me. E ci mettiamo a ridere. Sì, ridiamo a crepapelle e anche la chiazza di umidità sul soffitto ci fa ridere tanto da tagliarci il fiato. Ridiamo della doccia troppo piccola in cui potremmo stringerci meglio, ridiamo della stufetta rotta perché vicini ci riscalderemo di più. Ridiamo anche dello specchio troppo piccolo, che si perderà gran parte dello spettacolo, e ridiamo del pavimento freddo perché per non calpestarlo staremo sempre a letto.
Le tue mani iniziano a frugare sotto la mia maglietta, tirandola su, fin sopra il reggiseno. La tua lingua a esplorare il mio collo mentre le tue mani iniziano a slacciarmi in pantaloni, a sfilarli, lasciandoli a mezze gambe, a sfiorarmi piano piano.
“Dai, mi fai il solletico!”
“Prima godevi quando lo facevo, e adesso ridi? Eh?” e ti butti di nuovo, spietato, sopra di me.
“È che non posso farne a meno, – la tua mano mi sfiora ancora, e io mi contorco negli spasmi della risata – no, dai basta, ti prego!”
Ma tu continui, tormentandomi a piccole dose, ricominciando appena smetto di ridere. “Basta, basta lasciami in pace! Ma non lo sai che il solletico è una tortura?”
“Sarebbe una tortura che ti bloccassi le mani, così” – e la tua mano velocemente mi afferra i polsi bloccandoli dietro la mia schiena.
Di colpo smetto di ridere e la mia bocca smette di contrarsi, allentandosi in un sorriso strano, pervaso da un’illuminazione perversa, stupefatto per il brivido che mi è salito lungo la schiena. Mi mangi la bocca con un bacio, senza mai lasciarmi i polsi. Io la lascio lì, aperta, polposa, con gli occhi chiusi, offrendola ancora alla tua lingua e ai tuoi morsi, al tuo cazzo che ora se ne sta eretto, davanti a me, come un idolo da venerare. E inizio a baciare la tua cappella, succhiandola come un frutto maturo, sussurrando piccoli morsi, fino a prenderlo tutto, abbracciandolo con la lingua devota.
Sempre tenendomi per i polsi, mi costringi dolcemente a girarmi e sorreggermi solo sulle ginocchia puntate sul materasso molle, offrendo anche il culo al culto del tuo piacere. Il mio respiro diventa più corto, incitato continuamente dal mormorare dell’eccitazione e dalla scomodità comandata della posizione. Mi lasci le mani per permettermi di sorreggermi meglio e mi dici di stare ferma. E io ubbidisco, perché ti ubbidisco sempre. Con le mani divarichi le mie natiche, fino a intravedere il fondo plug che mi hai fatto mettere prima di uscire. È un piccolo bulbo d’acciaio freddo, decorato con una gemma rosa alla base. E quella gemma viziosa e opulenta che ammicca dal mio culo stona così tanto in quell’ambiente privo di ogni lusso che lo togli, quasi strappandomelo di dosso, come un saggio indignato di fronte a una ricchezza inutile. Guardi estatico il mio vuoto dilatato e affamato dall’improvvisa privazione e poi ti sento venire più vicino a me, più addosso al mio dono nudo e sento il caldo del tuo cazzo duro che si posa in mezzo all’altare della mia carne, che si sfrega, che inizia a godere.
Con una mano inizi a toccarmi il clitoride gonfio di eccitazione, facendomi mugolare una litania di gemiti e contrazioni estatiche. Mi dici di continuare, mentre ti il metti il preservativo. E io continuo a masturbarmi con il fervore ipnotico di chi si vuole guadagnare un miracolo e la benevolenza del suo dio.
Quando torni mi afferri per i fianchi e benedici la parte più nascosta di me con uno sputo e l’umido delle preghiere raccolte dalla mia mano.
Non c’è bisogno d’altro per far scivolare perfettamente il tuo cazzo dentro di me, seguendo con lenta e solenne voluttà il rituale del piacere che ti fa entrare e uscire da me, che mi fa entrare e uscire dalla realtà e da me stessa, per rivelarmi un godere che non avevo mai provato. Come se il mio culo fosse l’ingresso che porta ala trascendenza.
Come un’infinita corrente che scorre sui miei nervi, nelle mie viscere e mi dà alla testa, come una velocità così folle da farmi sentire il freddo sulla pelle e il fuoco che mi brucia in pancia, come una scossa di infinite illuminazioni orgasmiche che mi spinge a osannare il tuo cazzo dentro di me, cercando tutti i modi per celebrare il nostro amore e propiziare un sesso profano che mi lascia vuota di certezze e piena di vita, che urla rinata a ogni colpo, sempre più violento. Mi allontano bruscamente e ti faccio stendere sul letto, montandoti da sopra, posseduta dalla fame sfrenata che ho di te.
Lo voglio, lo voglio dentro di me, lo voglio sentire fino all’anima, lo voglio prendere sempre di più per riuscire ad afferrare la profondità nuda di questa sconvolgente visone carnale, che mi trascina in un’orgia di orgasmi non appena sento esplodere il tuo dentro di me. Deliro, tremo, urlo con gli occhi al cielo e la schiena inarcata nello spasmo, e la mia carne morde e sbraita e viene senza controllo, posseduta e liberata dal piacere.
Mi accascio sopra di te e ti bacio, stremata.
Dentro di noi, dentro la nostra stanza, si è appena concluso un talk show di organi genitali e gemiti sguaiati, liberi dai pudori della società, liberi dall’educazione della cultura, c’è un gesticolare sconnesso e furioso e un ballo di movimenti assetati di vita come pesci fuori d’acqua. Una scopata senza fronzoli e senza rimpianti che arraffa tutto quello che può con le sue mani ruvide di fatica, sporche di istinti, forti d’amore.
Fuori dalla nostra stanza, lì, nella realtà del corridoio del motel, inizia talk show popolare su taglie calibrate e detersivi tra le cameriere.
E noi ci addormentiamo tranquilli, perché non ci manca niente.