Il bosco dentro

di  Valeria Bucchignani

 

 

  Ha mani gelate che spariscono sotto la gonna e sfilano lo slip di voile senza domande nello sguardo. Il mattino è un manto di brina. E’ luce dorata che cade radente e ammorbidisce il chiarore del giorno strappato alle abitudini e all’assenza. E’ sportelli che sbattono, un bacio fuggiasco, fiato che condensa e ci nasconde. E’ quest’abitacolo scomodo in cui avviene la mia s-vestizione. Lo guardo sospesa tra meraviglia e distacco. Lui, che detesta gli orpelli e le sofisticazioni, che chiede la pelle nuda, nessun filtro tra me e i suoi occhi, tra me e le sue mani, mi toglie e mi rimette gli abiti senza sfiorarmi. Potrei dirlo distante, se non fosse totalmente e ostinatamente concentrato su di me. Dopo le mutandine, via il trench, via il pullover, via la gonna, fino a lasciarmi nella mia sontuosa, esagerata guêpière tutta lacci e pizzi che aggancia lunghe anacronistiche calze chiare. Come fossi un quarto di carne al gancio, mi soppesa con uno sguardo affamato. Mi rimette il trench, mi annoda con cura la sciarpa al collo e, finalmente, parla:
- Hai freddo?
La mano che si riempie della mia guancia è un nido.
- Sì
Sorride e mi allaccia la cintura di sicurezza. L’auto parte con un lieve stridore di freni, a coprire il “bastardo” che sussurro col sorriso. Il paesaggio che attraversiamo è magnifico, lo immagino, perché non lo guardo. Non riesco a staccare gli occhi dalle sue mani, bianche e forti, che si muovono come farfalle tra volante e cambio. Le mie invece sono ferme, una aperta a conchiglia sul suo sesso che reagisce sotto il tessuto. Amo custodirgli il cazzo come fosse un segreto fra noi. Amo il lavoro oscuro del lievito madre, il fermento sommesso della voglia a cui mi dedico con devozione.
Ci manca questa stagione da vivere insieme. La marcescenza della natura conduce ai cambi dell’anima e noi siamo quasi pronti al silenzioso patto, al grande impegno di lasciarci soli. E’ di quasi in quasi che andiamo avanti, restando sempre fermi. Avverto la fodera liscia e fredda sotto le natiche nude e lacrimo di desiderio compresso nell’attesa.
Lasciata l’auto sul bordo della strada, seguiamo un sentiero che s’intuisce appena, o meglio, io seguo lui che segue il sentiero. Lo seguo anche se lo precedo, alta sui tacchi, ché anche se avessi scarponi da montagna sarei comunque in bilico.
- Se tu ti vedessi, donna di mare! In acqua sei potente e hai la grazia del delfino, qui sei piccola, incerta e vulnerabile, sei la pecora smarrita.
Sono come mi vuoi. C’incontrammo, ma già ci conoscevamo. E’ in questo rinnovarsi del gioco delle parti la sostanza della nostra intesa? O è l’essenza di una storia del tutto inventata intorno alla quale, inaspettatamente, germoglia la vita?
Mi ha spedito una scatola, una volta. Nella scatola c’era un pane, avvolto in una stoffa ruvida. Un pane vero, ancora fragrante, lo potevo annusare, toccare, mordere, sapeva di buono e potevo chiamarlo per nome.
- Giulio! Come si chiama quel cespuglio che dà frutti rossi? E quest’albero che sembra stia in disparte?
Il bosco ci accoglie come una grande madre di sangue e di fuoco nella quale c’immergiamo stupefatti. È la parte oscura e densa a cui siamo condannati. Siamo il primo uomo, la prima donna. C’è un odore di materia putrescente mescolato a profumi di funghi e legna, un sentore di lieviti e terra bagnata che toglie il fiato e affama le narici di un odore più acuto e più intenso. Vaghiamo cercando un messaggio, non importa se indecifrabile, ci basta anche il ricamo delle oscillanti ragnatele inarcate di perle d’acqua.
Piovono foglie e lì, sotto i castagni, quel tappeto immenso, d’oro, di rame e fango, tessuto dalle foglie vecchie con la pazienza di un anno dopo l’altro, non è la nostra storia. Non è su quel sottobosco umido e brillante che lascerò che mi prenda, ma contro la corteccia ruvida di un acero inesperto che non ha mai provato la curva di una schiena.
- Lo senti come la morbida pelle delle tue braccia e dei tuoi fianchi anelano ad essere costretti?
Mi scioglie la cintura del trench e la usa per unirmi i polsi, sapendo che non ce n’è bisogno, perché è nella mia mente che annoda corde. Ma la liturgia del possesso è fatta di apparenze a cui non vogliamo rinunciare. Il rito si apre come il mio trench, con i bottoni che saltano e la pelle che s’increspa.
Bacche di sambuco e viburno come ornamento. Il sorbo rosso per le punte acute dei miei seni e la prugnola violacea tra le labbra della fica. Mi ha conquistata con un ramo di rovo carico di more, chiuso in una valigia e da allora non ha mai smesso. Quando l’ho conosciuto sapevo già resistere, cadere, rimettermi in piedi, ero già la matrioska che nasconde al suo interno la sua immagine rovesciata, ma non lo sapevo.
Lui mi ha rivelato a me stessa. E’ lo scrigno che custodiva la mia docilità. Mi insegna ad essere povera, a zoppicare; mi insegna la disperata ironia di vivere fermi, senza futuro, a lasciarmi attraversare da quello che arriva e se ne va, a prenderle, darle, con dedizione, senza pudore, a occhi aperti nella notte buia.
Non colpisce mai duro, lascia segni indelebili. Lui mi ha segnato, io l’ho segnato. Segni più profondi di quelli lasciati sulla pelle. Siamo comunione, ricerca, abisso, tesoro e sconfitta. Siamo l’autunno, a primavera.
La sua lingua mi lambisce le labbra, passa a lenire ogni traccia in cui si annida lucida e rossa l’appartenenza. Mi vendemmia, spreme chicco a chicco e morde, succhia, si solleva ubriaco. Gli leggo negli occhi un’eccitazione convulsa, una marea nera che sale, sale e che trova solo alto mare. E’ uno sguardo opaco, l’astigmatismo del cuore.
Entra dentro di me come chi entra spalancando una porta, affonda radici, fiorisce, moltiplica frutti, invecchia, torna bambino. Fino al respiro chiuso negli spasimi, fino ad ancora e poi basta e poi ancora e ancora basta e poi ancora. Lui è un grande albero piantato nel mio torace, la gabbia dei rami a custodirmi organi allineati come pianeti, l’ombroso andirivieni delle foglie, le spine, la neve a maggio.
E stiamo lì, finiti non so come contro un masso ricoperto di morbido muschio, silenziosi, presi dall’incanto, da una maledetta voglia di piangerne.
Finché un merlo spavaldo venuto a beccare semi vicino alle nostre caviglie ci riporta indietro e c’incamminiamo, come se fosse possibile tornare a casa.
La nostra casa è una teoria di stanze che stanno una dentro l’altra, una verso l’altra, senza centro e senza periferia, priva di scorza, esposta a tutti i venti. La nostra casa è ogni sosta, ogni bosco, ogni luogo il cui nome non ha importanza perché è solo perdersi e poi sperare di essere ancora degni d’amore.