L
e trentatre noci
 
 

 

 


La colpa fu tutta della stagione che aveva tardato tanto a mettersi in riga col calendario.
Che rallentò dapprima la fioritura, poi l’arrivo degli insetti e la ripresa del ronzare dei calabroni, delle vespe, dei bombi e soprattutto delle api. La stagione era cominciata senza insetti.
Quasi fosse stata una maledizione.
Matteo ripensò all’articolo che aveva letto sulla carta del giornale in cui erano state avvolte le coste che Marianna aveva preso al mercato, l’autunno prima. Ricordava la discussione per l’acquisto della verdura fuori stagione – questa moda tutta cittadina che quando nevica uno deve avere a forza l’insalata verde e i pomodori più ramati, almeno noi risparmiamocela Marianna – aveva esclamato.
Poi, svolte le coste, bellissime e carnose, nate al caldo protetto e artificiale di qualche serra sconosciuta sfidando i campi già brinati la mattina, nutrite più probabilmente dalla chimica che dal concime, aveva letto su quel foglio stropicciato di giornale quell’articolo sulla scomparsa delle api. Einstein citato diceva che l’uomo sarebbe sopravvissuto solo pochi anni alla scomparsa delle api.
E fu così che a Matteo venne in mente il vecchio gigantesco noce.
In mezzo al prato grande, vicino al cascinale abbandonato dei Vizzola, e a quando da bambino andava a giocare con Marco e Andrea, i nipoti del vecchio Vizzola, di professione saggio e contadino, l’ultimo ad aver abitato lì prima che la famiglia si trasferisse in città come molte della frazione.
Matteo che viveva già in città da poco dopo esser nato, nelle vacanze che passava lì al paese dai nonni, ritrovava i due amici ogni estate. E nella testa leggendo quell’articolo bislacco risentì il rumore degli alveari posti sotto l’ombra enorme del noce che nelle giornate di allora ronzavano come motori di aereoplano e loro bambini non osavano avvicinarsi più di tanto pur atteggiandosi a indomiti sbruffoni.
Decise così che quell’anno lui e Marianna avrebbero fatto il nocino come si ricordava lo facevano le zie quando era bambino.
Erano tornati a vivere, oddio, tornato lui, perché Marianna veniva da un paese piccolissimo vicino a Cracovia, dal nome impronunciabile, con più consonanti che vocali, lì al paese solo da pochi mesi. Matteo aveva perso il lavoro, Marianna in compenso uno fisso non lo trovava, cresciuta in un paese che prevedeva negli anni delle illusioni che si potesse vivere suonando il violino e dandone lezione prima di essere costretta ad emigrare. E la casa in città era diventata un lusso in mezzo a tutta quella crisi, l’affitto e le spese da pagare, e la casa di famiglia vuota da anni ad aspettare solo che qualcuno ci volesse ritornare.
- Proviamo a viverci, la vita costa meno e io col computer qualche lavoretto in attesa di trovare di meglio lo posso rimediare, mica occorre essere in città nell’epoca della rete per lavorare – le aveva detto un giorno, dopo aver passato una notte assai agitata a ripensare alla loro situazione.
Lei non aveva detto né no né sì. Nemmeno allora.
Erano molti mesi d’altro canto che parlavano assai poco.
Non parlavano più nemmeno del figlio che non ne voleva sapere di arrivare. E non parlavano più delle discussioni che, iniziate rare, poi intensificatesi e fattesi più fitte, tese e dure, erano mano mano poi scemate. Perché Marianna, erano mesi ormai che non aveva voglia di fare l’amore e quando lui abbracciandola in casa o nel letto la notte la cercava si scansava come se a toccarla lui, adesso, le avesse fatto male.
- La casa non ci costa nulla, ti piacerà, vedrai, alla fine è quasi una fortuna quella che è capitata. E poi la città è vicina, meno di mezz’ora, no siamo onesti tre quarti d’ora ci vogliono, e ci siamo, se vogliamo vedere gli amici, andare al cinema o fare qualcosa di diverso una sera -
Marianna aveva fatto solo un gesto con la testa, finendo di piegare i tovaglioli da stirare - … e poi se trovo un lavoro io posso fare il pendolare, e tu se trovi lezioni di violino da dare ancora come lo scorso anno, c’è un autobus ogni ora e vedrai che bella è la campagna dei miei nonni, secondo me vedrai che riusciremo persino… - non ebbe il coraggio di dirle di aver pensato al figlio che non arrivava, ma seppe che lei lo sapeva quello che stava per dire, per come lei smise di guardarlo mentre le parlava e si voltò a riporre i tovaglioli.
Avevano rimesso in ordine la casa, una cascina lunga e stretta con l’aia a fare da corte e parcheggio per la macchina, l’estate prima. Matteo vi aveva speso weekend interi a imbiancare e pulire.
Aveva ritrovato in quei mesi Andrea, il più grande dei Vizzola, che aveva ripreso a passare le vacanze da anni lì al paese, Marco il fratello lo raggiungeva per massimo una settimana e viveva all’estero da anni per lavoro.
E, dimenticandosi persino la rivalità che avevano lui e Andrea da bambini nei loro giochi, Andrea era più forte e lo metteva sotto ogni volta se lottavano, correva più veloce e vinceva ogni corsa, sul noce arrivava ai rami più alti quando invece Matteo si fermava per paura, aveva ritrovato nell’amico anche un aiuto prezioso nei lavori che da solo non riusciva a fare.
E poi con Andrea presente aveva meno paura dei silenzi di Marianna quando veniva anche lei insieme a lui a vedere come andavano i lavori. Rideva e scherzava con Andrea e Marianna sembrava tornare a tratti per incanto quella che conosceva e aveva portato con se in Italia, innamorati persi senza quasi parlare la stessa lingua anni prima alla fine di un’altra estate. Sì, buoni amici, una vita più serena e un posto così bello avrebbero fatto bene a loro due, si ripeteva nella testa e ripetendolo continuava a sistemare, riparare, lavorare.
Fu alla fiera del paese vicino, in inverno, poco dopo che si erano trasferiti nella cascina riattata dalle pareti azzurrine e gli infissi bianco latte, che trovò il libro.

Perché la colpa non fu solo della stagione che aveva tardato ma anche della fiera. E di quel libro.
Il libro era vecchio, gialle le pagine per il sole e la luce di molti anni, lungo la costa un poco rovinata, bianche ancora se lo sfogliavi, ma non usato.
Piccolo, aveva disegni, illustrazioni in bianco e nero al tratto, simili a copie di stampe antiche, e non foto.
E uno dei disegni era quello di un prato, un prato che lui riconobbe come se a disegnare quella tavola fosse stato qualcuno che aveva calpestato insieme a lui quel prato. E si fosse come lui da bambino inerpicato sfidando maestosi rami torti e gravità sopra quel noce. Non poteva essere il noce del prato dei Vizzola, era impossibile, si disse, ma così tanto gli somigliava.
Comprò il libro.
“Streghe, magie, ricette e miracoli delle nostre campagne”, nemmeno il nome dell’autore sotto il titolo come se il libro si fosse scritto da solo. E fu lì che ritrovò, con mille altre notizie sul sabba del sostizio, diventato poi San Giovanni nell’era dei cristiani, la ricetta del nocino.
- Vedi Marianna, tu hai comprato le coste, io ho letto il pezzo di giornale e ho pensato alle api e poi alle noci, e ho comprato mentre tu compravi al banco delle verdure da mangiare il libro con la ricetta del nocino, poi dì che non esiste un destino a legare anche le più piccole cose, che le cose della vita non sono un’unica catena, anche le più insignificanti e ti fanno fare, guidandoti quasi, mille piccole azioni… - e aveva riso porgendole il libro aperto sulla doppia pagina in mezzo alla quale l’albero maestoso campeggiava disegnato al tratto sull’erba rasa in cerchio perfetto intorno al fusto e sotto l’ombra delle chiome imponenti come le corna del cervo più maestoso.
- Guardalo.. e dimmi se non è proprio il noce dove siamo andati a mangiare quest’estate io te e Andrea dopo aver sistemato il tetto della cucina che ci pioveva, e Andrea ha portato il vino dolce fatto da suo zio che a te piaceva tanto ed eravamo così felici all’ombra mentre il sole marcava il cerchio dell’erba con la luce e tu hai detto che ti ricordava le leggende del tuo paese e sorridevi - e Matteo ha un sorriso così bello mentre le porge il libro e la rivede così bella in quella giornata in cui lei era nuovamente finalmente così felice che lei vedendolo, nel chinare gli occhi sul disegno, arrossisce.
E Marianna lesse il libro.
Matteo copiò la ricetta del nocino, le 33 noci, come gli anni del Cristo, col mallo verde che macchia le mani.
L’alcool purissimo, un litro, da comprare in drogheria e lo zucchero.
Le noci da raccogliere non oltre San Giovanni, il 24 del mese di giugno, perché San Giuan fa’ minga ingann...
Matteo appese la ricetta al pannello di sughero che aveva messo appeso al muro vicino al frigorifero in cucina, vicino al numero della Guardia Medica, a una foto di loro due un po’ sbiadita e sollevata agli angoli per la luce, fatta davanti al Castello Sforzesco di Milano, a cinque foglietti colorati con i numeri di parenti e amici che prima o poi Marianna avrebbe ricopiato nell’agenda nuova posata sulla mensola vicino al telefono e al televisore.
Poi lasciò il libro sul tavolo, aperto. Marianna lo prese in mano, sedendosi, mentre lui usciva dalla stanza e cominciò a sfogliarlo incuriosita.
E fu così che lesse cose che le parlavano di quando era bambina.
Leggeva meglio in italiano di quanto in tutti quegli anni avesse poi imparato a scriverne e persino a parlarne.
Cominciò a leggere dei fuochi e dei falò che anche loro facevano per propiziare la fertilità dei campi e delle donne prima dell’estate, e si toccò il ventre con un gesto dolce e d’amore.
Poi mise il piccolo libro nella tasca dei jeans e per mesi non se ne separò quasi mai. Lesse e rilesse, si ripropose di comprare l’aglio nuovo per San Giovanni perché anche lì come da loro quell’aglio comprato proprio quel giorno le avrebbe portato prosperità e felicità, finalmente. Si ricordò di sua nonna, le tornò in mente il misto di rispetto e di paura che la circondava quando scendeva in paese portandosi per mano la piccola nipote bionda e rossa in viso per il sole delle loro estati. E come tutti abbassando la voce, mentre lei bambina passava andando in chiesa la domenica mattina la chiamassero la nipote della strega. Si ricordò della dolcezza della donna anziana che era morta che lei ancora era bambina, dei discorsi che allora le faceva e lei troppo piccola non capiva.
E si sforzò di ricordarsi come si chiamasse nella sua lingua quell’erba, ma proprio le sfuggiva il nome ora, che il libro di Matteo chiamava iperico e nel disegno lei riconosceva ancora.
Si ricordò che la nonna le aveva insegnato a cercarla, e a raccoglierla.
E insieme ad altre otto, ma quali erano non se lo ricordava, e ci impazziva in questa nuova primavera a furia di pensarci su per ore intere guardando fuori dalla finestra verso i campi e gli alberi fuori dal paese. Quelle erbe messe sotto il cuscino davano alla nonna sogni premonitori, se solo avesse saputo trovarle anche lei ora,… Ricordò che la nonna aveva predetto la morte della loro unica mucca perché il vitellino non si era girato al momento del parto e anche il matrimonio di Elena, sua cugina, con quell’uomo ricco e colto che le aveva fatto girare il mondo quando lei era ancora bambina e in casa tutti parlavano di Parigi, Londra, New York e dei mille posti da dove Elena spediva loro lentissime cartoline che arrivavano spesso senza francobollo perché qualcuno all’ufficio postale probabilmente se li rubava. Ricordò solo queste due premonizioni, senz’altro non perché la nonna non ne avesse avute altre e tutte centrate, si disse con l’entusiasmo di una bambina, ma forse perché erano le sole per importanza ad esserle rimaste in mente sino ad allora. Ricordò leggendo del ramo di felce che portava guadagni e di come con le nove erbe facessero anche loro un’acqua, arricchita dai raggi della luna che era curativa e preventiva perché come diceva il libro “la guazza di Santo Gioanno fa guarì da ogni malanno”.
E cominciò ad andarci anche da sola nel prato del noce dei Vizzola e lì intorno, nei giorni della primavera, a cercare le erbe del libro, confrontandole con le illustrazioni, mentre Matteo al mattino era in città per il lavoro di consulenza che un amico gli aveva procurato.
Matteo e Andrea nelle domeniche in cui si vedevano tutti e tre scherzavano su queste sue escursioni e sul rigonfio del libro nella tasca dei jeans di Marianna che non la abbandonava mai da mesi.
Le cose tra Marianna e Matteo non era che si fossero poi molto sistemate, erano finalmente solo meno tese e a Matteo alla fine bastava il piccolo progresso del vederla sorridere più spesso, del sapere che usciva di casa e si perdeva a girare le campagne dietro alle sue erbe, che era persino andata a posare due nuovi alveari con Andrea vicino al noce e poi gli aveva raccontato tutta eccitata, quando si erano ritrovati a casa, lui di ritorno dal lavoro in città. che bastava non aver paura e nessuna ape l’aveva punta o mai l’avrebbe fatto. E che aveva ragione la nonna quando lo diceva. Che nessuna ape punge chi non ha paura.

Non fu solo colpa della stagione che all’inizio non si allineava. Né lo fu solo del libro che Marianna custodiva. La vera colpa fu proprio del nocino.
All’avvicinarsi della fine di giugno la campagna era letteralmente esplosa.
Matteo si era riscoperto l’allergia che aveva cominciato a tormentarlo da bambino e che allontanandosi dalla campagna con un po’ di cure era quasi riuscito per anni a dimenticare. Spesso doveva scegliere la stanza più buia per dare, oltre all’uso del collirio, un po’ di pace agli occhi e decongestionarli. Due pastiglie al giorno gli davano un po’ di sonnolenza ma gli erano di aiuto come spesso erano i getti di acqua fredda presi a mani aperte dal lavandino e portati a sbattergli sul viso a dargli pace quando proprio non ce la faceva. Per settimane uscì poco oltre al tempo del lavoro cercando ristoro nella penombra e nel fresco della vecchia casa. E lasciò che Marianna, che ormai ogni giorno, calato il tempo degli esercizi di mantenimento col violino, aveva il suo appuntamento con le sue erbe e i prati, mantenesse quel suo piccolo piacere nell’uscire ritrovato.
- Vai, non preoccuparti, poi ho anche le mie cose di lavoro da rivedere – ma in realtà spesso si sdraiava al buio, chiudeva gli occhi dopo averli bagnati e si lasciava andare coi pensieri, cercando requie al bruciore di occhi naso e gola, e dicendosi che sì, quella sera, se stava bene, se si fermavano gli starnuti e quel terribile bruciore, avrebbe provato a rifare l’amore con lei, che ora le sembrava più serena e probabilmente l’avrebbe ricominciato a fare anche lei con piacere senza metterlo in imbarazzo o di cattivo umore perché senza parole lo rifiutava, che sì secondo lui la campagna la stava facendo uscire davvero da quella brutta depressione. Ora lei rideva, sorrideva, aveva voglia di fare cose, e alla fine quella di andare a vivere lì era stata la sua scelta migliore. Dopo quella di averla amata e portata via con sé quasi senza che all’epoca si capissero tra loro le parole con cui si scambiavano pensieri e amore.
Verso il tramonto in quei sabati prima di inizio estate Marianna tornava dalle sue brevi sortite, portava le sue erbe, a volte lamponi o more. Si metteva al tavolo, attenta a non farne cadere e non mettersi troppo vicino a lui perché non potessero farlo stare male, apriva il libro sfilandolo dai jeans e confrontava piante e illustrazioni. Poi buttava quasi tutte le sue erbe, avvolte nel giornale su cui le aveva svolte per guardarle, alcune invece le legava col filo per cucire, scegliendo ogni volta non si sa in base a quale codice, con cura, il colore, e le riponeva appese a testa in giù all’ombra del portico a seccare, prima di mettersi a preparare cena.
Spesso al sabato da mesi li raggiungeva Andrea, che da ospite non dimenticava mai di portare un paio delle bottiglie di quel vino rosso un po’ dolce che a Marianna tanto piaceva. Quello fatto dai suoi zii con le uve della vigna del Fosso Ombrone, la migliore delle loro proprietà, un po’ in salita, oltre il prato del noce, e col terreno più argilloso. Che aveva fatto scoprire a Marianna perché lì tra i filari cresceva spontaneo quell’iperico che nel prato del noce non si riusciva invece a trovare.
Dopo cena chiacchiere o a volte un film noleggiato e visto insieme.
Poi, quando Andrea andava via, il raffreddore e l’asma rinviavano ancora di una notte il momento in cui Matteo avrebbe affrontato e forse risolto la sua fame d’amore.
E fu così che arrivarono a quel martedì 23 giugno.
Matteo uscì per andare in città al lavoro con l’intento di andare, al suo ritorno, prima del tramonto al noce a raccogliere le 33 noci per il loro liquore. Ricordò a Marianna che rileggeva per l’ennesima volta il suo libricino abbandonata con le gambe a cavallo del bracciolo della poltrona l’incombenza di comprare al massimo entro il giorno dopo in paese l’alcool per liquori.
Marianna assentì distratta, rileggeva le piccole magie della nonna al suo paese, la felce per i soldi, le nove erbe del Santo per le premonizioni e il falò, pur piccolo che aveva preparato nell’aia per la sera, con rami secchi, foglie, erbe, giornali e qualche pezzo di asse rimasto dai lavori di ristrutturazione, per propiziare la fertilità della stagione.
Matteo uscì felice del sorriso e della serenità che lesse in viso a Marianna quel mattino.
Le carezzò il viso e osò una piccola avance, per lui inequivocabile tanto che si stupì di averla fatta, dopo, unendo alla mano di lei posata morbida sul suo ventre la sua, in una carezza prolungata, quasi a dire che magari era la notte giusta quella in arrivo per volare un poco insieme, ancora.
Tornò tardi la sera, era già buio.
Che col lavoro di consulenza mica si può fare l’orario degli statali, in fondo. Gli chiesero di finire il lavoro che andava consegnato dal suo committente entro l’indomani e così Matteo rincasò, con il lavoro non del tutto terminato, che Marianna aveva cenato, mangiò formaggio e prosciutto mentre lei lo guardava e lo ascoltava raccontare del contrattempo. Poi si ritirano nella stanza troppo stanchi e lui con un attacco di starnuti inesauribile proprio prima di dormire.
Partì presto verso la città al mattino del mercoledì, il penultimo mercoledì di quel giugno. Per finire il suo lavoro, partì che Marianna ancora dormiva.
E fu presto che rincasò, perché se il nocino doveva essere, che fosse coi dovuti crismi, e già la sera prima era stato troppo tardi per andare a raccogliere le mitiche 33 noci per fare il liquore proprio nel giorno magico in cui il sole fa l’amore con la luna, come diceva il libretto ormai di proprietà di Marianna parlando del solstizio. Il fuoco e l’acqua e il loro sponsale perfetto due volte l’anno.
E lui allora era corso appena aveva potuto perché era quello il giorno, doveva raccoglierle la notte prima ma il 24, il solstizio, il piccolo sabba che i cristiani vestirono con la loro religione impadronendosi della sua magia secolare, andava ancora bene.
Guardò in cucina, chiamò Marianna che non gli rispose. Pensò che lei era l’acqua in fondo con la sua carnagione chiara e gli occhi azzurri come il ghiaccio. Che lei era la luna con le sue malinconie e che rifuggiva persino dall’abbronzarsi quasi, e che al massimo la sua pelle arrossava un poco ma scura mai l’aveva vista.
Poi pensò a se stesso come sole e come fuoco e quasi gli venne da ridere.
Vide per terra rovesciata la borsa della spesa, Marianna era già stata in paese, molto presto probabilmente dopo che lui era uscito. La bottiglia di alcool c’era e un pacco di zucchero nuovo pure. Una fila di formiche doveva esserne già accorta perché passando come un filo unico di antenne e microscopiche zampe nere sotto lo stipite della porta puntava diritta al sacchetto di carta aperto e rovesciato al suolo.
Chiamò Marianna, luna e acqua, la rivide un attimo nell’impronta lasciata da lei nella poltrona su cui l’aveva carezzata, mentre il giorno prima lei si carezzava il ventre dolcemente.
Poi si sentì agitare.
Guardò il sacchetto rovesciato come se lei, di solito quasi pignola, avesse lasciato in fretta la casa senza nemmeno raddrizzare la bottiglia piena. Inghiottì di corsa una pastiglia di antistaminico e si precipitò fuori a sua volta senza chiudere la porta. Accelerò camminando, lasciò la strada, prese una sterrata, poi tagliò per un sentiero. Un filare di alberi.
Acqua e luna.
Fuoco e sole. Dietro gli alberi un prato di erba rasa e un cerchio di ombra come una gonna di luce differente intorno al noce. E all’ombra un uomo e una donna nudi, lei sotto, lui sopra inarcato a spingersi dentro di lei quasi con rabbia e disperazione. Riuscì a trattenere gli starnuti che i pollini nell’aria gli stavano facendo arrivare alle narici irritate. Gli occhi trovarono requie grazie alle lacrime che iniziarono a colargli lavandoli e smorzandone il bruciore. Marianna e Andrea, Marianna acqua e luna, Andrea che lo vinceva nella lotta, nell’arrampicarsi, nella corsa era il fuoco e il sole.
Sul sottofondo del rumore degli insetti che gli scoppiava nelle tempie sentì la gola di Marianna gemere, chiedere, implorare, supplicare che la danza di Andrea dentro di lei durasse ancora.
La vide stringergli la schiena tra le cosce, i polpacci attorno alle sue reni.
Si asciugò gli occhi con la manica della camicia e a occhi chiusi la rivive carezzarsi il ventre come mai l’aveva vista fare sulla poltrona.
E capì a quel punto ogni cosa.

Forse fu colpa della stagione che non fu puntuale e ritardò anche le api.
Forse fu colpa di un libro senza il nome dell’autore e trovato per caso, se mai esiste un caso, su una bancarella di mercato e delle troppe combinazioni che portarono un uomo a voler raccogliere 33 noci.
Sì, fu colpa del nocino.
Se Matteo scoprì il duplice tradimento e si sentì, prima ancora che tradito, irriso. Infilando e annodando nel pensiero, di fronte a quel noce, in un lampo, con i muscoli del collo contratti allo spasimo e la gola strozzata che gli si serrava, mille insignificanti episodi che trovarono per incanto ora una sola spiegazione.
Fu colpa del nocino, a maggior ragione - e lo dissero dopo due settimane anche il verbale del magistrato e la dichiarazione dei carabinieri - se, mentre Matteo era in città a cena la sera del 24 giugno con l’amico che gli aveva procurato il lavoro, e festeggiavano bevendo forse troppo la fine del lavoro e il pagamento che sarebbe arrivato a breve, la notte del penultimo mercoledì del mese, una bottiglia di alcool purissimo probabilmente in precario equilibrio cadde da una mensola e si ruppe.
E inondò un fornello dimenticato acceso dalla donna che si era addormentata sulla poltrona attendendo l’arrivo del marito. Con l’assicurazione sulla casa e sulla morte di Marianna, Matteo poté tornare in città e si risposò, circa tre anni dopo, con una donna nata esattamente a 700 metri da dove era nato lui. Non denunciò mai Andrea per calunnie quando questi lo accusò, prima di abbandonare per sempre il paese, in pubblico, ogni volta che lo incontrava di aver ucciso lui Marianna. E nemmeno lo denunciò per lesioni quando questi lo picchiò a sangue una sera, poco dopo.
Gli esami medici sul corpo carbonizzato di Marianna dissero che la donna era incinta da poco più di tre mesi.
E che il figlio, o la figlia, se mai fosse nato sarebbe nato probabilmente il 25 di sei mesi dopo.
Per il solstizio d’inverno.
Quando nelle case è maturo e finalmente si può stappare ed assaggiare il nocino.