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Tuonò ancora più forte.
I’m singing in the rain, stravolta. Come Sid Vicious stravolse a sua
volta My way.
Tuonò ancora, un crescendo di cannone, sempre più vicino. Una, due, tre
volte.
Al riparo in qualche modo della tettoia di fortuna che a mala pena
copriva gli altoparlanti ai lati del palco, sfilai e scartai la seconda
gomma dal pacchetto delle Brooklin, gusto cinnamon.
Terribile, chimico, e a me sgraditissimo. Ma avevano solo queste al bar
del parco.
Accartocciai, automaticamente come faccio da sempre la cartina esterna
in una pallina perfetta, che lanciai sotto la pioggia con una
traiettoria tesissima, verso il pubblico che cominciava a sbandare a
destra e sinistra sotto il diluvio che aumentava.
E piegai a soffietto per il lungo la carta interna, nel palmo della
mano. Senza usare l’altra mano, un origami quasi perfetto, piega su
piega, strettissima la striscia che ne resta, a ricordarmi di quando
rollavo con la stessa maestria, senza nemmeno aver bisogno degli occhi
per aiutarmi, le canne con una mano sola, al volante, prima
dell’incidente.
Poi, improvviso e di una violenza inattesa, il lampo a giorno, come
l’ultimo fuoco di artificio, a uno spettacolo pirotecnico, quello di
maggior forza, violenza, colori, rumore ed effetto.
E poi lo squarcio nel buio cieco riprecipitato della notte, dopo
l’enorme lampo del fulmine estivo, mentre la folla correva a cercare
riparo dalla pioggia che si era fatta battente, fitta come un telo
scuro, un vero monsone sulla città in piena estate, lì nel parco di
periferia. Nel rumore dell’acqua cattiva e violenta, e nelle grida della
gente in cerca di riparo, l’urlo di Angela si perse, mentre lei cercava,
scivolando per la pioggia, di raggiungere correndo il nuovo lampo.
Che si era acceso, per un attimo soltanto, solo sul palco.
Antonio, Tony, si era illuminato. Era bellissimo.
Vero angelo punk decadente e lei aveva urlato, l’unica forse ad aver
capito da subito cose stesse succedendo.
Folgorato dal lampo giallo incendio e rosso uscito dalla sua chitarra,
si era inarcato violentemente indietro. E poi piegato, accartocciato su
stesso, avvolto sullo strumento, come una mano serrata e chiusa su se
stessa, come mai aveva fatto così bene e platealmente su quel palco.
Il suo urlo, mentre i muscoli e le dita si contraevano deformi sulle
corde nello spasimo, si era perso nella pioggia.
Poi si era accasciato al suolo, folgorato, immobile e contorto, mentre
le ultime fiamme, poche, uscivano dal pickup della chitarra, e dalla
manica destra della sua giacca, per spegnersi nella tempesta di una
notte di un agosto troppo caldo.
Fu così che cominciò tutto. Quella notte.
O forse che finì la storia di un gruppo della scena post-punk milanese,
nel 1984.
Che morì Tony.
Che non ci fu più nessun festival pop successivamente in alcun parco.
Che Angela pianse. Che la Fender blu di Tony cessò di essere una
chitarra ma fu acquisita agli atti di un’inchiesta e tacque poi per
sempre su uno scaffale di un deposito giudiziario.
Che io mi trovai a raccontare troppe storie che mai avrei voluto tirare
fuori, in questura, incominciando proprio a farlo quella notte.
Da dove cominciai non lo ricordo. Dalle mie generalità credo all’inizio
del verbale.
O forse dall’amicizia che mi legava a lui sin dall’infanzia. O da quando
io e Angela ci separammo.
Perché in mezzo a fango, con l’ambulanza arrivarono subito subito due
volanti e poco dopo, chiamate da loro arrivarono il dottor Picelli,
medico legale, e il magistrato, Susanna Marescialli, una donna.
Indisponente.
O forse solo indisposta. Scesero dalla stessa auto di servizio.
Picelli si confrontò con i sanitari dell’ambulanza e dette subito un
primo inequivocabile referto.
Tony era morto, folgorato da una scarica elettrica, sotto la tettoia del
palco che faceva acqua da tutte le parti, sotto un diluvio, mentre,
strafatto come era sempre da due anni, credeva probabilmente di suonare
per il Dio dei Fulmini e non per una folla in fuga dal diluvio
universale immanente.
Il medico legale constatò le bruciature, alla manica della giacca da
cadetto britannico dell’Impero che indossava il morto. E al polsino
della camicia dove le fiamme del corto circuito, nonostante l’acqua che
scendeva dal cielo, avevano iniziato a farsi incendio, ustionando mano,
polso e tre dita del cadavere, prima di spegnersi da sole sotto gli
scrosci, nel buio dell’impianto andato in corto e definitivamente
spento. In auto, fradicio, aveva parlato alla Marescialli e redatto il
primissimo degli atti di un’istruttoria che poi fu veramente corta.
Morto per folgoramento da corrente elettrica, dovuto a probabile corto
circuito e forse a manomissione dello strumento stesso, perché
scoprirono subito, e subito misero agli atti, quella notte stessa, che
il pickup da cui era scaturito il lampo era stato allentato nelle viti e
probabilmente manomesso.
Ora presunta della morte, le 22 e 43, come testimoniato da almeno
quaranta persone che erano presenti, come aggiunse poi agli atti la
Marescialli, confermandolo.
Mezz’ora dopo, sulla autopattuglia che mi portava insieme a Franco,
l’organizzatore del concerto, già leader insignificante dell’ala
godereccia del “movimento” la Marescialli, che aveva evidentemente
trascorsi non dissimili dai nostri prima di arrivare al suo incarico, mi
chiedeva di me, di Angela e di Tony.
Angela era sull’altra auto, con la sorella, dirette come noi in questura
per rendere testimonianza.
Io su quell’auto cominciai a sentirmi a disagio.
A sudare e a preoccuparmi.
Tutti sapevano di me, Angela e Antonio nel nostro ambiente.
E poi avevo anche subito un processo, se ne era parlato all’epoca,
perché io e Tony e lei eravamo quasi famosi e avevamo inciso insieme il
primo – e unico - album. Processo per lesioni, benché nessuno dei due mi
avesse denunciato personalmente, cose d’ufficio insomma. Che viaggiano
da sole, anche senza la querela di un ferito e che, in una città dove
nulla succede o quasi, fanno clamore necessariamente. Anche se destinate
a sciogliersi come la neve sotto la pioggia quando si alza il caldo e
l’acqua torna a farsi ancora liquid e ad essere soltanto acqua.
Maledetta pioggia, avevo i brividi nell’auto.
Nelle città piccole nessuno dimentica niente, nemmeno di come io avessi
picchiato lei, prima, due volte, era evidente nel tono del poliziotto
che mi aveva fatto salire in auto e della Marescialli quando mi aveva
chiesto di seguirla che aveva dettagli e cose da chiedermi.
La terza volta, quella che credo ricordassero, li colpii tutti e due, la
puttana e il suo amante, i tossici-di-merda, come li chiamai calando,
impazzito dalla gelosia e dalla rabbia, la barra del treppiedi di un
microfono, in studio, sui loro corpi, obbligandoli poi a rivolgersi alle
cure del pronto soccorso entrambi. E sancendo, oltre alla fine
definitiva di un amore, il suo per me, la fine di un gruppo musicale
promettente, e l’inizio di guai che evidentemente non erano finiti
nemmeno adesso che lui era morto. Finalmente.
Mentre l’auto entrava nel cortile della questura sfilai la terza gomma
dl pacchetto, la ripiegai tre volte, cercando nel sapore dello zucchero
un conforto al freddo. E nel gusto chimico della cannella un aiuto a
reagire allo sconforto che mi aveva assalito e scuotermi e reagire a ciò
a cui stavo evidentemente andando incontro.
Appallottolai meccanicamente la carta esterna, e attesi di essere sceso
dall’auto per gettarla, non visto, a terra nel cortile, seppellendo la
fisarmonica lucente, nata dal gioco di prestigio delle dita della mia
sola mano destra, insieme a tante cartine ridotte a fisarmonica nella
tasca del giubbino di jeans. Aveva smesso di piovere e non dovetti
correre per non bagnarmi.
Mi dettero un asciugamano dentro poi, preso dal loro bagno per
permettermi almeno un poco di asciugarmi.
Il primo verbale, il primissimo, che non doveva essere un interrogatorio
e invece finì con l’esserlo.
Dov’è che si passa da testimone informato dei fatti ad imputato e poi a
colpevole inequivocabile a volte? Qual è lo scatto, il clic
impercettibile nelle parole dette e messe agli atti?
Se c’era io non lo colsi, fu evidente nei documenti, nelle
formalizzazioni successive, nel tono della voce di chi mi parlava
interrogandomi. Ma nel tempo della vita degli avvenimenti io non sentii
i gradini che scendevo. Nemmeno un ne distinsi.
La Marescialli era stata persino nostra fan all’epoca, sette, no erano
otto, anni prima.
Esordì con simpatia coi suoi ricordi, i mise a mio agio nonostante fossi
fradicio e morissi anche di freddo. Mi chiese di raccontare della notte
non ancora finita, del lavoro di approntare il palco, del perché
avessimo deciso di tenere lo stesso la serata del festival, la terza,
nonostante la fine del mondo che le nuvole nere e dense come la notte
che avanzava stavano preannunciando.
Mi chiese poi a tratti, quasi degli incisi nel racconto di chitarre,
amplificatori, cavi, casse e centraline di sicurezza bypassate
dall’inizio del festival dall’elettricista dell’organizzazione, perché,
quando tuonava, i tuoni le facevano scattare troppo facilmente e
interrompevano la musica fastidiosamente e inutilmente, di me, di Angela
e di Antonio. Tony, il mio amico di sempre, almeno fino a otto prima,
l’unico tra tanti.
Non mi stupii nemmeno che già sapesse della centralina resa inoffensiva,
né che ne parlasse con me e non si stupisse che io ne sapessi. Ma in
fondo due anni dopo lo scioglimento della band delle tre giovani
promesse del punk italiano ero o non ero tornato a lavorare con loro e
proprio come tecnico del suono addetto agli strumenti?
Quindi delle piccole colpe dell’elettricista era forse inevitabile io
sapessi…
Mi trovai, fu la stanchezza, o fu l’emozione, o fu la simpatia che la
donna che mi interrogava aveva saputo conquistarsi a raccontarle molto
più di quanto io volessi. Del mio amore per Angela.
Del mio amore con Angela.
Dell’amore di Angela per me. Dell’amore di Angela con me.
Dell’amore di Angela con me e con lui, per me e per lui di cui lei e lui
sapevano tutto e io niente.
Dell’amore di Angela per e con lui solamente.
Dell’odio.
Mio, violentissimo quando scoprii che le uniche persone che amavo e
avevo amato in quel modo ridevano di me.
Poi ricordai che era un magistrato la donna bella e comprensiva che
avevo davanti e frenai. Bruscamente.
Forse un po’ troppo tardi. Le lacrime, a distanza di otto anni, nemmeno
a una ex-fan avrei dovuto mostrarle. Né stringere i braccioli della
sedia così forte mentre le parlavo di quei giorni.
Sorrise quando mi vide sfilare invece di una sigaretta dal taschino un
chewingum alla cannella. Mi porse un portacenere per la pallina fatta
con la carta esterna e svolse ammirata la fisarmonica a soffietto a cui
avevo ridotto, meccanicamente con una sola mano, facendone una striscia
multifoglie e stretta la stagnola. Era la mano con cui suonavo le corde
della Fender che poi vendetti a Tony. E con quelle dita veloci e sciolte
contaminavo torcendole il battere pulsante della base punk di mille
arpeggi.
Emozionando chi mi ascoltava e si incantava a seguirne il movimento
velocissimo e perfetto otto anni prima, la stessa mano, e stesse dita
che usavo per fare fisarmoniche di carta adesso. Glielo dissi e mossi le
dita nel vuoto, su una tastiera di corde inesistenti. Lei chiuse il suo
quaderno e chiese al piantone di portarci due bicchieri e due bottiglie
d’acqua. Decise non gasata, lo decise lei per entrambi, senza
chiedermelo.
Fu la terza o la quarta volta che la vidi e mi parlò. La giovane
dottoressa Marescialli.
E che io le parlai.
Credo un mese scarso prima che mi incriminassero ufficialmente. Che
raccontai di come ero tornato a lavorare con loro, dopo aver tentato per
due anni mille vie e mille lavori e aver vissuto mille fallimenti.
“Lui aveva ripreso la carriera con un gruppo nuovo. Non aveva più l’età
per guidare un gruppo punk, ma il punk nel frattempo era morto e la
definizione post-punk permetteva tutto a tutti, persino a chi aveva
cominciato a perdere i capelli e a tingerseli di nero di nascosto.
Lei aveva collezionato grazie a lui, in quei due anni – e continuato a
farlo anche in quelli successivi al mio ritorno - un numero indefinibile
di delusioni, una dipendenza probabilmente non rimediabile da
psicofarmaci, una anche peggiore, e due costole incrinate in altrettante
liti. Quando era mancata ad entrambi la metà della siringa che spetta a
chi fa il secondo, quando basta solo al primo, il dolce. Tony usava già
otto anni prima di ora, quelle cose.
Lei cominciò mentre, come diceva in quel periodo, lei ci amava entrambi.
Poi continuò. Con lui e da sola” parlavo come se fossi solo nella stanza
e raccontassi cose a me stesso, quasi per convincermene io mentre le
stavo dicendo e non fossero parte della mia vita ma cose che qualcuno e
non io stesse raccontandomi.
“E poi tornò a farsi con lui ancora, quando la prima costola smise di
farle male, e lei lo perdonò, almeno quella volta. Io ero a Vienna, dopo
Milano e Barcellona, mi si trovava al parco del Prater, vicino
all’ingresso a est, in quel periodo.
Vendevo panini, nel chiosco di un italiano che mi dava anche ostello nel
suo garage-magazzino-ricovero del furgoncino. Dove ero andato a finire,
dopo le tappe precedenti, per evitare che al procedimento per averli
aggrediti e percossi, chiusosi con un nulla di fatto, potesse succederne
un altro meno fausto, perché se fossi rimasto lì vicino a loro, o
tornato anche a distanza di un anno, avrei forse fatto anche di peggio.
E le conseguenze poi non mi sarebbero state così lievi una seconda
volta.
Vendevo panini, e hamburger di pollo, lattine di birra e cocacola, e
patatine rifritte una seconda volta, prima di servirle. Alla maniera che
si usa in Belgio, come diceva lui, esibendo una cultura gastronomica e
poliglotta. E avevo una ragazza austriaca che dava tutto e non chiedeva
niente.
Né aveva, nel senso del chiedere a parole e non solo cosi fatti, mai
nemmeno manifestato l’esigenza di sapere da dove e perché l’uomo che
accoglieva saltuariamente nel suo letto, fosse piombato proprio lì,
sotto la ruota panoramica. Ad offrirle su richiesta del buon sesso,
senza richiederle alcun impegno.
Ripresi a lavorare con loro quando tornai in Italia, dopo due anni di
assenza.
Non avevo soldi per rilevare il commercio del mio datore di lavoro
quando si ritirò e tornò in Emilia. Ero nuovamente senza lavoro e senza
un tetto.
Tornai che ero finalmente riuscito a smettere di bere e avevo
ricominciato a mangiare finalmente.
Mi ripresero come tecnico del suono, non si parlò mai di riprendere a
fare musica insieme.
Loro stavano ancora insieme. Si odiavano credo, ma non riuscivano a
staccarsi l’un dall’altra un solo momento”
La Marescialli giocherellò per l’ennesima volta con la strisciolina di
stagnola che lasciai sul tavolo dopo aver fatto pausa col racconto e
aver svolto la gomma. Prese la striscia ripiegata su se stessa e la aprì
e ripiegò ancora un paio di volte, dopo buttò la pallina di carta che
avevo fatto sferica e perfetta nel palmo della mano col pollice
dell’altra nel bicchiere di plastica usato per bere poco prima l’acqua.
Non gasata, per entrambi, come era stato sempre.
Dopo due morsi per impadronirmi del sapore che alla fine è buono solo
all’inizio e si perde subito, le gomme non sono più quelle di una volta,
ringraziai il tabaccaio della via che ne avesse al gusto tradizionale
della menta. Decisamente meglio di tutte le altre, la chimica de sapori
artificiali almeno in queste non si sente. Non lo dissi alla
Marescialli, le mie considerazioni sulle gomme e sui loro gusti le aveva
già sentite almeno due volte e non volevo fare brutte figure con lei
ripentendomi.
Poi lei chiuse il quaderno, dopo aver guardato l’orologio.
Ci rivedemmo dopo un giorno.
“Si odiavano” ricomincia a raccontarle come se non ci fossero state
affatto ore in mezzo.
Lei non obiettò, non se ne stupì nemmeno credo, in fondo.
“E più mi avvicinavo a lei, più Angela estendeva a me il suo odio
adesso.
Quasi me ne facesse una colpa, a me, di tutto ciò che si era rotto ed
era successo. Non sono stati anni facili. Non credo di averla amata come
la amavo prima del loro tradimento. Credo di averla amata ancora di più,
per sei anni, o forse in modo solo differente.”
La Marescialli non si stupiva della mia dipendenza dalle gomme, ormai.
Forse perché ognuno ha bisogno di avere una qualsiasi dipendenza,
probabilmente. L’unica che individuai in lei era quella per l’acqua
naturale, quella senza bolle.
Ma era un poco per chiamarla dipendenza.
Assaporai la gomma, clorofilla. Un classico.
Sorrisi al primo rilascio del sapore, ad occhi chiusi, mentre piegavo la
strisciolina stretta stretta, più volte su se stessa. Poi a Marescialli
la prese e prese anche la pallina di carta esterna che finì nel cestino
questa volta, sopra una copia del Corriere del giorno prima dimenticata
lì da una donna delle pulizie troppo affrettata assai probabilmente.
So che era del giorno prima per il titolo che appariva alla pagina in
cui era aperta e riconobbi vedendolo
“Si stringe la morsa degli inquirenti attorno all’assassino del
musicista della Fender blu”
Parlavano di me, ma io non me ne rendevo quasi conto, perso nei miei
racconti.
“L’ho amata di più. Sì. E più saliva il mio desiderio di aiutarla e
offrirmi per battermi contro i suoi fantasmi chimici e quel fallito coi
capelli tinti e sempre più radi sulla nuca, più lei odiava entrambi.
Sono lunghi sa sei anni?
Fatti di concerti andati semi deserti con un mitomane sul palco che non
sa fare un solo arpeggio senza dover tenere gli occhi aperti e fissi
sulle corde e sulle dita della sua mano lenta. Che, se la chitarra
distorce, da la colpa all’elettricista, alle casse mal disposte o al
tecnico del suono, e dopo si rifugia nelle sue droghe e nelle sue
bottiglie. Portandosi lei dietro come se fosse la sua troia, nel
camerino. Se non trova una qualsiasi groupie così sconvolta da non
accorgersi di essere la fan di un nulla e di andare a fare un pompino a
uno che si fa talmente tanto da non raggiungere da anni un solo
orgasmo.”
“ E’ terribile sa, quando lei lo segue, e io so cosa faranno, e so che
lei vuole solo dividere la chimica che lui sta per iniettarsi e che gli
darà anche l’anima in cambio perché quando sta così non capisce più
niente e non le frega più nemmeno di se stessa”
Le cartine a fisarmonica di quei colloqui finirono acquisite il mese
dopo agli atti.
Con quella che un poliziotto trovò, non del tutto bruciata, inserita a
cortocircuitare, complice la pioggia, la Fender blu di Tony. E a quelle
ritrovate, tante, sotto la sedia pieghevole del tecnico del suono.
Da cui, seduto, avevo seguito tutta scena del fulmine divino e
vendicatore, che aveva posto fine alla carriera, peraltro già finita, di
un musicista che non avrei nemmeno più definito un uomo.
Il primo fulmine che non parte dal cielo per arrivare a terra, ma da una
chitarra tenta di innalzarsi al cielo, e vestirsi di sua giustizia.
Non fu lunghissimo il processo, né alla fine mi dispiacque o trovai
eccessiva la condanna.
Tanto le cose che volevo fare le avevo già fatte tutte.
Musicista, le migliori patatine di Vienna, manco fossimo in Belgio
invece che in Austria. Avevo prosciugato ettolitri di alcool e poi mi
ero prosciugato io ripulendomene senza problemi.
Avevo amato senza chiedere mai nulla in cambio ed ero stato amato da una
donna che parlava solo tedesco e storpiava il mio nome persino
nell’orgasmo, ma che mi aveva amato senza mai chiedere nulla. Od
offrirmi d’altro canto nulla.
Musicista, artista, tecnico del suono.
Maestro delle dita su una tastiera.
O sulla cartina di una canna arrotolata in auto , al volante, o anni
dopo sulle stagnole delle gomme.
Mi aveva insegnato Angela a farlo. Sulla R4 da ragazzi.
Andando ad ascoltare i concerti dei nostri musicisti, in estate.
Guidava lei, io manco avevo la patente. Tirava le marce e poi arrotolava
velocissima, una mano sola, le dita su una tastiera di rizla e tabacco e
erba. Poi sulla mia lingua, sporgendosi perché leccassi e lei che
chiudeva in un istante. Un cilindro di carta perfetto.
Con le stagnole delle Brooklin, invece, una strisciolina. Piegate con le
dita di una mano, gioco di prestigio più volte, per il lungo su se
stesse, solo per abitudine e per il piacere di esibirsi nella sua
destrezza.
L’ultima volta che lo fece fu così brava da generare un tuono e un
lampo, e un fuoco durato pochi attimi, segno che lassù qualcuno l’aveva
apprezzata veramente.
In cielo forse, ma più prosaicamente e probabilmente, sicuramente anche
lì. Sul palco.
Questo non l’ho detto alla Marescialli, non potevo e non volevo.
Lei in fondo ha solo fatto quello che avrei voluto e ho desiderato di
fare in mille modi io, per anni. Troppi forse per riuscirci, senz’altro
davvero tanti.
Alla Marescialli ho lasciato solo un dubbio.
Di quanto io abbia amato Angela e la mia Fender.
E di quanto io le ami, ancora. Adesso.
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