Una moto, tre mandarini. E un morto.
Oggi l’uomo ha mangiato i primi due mandarini di
stagione.
Con un buon aroma che rimane. Dopo.
Sulle mani.
Poi si è trovato in giro per una Milano che non
riconosceva ma gli sembrava un po’ la sua.
Era in moto, la moto che aveva più di venti anni fa.
Ne ha riconosciuto ammaccature, segni alle cromature. Il casco nero, strano ma
ne ha trovato uno solo. Il suo.
Legato alla traversa in pelle nera sul sellino.
Alla periferia nord.
Lei era lì che lo aspettava. Capelli corti, corpo di donna. Sguardo da bambina.
Corpo di donna, pantaloni morbidi, un maglione.
Un bacio. E un seno dentro un maglione a dare calore al suo costato in strada
mentre cammina.
E le parole che l’uomo non ricorda, ma ricorda la morbidezza del sentire, il
viale coi suoi cavalcavia a passare, una dopo l’altra, tunnel dopo tunnel con
passo lento, sotto le massicciate della stazione.
Il meccanico.
La donna a lato, a fianco della moto spinta da lui a mano ora, la moto su cui si
sentiva così bene.
La discussione col meccanico su quella moto che aveva ancora quell’odore di
motore, grasso e benzina e polvere di freni, come se avesse fatto un balzo
temporale e olfattivo, una magnifica impennata scavalcando il fiume, e si fosse
ritrovata lì.
Al muro fuori casa, lasciata lì solo a notte prima. La moto senza documenti, o
con i documenti che lui lo sapeva che con quelli non poteva venderla ed era
meglio se la polizia non lo fermava.
“ Certo che ora vale poco, la tua vecchia moto” lo scherniva il meccanico.
Una via di mezzo tra un artigiano assai bravo e un emarginato di quartiere,
quelli che sanno bene come va la vita, cresciuti in strada o al massimo sul
ciglio di un marciapiede.
Che fingono cinismo e durezze imparate e che poi scopri che hanno cuore di
bambino se nessuno li sta a osservare e si commuovono come Aldo fa ora, se
l’uomo guarda la ragazza con quello sguardo così particolare.
“Ma se ha più di un quarto di secolo Aldo, puoi sempre venderla come moto
d’epoca. Mi pare.”
“Detta così la storia cambia”
Perché Aldo da sempre ragione prima o poi alle persone a cui vuole bene.
A tavola poi nell’officina.
Capotavola sul tavolaccio, intorno al lungo bancone marrone chiaro trasformato
in tavolo da riunione, torno torno lungo le pareti attrezzi appesi ai muri,
parti di motore a terra, forcelle posate contro terra e muro.
L’uomo a capotavola assomiglia ad un ministro che era stato magistrato.
Parla.
A lato, tra lui e l’uomo, un altro uomo che però lui al momento non riconosce e
che gli è totalmente nuovo.
Di fronte. La donna che sembra uscita dalla cartolina degli anni settanta.
E’ conosciuta, anche lei è legata al governo in carica, capelli lunghi, bella e
con quell’aria a metà tra il saputo e la voglia di scoperta della vita che
l’uomo ha imparato a conoscere bene e da mille volti di donna allora. E con
gonna lunga a fiori.
Bella, volutamente quasi sfrontata eppure terribilmente ingenua e nuda in quella
voglia così ostentata.
Poi, a lato, verso sinistra a ruotare e chiudere il consesso Aldo, la ragazza
della moto, il suocero, la figlia, i due apprendisti.
Nella piccola officina pur non essendo in tanti, seduti lì, la lampadina al neon
a dare luce di metallo ai volti, trasfigurandoli scivolando dall’alto sui visi,
sembrano molti.
Parlano di come ridare a chi la possedeva di diritto la sua casa editrice. E ora
l’uomo ha perfettamente capito chi sia l’uomo che a vederlo non gli diceva
niente.
E perché non gli diceva niente anche se lo ora lo riconosceva.
E di cui non si fa, in tutta la discussione, strano ma è così, il nome.
Né il suo né quello dell’altro. O della società rubata.
L’uomo si trova a perdersi guardando lei, la cartolina.
Potrebbe toccarle i piedi sotto il tavolo se lo volesse.
Seduta lì di fronte.
Così disponibile e così vicina.
Ascolta invece sopra il rumore delle voci, o forse sotto, il fruscio di una
gonna lunga e larga, primavera di fiori sulle cosce quando lei sposta o
accavalla, parlando, interrompendo anche a volte, quasi a darsi tono e autorità,
la gonna.
E per un meccanismo che esiste ma solo perché ha autonoma vita, fuori si trova a
cercare un biglietto col suo telefono da darle. Perché lei che aveva fretta d
andare via era ancora lì, lui e lei soli sul marciapiedi adesso.
Nella tasca della giacca vecchia e lisa sui gomiti blu stinti ha almeno 15 pezzi
vari di carta. Biglietti suoi completamente scritti sul retro che non può né
utilizzare né dare per non perdere appunti e cose.
La donna rifiuta –se vuoi ti do uno strappo in moto , guarda ti presto il mio
casco - ha i figli da ritirare, sì dice così, proprio ritirare, a scuola se no,
e ride simulando con il gesto la paura con avrebbe messo il casco largo
dell’uomo e si sarebbe lasciata riaccompagnare.
Per un mistero strano della toponomastica del sesso dei desideri e delle voglie,
che da Lambrate fa sì che lui giuri e spergiuri che lei, che abita in zona
Sempione sia proprio a metà della sua strada, per tornare a Città Studi.
Che è come dire che per andare dalla Milano del Campari alla Parigi della Comune
sia comodo passare – ti assicuro che ci passo e nemmeno debbo deviare così tanto
– dalla Madrid dei tori di Picasso. Potrebbe baciarla adesso. Lo sanno entrambi.
La guarda andare con la gonna ce svolazza ad ogni passo, sapendo che lei non si
volterà ma che lo lascerà lì a guardare l’onda dell’anca e l’accelerare del
passo e del moto della gonna sulle cosce.
L’uomo sa che la rivedrà comunque, che con lei farà l’amore e non prova alcun
disagio, all’uscita del resto della compagnia della moto dall’officina, da
quella situazione.
Per lei, per l’altra, per nessuno.
Nella strada non c’è più traccia del cadavere e della polizia o dei carabinieri.
Ha cominciato ad imbrunire anche e tutto sembra rendersi più familiare e caldo.
La moto è ancora lì e ha un casco solo, nero, legato ancora alla traversa in
pelle nera del sellino.
C’è ancora un po’ di luce, e di come sia finita, probabilmente in nulla, la
riunione non ne ha nemmeno idea.
Allora.
Mi alzo. Vedo ogni personaggio immaginario e reale come fosse sotto in strada ad
aspettarmi ora. Rivedo visi e corpi. Maglioni resi morbidi dove erano nascosti
seni solo mezz’ora prima e ancora caldi di pelle nuda.
Sento i pensieri come se li vivessi ora.
Emozioni e sogni, realizzati o inseguiti per un’intera vita. Volti e sorrisi,
labbra e maglioni di autunni e inverni.
Gonne che sembrano dire che chi le porta non ha paura della vita.
E pantaloni che tengono caldo per un miracolo di tessitura anche pensieri e
cuore. Oltre ad anche, ventri e culi.
Rivedo persone che sono migliori della via dove sono nate per sorte, dove vivono
o lavorano da sempre.
Una città che ho fatto mia ma che non è mia. Né lo sarà, perché lei non riuscirò
mai a possederla o amarla fino in fondo, nemmeno fra cent’anni.
Tunnel oscuri sotto ferrovie.
Dove sembra di varcare quando li attraversi, ogni volta, un portone e la porta
chiusa che impaurisce è solo assenza momentanea di luce.
Sorrido.
Prendo un altro mandarino dal cestino, ne libero l’aroma sbucciandolo con le
dita.
Olio che crepita nell’aria, ma niente fiamma se non accosti l’accendino. Solo
odore.
E sul balcone vedo loro, sotto.
Confuse nella folle le mie persone. Che anche quando sono fatte e trasformate in
personaggi, restano persone e restano mie. Calde.
Al muro sotto casa, se mi sporgessi di più, rischiando di cadere nella via, sono
sicuro.
Che sporgendomi solo un poco oltre rivedrei la moto e il casco nero.
Coi documenti non proprio in regola, che mai potrei trapassare o vendere, quei
documenti un po’ così così.
Gli stessi documenti con cui si circola e si vive.
Con cui vivendo si impara. A camminare.