Si era perso.
Nel percorrere la strada verso il pub dove lo aspettavano gli amici, aveva cambiato via per caso. O forse era destino, ammesso che un destino a regolare i passi esista. All’angolo si era fermato a guardare una vetrina, più per il disordine e la quantità incredibile di oggetti bizzarri che chi l’aveva allestita era riuscito a stipare quasi all’infinito dietro il vetro, che per l’interesse vero per quell’assortimento curioso.
Aveva girato l’angolo e seguito le vetrine successive senza nemmeno rendersi conto di cambiare la sua strada e aver lasciato l’unica che, nella città che a lui era sconosciuta, conoscesse, per unire il suo punto di arrivo a quello di partenza.
Svagato, distratto, un po’ accaldato, rincorrendo il beneficio dell’ombra sul marciapiede destro della via, aveva proseguito con le vetrine successive e ora si trovava in un quartiere in cui nelle rare sue visite alla città mai in precedenza si era trovato.

Pochissimi passanti nella via, l’ora era calda. La stagione pure e stillava sudore dall’aria.
E la città era quasi deserta nel pomeriggio che precedeva il fine settimana.
Portò la mano istintivamente alla tasca interna della giacca, dove era sicurissimo di aver riposto, prima di uscire dall’albergo, la cartina che alla reception gli avevano dato insieme alle chiavi della stanza.
Niente.
Dimenticata probabilmente in albergo. Si disse “ora li chiamo, dico dove sono e mi faccio indicare al telefono la strada”.
Sfilò dal taschino il cellulare solo per rendersi conto all’istante, con un attimo di disappunto, che era irrimediabilmente spento. E la batteria senza vita.

Mezz’ora scarsa all’appuntamento.
E non voleva proprio tardare.
Pensò di aspettare un passante e chiedere aiuto.
Fu allora che la vide.
Slanciata su tacchi che a lui diedero all’istante vertigine, sull’oscillare del passo sicuro di chi sa dove andare, nella città a lui ignota, senza fretta eppure senza indugio alcuno.
All’angolo in fondo della via fu il rumore dei tacchi sul selciato antico ad attirare per prima cosa l’attenzione. Si appoggiò al piccolo davanzale della vetrina di un negozio di scarpe, quasi seduto, e ne seguì l’avvicinarsi incuriosito.

Bionda, slanciata, alta, persino da lontano si intuivano la bocca e un bel sorriso. E gli sembrò un’apparizione quasi incongruente, l’oro chiaro dei capelli soprattutto, e la freschezza che, pur lontana all’altro lato della strada, appariva quasi in contrasto naturale col piombo afoso della città in quella stagione.
La prima idea che suggerì all’uomo, prima ancora che ne vedesse il viso e il corpo da vicino fu proprio questo contrasto tra il fresco che irradiava e la cappa plumbea che ora dopo ora, al sole peggiorava.
Ora era a mezza via, tra il punto in cui era sbucata e il marciapiede dove l’uomo appoggiato al davanzale cercava tregua all’afa.

Automaticamente l’uomo si passò una mano nei capelli, gesto istintivo, quasi avesse bisogno di metterli in ordine, prima che lei lo incrociasse sul marciapiede. Si pettinò, come era suo vezzo lasciando correre le dita e portandoli dietro le orecchie ai lati. Lo fece inconsciamente ma lo fece per la sconosciuta, chi lo conosceva non avrebbe avuto su questo dubbio alcuno.
La donna aveva un tailleur corto, stretto da sembrarle cucito addosso da un telo solo, che dava un ritmo sinuoso e sensuale al suo cammino e l’uomo non potè non notare l’armonia del corpo nel suo incedere sicuro nonostante la stretta gonna. Il muovere in armonia nervosa dei muscoli delle cosce, i polpacci disegnati e le caviglie strette che quasi avrebbe potuto chiudere, serrando la mano, tra le dita, tanto erano slanciate e fini.

Provò istantaneamente attrazione per quella figura sconosciuta che mano mano che si avvicinava acquisiva dettagli sempre più netti e in modo stupefacente tutti tra loro in armonia.
La donna spostava camminando i lunghi capelli biondi con piccoli gesti dal viso, quasi con noncuranza, senza ausilio delle mani e ad ogni suo scansarli subito le tornavano a danzare docili sulle spalle, come un lungo velo.
L’uomo non poteva quasi distogliere lo sguardo dall’armonia di quel cammino.
Dimenticò, rapito e assorbito senza quasi rendersene conto dallo spettacolo di quel corpo perfetto che gli si avvicinava, l’appuntamento, la strada persa e il pub che ormai avrebbe quasi dovuto vederlo arrivare. Gli amici.

La donna bionda non poteva certo non essersi accorta dell’attenzione con cui l’uomo aveva seguito il suo avvicinarsi ma non ne dette mostra o avvisaglia alcuna. Con la sicurezza di chi probabilmente è anche troppo avvezzo ad essere osservato ed ammirato non dette alcun segno che lasciasse trasparire di aver colto lo sguardo che l’aveva seguita passo passo nel suo cammino.
Non lasciò trasparire nemmeno quella sorta di alterigia che tradisce chi vuole dissimulare di aver notato qualche cosa o fingere di avere notato una persona.
Non rallentò in funzione dell’uomo che assai vistosamente la osservava, né cambiò in alcun modo direzione.

Semplicemente sembrava nemmeno averlo visto, al punto che l’uomo si sentì per un attimo trasparente e si trovò a chiedersi per un istante se davvero lui fosse realmente lì in quella giornata afosa.
Per nulla intimorita dal deserto della via nell’ora calda, la donna non soffermò lo sguardo un istante solo nella sua direzione, in modo che l’uomo potesse anche solo percepire che lei fosse conscia della sua attenzione. O la ricambiasse, con piacere o con fastidio, in alcun modo.
Quando gli fu vicina l’uomo ne colse improvviso il profumo sottile, nell’afa della città torrida. La donna aveva un odore fresco, solo leggermente fruttato, che la seguiva come un velo, non aggressivo, ma assai particolare. Qualcosa che ricordava i fiori, i frutti, gli agrumi. E il sole nei capelli biondi.

L’uomo pensò che forse davvero i profumi potevano intonarsi perfettamente al colore dei capelli delle persone. E all’immagine di freschezza che lei ispirava in quella ormai insopportabile calura di cemento estivo.
Accennò quasi a fermarla. Ma il suo gesto morì appena nato.
Forse nemmeno percepito.
Voleva chiederle l’indicazione, ma poi, vedendo che lei scivolava a lato sul marciapiede oltrepassandolo, senza quasi accorgersi, o manifestare di accorgersi, della sua domanda muta chiusa nell’embrione del gesto, si ritrovò, accompagnandola con gli occhi, con la domanda inespressa e dimenticata a guardarla andare via.

Stordito dal caldo e ipnotizzato dall’incedere di lei, la seguì allontanarsi.
Dimenticò le sue domande, che rimasero inespresse, affascinato dalle curve del suo procedere dopo che fu passata di fronte alla vetrina senza dar segno di aver visto lui lì o rallentare.
Ascoltò il rumore dei passi allontanarsi, come se stesse guardando un film in una sala, ritmici e scanditi dalle falcate, nel silenzio della città affogata nell’umidità silenziosa di una giornata afosa, ancora stupito della freschezza con cui lei sembrava vivere persino in quella fornace. La vide scuotere la testa ancora.
Un paio di volte, i capelli erano lunghissimi e di un colore che quasi rifletteva il sole velato. Si aspettò quasi, ma era impossibile davvero, che potesse arrivare, nel suo scuotere l’onda bionda, lì dove lui stava, il suo profumo, o quanto l’ombra fruttata del suo odore, ancora.

Si dette dello stupido appena lei svanì definitivamente alla sua vista, per non averla fermata, per non avere osato rompere il piccolo incanto dell’apparizione.
Si dette dello stupido perché lei ormai era svanita nella via e mai lui sarebbe stato capace di rintracciarla, nemmeno con l’aiuto della miglior fortuna. Gli amici lo aspettavano ormai da quasi mezz’ora. Non pensava più all’appuntamento mancato in realtà, ma all’aver lasciato lei, senza nemmeno un goffo approccio, scivolare via portandosi con sé i suoi occhi e i suoi pensieri. E mille e uno desideri.
L’avrebbero aspettato a lungo, gli amici, invano quella sera. Con loro si sarebbe scusato, ricaricato il cellulare, solo il giorno dopo.

Telefonò loro seduto sul davanzalino di una vetrina. Quella vetrina. Proprio a quell’ora.
All’ora in cui aveva un appuntamento al pub il giorno prima. E in cui la donna era scivolata, fotogramma dopo fotogramma, lungo la sua via.
Sedette quasi sul davanzale della vetrina, la stessa, ritrovata in quella stessa via.
Di loro, che forse si sarebbero rivisti allo stesso pub non gli importava molto in realtà in quel momento e in quella situazione. Era tornato lì per lei.
Era l’unica possibilità di rivederla che probabilmente aveva. Se solo avesse avuto un piccolo aiuto dalla fortuna.
O forse dal destino, ammesso che un destino a regolare i passi esista.

Si passò una mano nei capelli per portarli dietro le orecchie in un gesto a lui abituale, quasi avesse paura di essere in disordine o spettinato. E non a posto se lei fosse arrivata.
Quel gesto che chi gli era familiare ben conosceva.
Poi aspettò. Invano, sperando di vedere lei arrivare in ogni persona che scorgeva lontana avvicinarsi dal fondo della via.
Non sentì, però, quei passi sul selciato, nè vide quelle gambe slanciate e nervose, né la forma di quei fianchi stretti, né tanto meno quella gonna tesa come in una scultura sui glutei, sotto le strette reni sottili.
Tornò tutti i tre giorni restanti del suo soggiorno ad aspettare quella che chiamava sorridendo la sua Venere bionda. Alla stessa ora, con la stessa scarsa sorte.
Non risentì che ad occhi chiusi, ritrovandolo nei suoi pensieri, e nel rinascere dei suoi desideri, quell’odore di fiori e frutta, agrumi e sole biondo, di un profumo leggero.

 
 
 
 
 
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