I pantaloni di lei.
Larghi abbastanza perché le mani ne risalissero dalle caviglie sotto. Lungo i polpacci. Le scarpe, con quei tacchi lunghi, che gli affondavano nella coscia, lei rannicchiata, come una gatta, la schiena contro la portiera dell’auto. Le gambe e le cosce sulle gambe di lui.
Schiacciandole e inarcandosi, facendo leva su di esse per sentirlo sotto le sue. E per farle sentire a lui. Perché lui la sentisse.
Morbida, stava bene, sembrava appoggiata a una montagna di cuscini e non alla portiera di una macchina. Lui se ne accorgeva, e lei di lui, stavano bene entrambi.
E il tempo non aveva tempo. Con cui fare i conti. Né necessità di far di conto del suo correre o di contarsi, o voglia di accorciarsi.
Nemmeno la pioggia che scendeva lungo i vetri aveva fretta, né l’avevano i vigili che passavano in bicicletta e non guardavano, oltre i vetri che si appannavano da dentro. No, non te la danno la multa.
Forse ci hanno visti sorridere perché sono passati anche loro fradici sotto la pioggia sorridendo, e noi sì, che eravamo in divieto di sosta. Da ore.

Perché si erano incontrati ore prima. Davanti a un ristorante. Io sto arrivando aveva scritto lui.
Anche io aveva risposto lei.
Lei era pure più in ritardo ma nel loro gioco ci sta anche questo. E lui si chiese, come la attendo?
Percorse la via avanti e indietro, non sapeva da che parte lei sarebbe giunta. Poi voltandosi la vide e attese che fosse lei ad avvicinarsi.
Che faccio? La bacio?
“Come posso salutarti?”
“Di solito lo fanno mettendosi in ginocchio e baciandomi un piede” sorrise. Le ridevano gli occhi perché sapeva che lui l’avrebbe fatto. Beh, la ragazza cinese che passava uscendo dalla porta in quell’istante deve aver avuto un attimo di sbandamento, vedendoli. Anche la donna in piedi con un piede sollevato davanti all’uomo con un ginocchio a terra, rischiò di cadere, e risero entrambi.
“Ma dove andiamo adesso?”
Si infilarono nell’auto, sotto la pioggia che cominciava a scendere lentamente. Lei al posto di guida e lui di fianco.
La gente che passava sul marciapiede ogni tanto guardava dentro, l’uomo se ne accorgeva, la ragazza non credo. Avevano troppo da guardarsi per accorgersi che fuori c’era il mondo.
Un gruppo di quattro ragazze, giovani e rumorose per certo l’hanno fatto. Hanno guardato oltre quei vetri rigati dalla pioggia.
Hanno rallentato, una deve aver detto qualcosa alle altre perché si sono fermate sorridendo. Un attimo, solo un fotogramma. Hanno guardato oltre la pioggia sui vetri. L’uomo e la donna e la loro danza di parole e piccoli gesti. Hanno guardato dentro, rallentando.
Ma da fuori non sentivano i discorsi dentro l’auto, non le promesse, non i percorsi tracciati su mille mappe come righe incise sulla pelle. E le sfide, la voglia di lui incontenibile di baciarla che aveva la forza lacerante di mille baci, più di mille baci veramente. Il gioco delle voci, l’alternarsi delle sfide, dei toni, del cercarsi. E più giocavano a sfidarsi più sotto le gambe di lei a lui cresceva il sesso. Cantando ogni promessa da minaccia e ogni minaccia o sfida da promessa.
Perché io ti. E io ti. E ti.
E più giocavano a sfidarsi più sotto le gambe di lei a lui cresceva il sesso. Se ne sarà accorta? Perché ora lei le spinge, si alza sul sedile un poco, si inarca. E lui ne ha piacere, oltre il tessuto ora la sente. E sì, anche lei lo sente.
E spinge, e lui attende. Ancora quella carezza celata sotto la maschera di una nuova spinta.
Perché io ti. E io allora. E poi. E, e.
E. E poi.

Non c’era un orologio dentro, solo le mani calde di lui e quelle fredde di lei. E le parole che erano di carne.
Gli occhi.
Non si sono lasciati un solo istante. Qualsiasi cosa, dalla più dolce alla più crudele – ma crudeltà non è giocare regine di cuori e fanti di picche carichi di promesse – gli occhi non perdevano gli altri occhi. Hai dei begli occhi sai? Mi piacciono, mi piace la luce che hanno se mi guardi, mi piace il lampo, e poi il velo di dolcezza, subito dopo che mi hanno punto senza smettere di sorridermi. Le gambe di lei che si stendono, i piedi che offrono il tatuaggio alle carezze.
Ho le mani calde, lo senti. Salgono dal piede risalendo sui polpacci, allargano i pantaloni, lei protesta. Ma non lo ferma. Sono calde, lo senti?
Lei dice sì. e sorride.
Andiamo in India? La mia India è fatta di piogge incontrollabili, di sudore in stanze di alberghi, polvere e fango. E vita, senza bisogno di altro che di viverla. Senza pudori, perché il pudore non appartiene a chi parte per un viaggio. Un mese, senza meta, senza limiti, senza rifiuti, senza possibilità di fuga, nessuna safeword per uscirne, negandoci i freni nelle discese del gioco che adoriamo entrambi.
Puoi mangiarmi l’anima, se hai fame. A un certo punto deve averle detto. Ma, fuori dei vetri, quasi opachi di vapore e pioggia, chi passava non poteva sentire o vedere più niente.
Andiamo in India? Facciamo un viaggio?
Il viaggio è cominciato, l’uomo e la ragazza nell’auto avvolta dalla pioggia lo sanno benissimo entrambi. Lei ne darà i tempi e lui farà di tutto per forzarli. E’ un gioco anche questo e i giochi si giocano perché sono così belli che non giocarli è un reato contro la vita a volte.
“Stai parlando da master, te ne accorgi?” e gli schiaccia le cosce, spinge nella carne un tacco come se dovesse aprirla oltre il tessuto blu dei jeans, lo tiene fermo, contraendo il muscolo del polpaccio, lui sente il polpaccio teso e duro nella sua mano, ma non cerca di togliere piede e tacco. Carezza nel palmo della sua mano calda il muscolo di lei che spinge, e lo fa dolcemente. Lei ride anche con gli occhi.
Il viaggio. Hanno una giungla davanti, da esplorare. Entrambi.
Poi, il traffico cresceva e fu il traffico ad avere ragione dell’orario della partenza e non viceversa, nel salutarsi.
-Vai o resti bloccata, è tempo che tu vada adesso -
-Ti riaccompagno a casa in auto? Piove -
- Ho voglia della pioggia, ho voglia di bagnarmi. E poi se resto in auto finisce che non scendo più sappilo -
Lui l’ha aiutata a fare manovra per uscire dal parcheggio. Lei coi vetri appannati non vedeva niente.
Ha guardato l’auto partire fermo sul marciapiedi sotto la pioggia che bagnava a appannava gli occhiali.
Ha tirato su il cappuccio del giaccone per coprirsi, pioveva veramente forte in quel momento. Poi l’ha riabbassato e si è messo in cammino. Godendosi la pioggia. Non ha paura della pioggia.
Non quando è in viaggio.

E’ solo giorni dopo che finalmente lui li trova. Quei biglietti. E glielo scrive in una lettera. O è un racconto?
Per New Delhi, con Edreams. Venticinque giorni. Gira il motore di ricerca, poi si ferma.
520,03 € a testa, andata e ritorno, Swiss International Airlines all’andata e al ritorno Lufthansa.
Andiamo in India? Vuoi?
Sorride e salva. Le manda il risultato della sua ricerca.
E attende.



(Dedicato agli occhi che si accendono se parli loro di partire per un viaggio)

 
 
 
 
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