Pensò.
A che corda usare. Quale scegliere tra le sue o quale appositamente per
lei comprare.
Pensò che una corda non nuova, già usata, che avesse magari già stretto
un palo o un respiro sarebbe stata forse più morbida. Quasi addolcita
dall’uso.
Un tempo, quando le scarpe erano un lusso da signori, i ricchi le
facevano calzare ai loro servi, così li chiamavano senza alcun pudore,
perché il cuoio diventasse morbido e calzasse come un guanto, dopo ai
loro piedi.
Ecco, una corda già sgualcita, già tesa e ripresa, già serrata e sciolta
più volte sarebbe stata più dolce forse, a salire e stringere sopra i
piedi. Sopra i polsi. Sulla carne dolce e chiara.
Però decise che la corda sarebbe stata nuova.
Forse più dura, quasi inamidata dalla tessitura, vergine alle mani e ai
nodi. Però solo sua.
Pensò a come avrebbe girato su se stessa trovando la forma esatta delle
caviglie, dei polsi di lei, tolta in silenzio dallo zainetto che aveva,
a ciondolargli dalla mano, entrando lì nella sua casa. La prima volta.
Pensò a come e quanto avrebbe stretto.
A lei che lo ora lo implorava e che, oltre quel chiedere esplicito e
crudo di essere legata, invece non detto, non pronunciato ad alta voce,
nemmeno osato, gli stava dicendo anche quanto e come. Stretta, per
assaporare tra le cosce solo al contatto della canapa ruvida e nuda, le
prime gocce, nascoste alla sua vista ma così presenti e vive, stillarle
dalla fica.
Perché lui girandole intorno, crocefissa sul suo letto, le vedesse
luccicare.
Lacrime di desiderio, affiorare di umore da un taglio nella carne viva.
Come le gocce che sul ventre nuda ora lui scopriva essersi fatte riga
vermiglia scura. Gonfia ai lembi del progredire della spina, delle
spine. Il graffio e i suoi microscopici lembi di ferita nuda.
Pensò a lei che si era spogliata e si era stesa e che sembrava così
temibilmente indifesa da fargli paradossalmente quasi paura.
Alla voce con cui si offriva e gli chiedeva, che era leggera, e che
nemmeno capivi se e quanto in realtà le tremava.
All’allargarsi delle cosce e delle braccia per accogliere la tensione
che avrebbe fatto baricentro, perno del suo corpo intorno al respiro, al
ventre, al seno e al cuore.
Alla carezza che lui, su lei così allargata, al tempo stesso oscena e
dolce, le avrebbe fatto scorrere proprio lì.
Non tra le cosce, ingorda del suo miele viscoso. Non sul seno gonfio di
respiro e scompostamente irrequieto.
Non sulle cosce a produrre un’onda a salire, troppo facile strumento per
farla iniziare a torcere e rantolare.
Sul viso.
Leggera. Impercettibile quasi. Commossa quanto le parole che lui sa, in
quel momento, di non poterle dire.
La guancia allora volgerebbe a lato e cercherebbe il cuscino della mano,
mischiando tenerezza con l’attesa. A posarsi sul palmo, e lui sentirebbe
il calore della pelle, guscio di viso, perché lei quasi scotta ora. Lei
ha la febbre.
Lui è la febbre.
E lui la cura.
Pensò al primo nodo e alla prima tensione.
A lei così sconvolgente apertasi a raggio da sola, a lei che si è per
lui fatta fiore di braccia, gambe, corpo, sotto il sole.
A lei trasformata su quel letto adesso in aquilone. A lei che avrebbe
volato, che gli chiedeva di volare.
Di trovare vento per salire, poi turbine per mille e mille volte
precipitare.
E risalire.
L’avrebbe presa, aperta, riempita di sé già al primo nodo.
Senza nemmeno aspettare.
Ma no, si aspetta, si attende, si fa crescere. Si la lascia la goccia
tra le cosce farsi lago.
E il fiato chiudersi nella morsa delle dita, quando, legata, su ogni
estremità e tesa a ogni lato, lui le serrerà con forza il seno. Senza
nemmeno dirle una parola.
Si aspetta.
Che il pane lieviti nel ventre che le sale e scende al ritmo del respiro
ora.
Si lascia tempo al cuore di accelerare come a voler fuggire dalla gabbia
prigioniera, sfondandola, rumore di ariete batterle alle tempie, nel
silenzio quasi innaturale. Si lascia tempo al tempo del piacere.
Perché attenderlo arrivi alla soglia, dove l’attesa si fa quasi
necessità e si veste di dolore.
Perché lei glielo le aveva chiesto.
Lei lo voleva quel regalo.
L’aveva sussurrato dapprima, poi urlato anche se nessuno la poteva
sentire allora.
Guardandolo, una notte, mentre, da sola, dentro di se tra le sue dita
umide lo cercava.
E lo trovava.
“Legami!”
L’uomo spense il computer, chiuse l’ufficio.
Uscì in strada.
Nel negozio chiese al commesso col grembiule bianco un poco liso da anni
di lavaggi, alcuni metri.
Di corda. Sottile e ruvide.
Marrone.
Guardando il cielo, uscito dal negozio di cordami, si ricordò, senza un
nesso logico apparente, di un tetto. Una terrazza.
In pieno sole, dopo la pioggia. Il monsone.
Sopra l’albergo, piccolo, senza stelle, lui beveva una birra e parlava
con un uomo giunto da Calcutta, di pietre preziose e contrabbando,
seduti al sole. Era quasi il tramonto di una giornata calda e umida di
un’altra estate.
Nel cielo, quasi si fossero dati appuntamento a un’ora convenuta, dai
tetti della città, iniziavano a danzare gli aquiloni.
Colori, fogge, capricci di un vento spettinato ed irrequieto.
Sopra New Delhi. Come ogni sera di ogni estate, il cielo si faceva
multicolore.
Senza chiedersene il perché, l’uomo ne scelse uno e ne seguì con gli
occhi ogni tremito e ogni evoluzione.
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