- Non è possibile- la voce secca e dura, tagliò di netto bloccandolo il relatore.
- Veramente noi pensavamo che, volendo, con un qualche sforzo eccezionale… - tentò di riprendere, tentennò, tremò quasi, la voce gli inciampò.
- Non è possibile – lo troncò di netto
- …ma guarda che anche Marcello… - si affievolì la voce allo scorrere delle parole.
Sfumò in nulla.
Silenzio. Imbarazzo generale. Attesa.
Fu allora che, con lo sguardo che gli riconobbero all’istante, Aldo batté, una sola volta, ma in modo inequivocabile il pugno sul tavolo lungo di mogano della sala riunioni.
Fu allora, ma lo scoprirono solo in seguito, e non fu una bella scoperta, che Aldo decise di far fuori dal consiglio e poi dall’azienda sia il Marcello, quello del “ma guarda che anche…”, che la Franca, quella che pensava che con uno sforzo eccezionale si potessero evitare sia i licenziamenti che la domanda di cassa integrazione straordinaria per metà dei dipendenti.
Batté il pugno chiuso e i fogli più vicini a lui si sollevarono allo spostamento d’aria, quasi impercettibilmente dal piano lucido di legno.
Fu allora che Simona accavallò le cosce, seduta al piccolo tavolo a lato di quello del consiglio.
Nessuno la vide farlo a parte Aldo.
Gli altri che guardavano solo lui si chiesero cosa avesse. Era ammutolito di colpo, aveva sgranato gli occhi, e deglutito quasi con forza dopo un istante.
Ma non osarono chiederglielo.
Simona, la sua assistente, si alzò e gli porse un bicchiere d’acqua, abbassando gli occhi.
Poi tornò a sedersi.
Riaccavallò dopo un istante le gambe, questa volta la sinistra sulla destra.
Gli occhi di Aldo corsero da soli questa volta, all’ombra sotto la gonna del tailleur. Sì, era certo, ora ne era certo. E anche stupito.
Lei era nuda sotto la gonna.
Si chiesero tutti perché arrossisse e di colpo tacesse e prestasse attenzione ai loro discorsi.

In realtà non prestava attenzione a nulla.
Aveva imparato sin dai tempi dell’università a simulare attenzione e correre nel farlo, insospettato, con la sua testa per sentieri lontanissimi. Capacità che aveva affinato poi crescendo.
Aveva ascoltato i suoi capi al lavoro, e poi quei noiosissimi, ma tanto utili, uomini della sezione del garofano e del partito, negli anni della città da bere, quando aveva più sete lui da solo di tutti quanti loro uniti in un sol calice.
Aveva imparato ad ascoltare, a fingere di ascoltare in modo così convincente da riuscire a sposarsela, Marta, la dote del dr. Borghetti, il fondatore, da lui presa in moglie. Con il suo teatro, le sue amiche, le sue serate di beneficenza, il noiosissimo bridge del venerdì sera che, se non fosse stato per un paio di amiche della moglie conosciute lì e scopate in seguito con gusto, sarebbe stata una vera pena dell’inferno. Senza contrappasso.
Stava pensando proprio a questo mentre Marta aveva ripreso a parlare di opportunità di ripresa, di rilancio, di salvataggio col contributo di tutti.
Sorrise.
Tutti interpretarono quel sorriso come una benevolenza verso la donna che aveva sposato e che stava parlando e verso quello che andava sostenendo. Se avessero saputo che sorrideva al ricordo di un pompino ricevuto in auto, in tangenziale, mentre stava guidando, fattogli la notte prima, da una delle amiche della moglie che riaccompagnava a casa dopo un bridge noiosissimo, si disse, accorgendosi dello sguardo quasi benevolo e stupito con cui le dieci persone sedute intorno al tavolo avevano accolto il suo sorriso inatteso.
Fu il rumore della sedia di Simona a distrarlo.
E oplà, altro scavallamento, più lento, solo lui da quella posizione riuscì a vedere per un attimo le labbra rosa del suo sesso. Simona.
Piccola, pudica, timida.
Fino a quel momento quasi insignificante.

Simona che prendeva nota, che scriveva velocemente sul laptop posato davanti a lei, senza mai alzare lo sguardo.
Simona che di età in quella del suo capo ci stava due volte, e ci ballava e ne avanzavano ancora di anni.
Si accorse solo in quel momento di quanto fosse bella. Si era sempre rifiutato, lui, che di solito aveva zero remore e pudori, di considerarla tale. Quasi ne avesse, di lei così armoniosa, fragile e perfetta, un cristallo di donna dalla curve armoniose, una forma istintiva di rispetto e soggezione.
Ed era bella, bella davvero. Un cristallo con i fianchi morbidi e contenuti, perché al cristallo facevano pensare le curve delle coppe dei sui seni, al cristallo gli occhi azzurri, a volte verdi, a volte grigi.
Al cristallo le anse dei tendini alle caviglie e la forma perfetta dei polpacci e dei suoi piedi.
Sì, bella. Di una bellezza un poco austera a temperare e moderare il guizzo delle carni pallide e perfette quando si muoveva.
Non che non ne fosse conscio, mezza direzione e un tot di capetti le ronzavano regolarmente attorno e non c’era giorno che non avesse da qualcuno di loro un invito per il pranzo, in mensa o al bar di fronte agli uffici. Ma era la segretaria dell’Adì, come tutti lo chiamavano, mescolando il suono tribale e crudele del Cadì capo tribù con quello di AD, amministratore delegato, assai più asettico.
Per cui quasi un tabù, una di cui, per riflesso al momento di farsi avanti tutti avevano timore e diffidenza. La vergine vestale che lavorava con il bruto.
Ma era così bella che il giorno dopo tornavano a invitarla tutti.
Simona era bella, sì, facile anche a venti anni o poco più, si disse guardandola, come mai l’aveva guardata prima, ma mai si era immaginato a considerarla un oggetto per il sesso. La stessa età della più piccole della sue figlie, poi.
Eppure si voltò con almeno quattro scuse verso di lei prima che la riunione finisse, sperando lei ripetesse quel gesto.
- Scusi, ha preso nota di…
- Questo non lo metta nel verbale per cortesia
- Segni pure che la riunione si è conclusa e le richieste della dottoressa Marta Borghetti sono state respinte.
E così la riunione si sciolse, e si apprestarono tutti a uscire dalle tre porte che davano sul corridoio della direzione, in un clima gelido come ogni altra volta negli ultimi sei mesi.
Da quando era iniziata la crisi e il loro crollo in borsa.
- Simona, vorrei dettarle due lettere, se non le spiace prima di pranzo
Uscì senza salutare nessuno, gli altri attesero che lui lasciasse la sala per salutarsi tra di loro. Lei lo seguì col portatile chiuso sotto il braccio. Si rassettò con la mano libera la gonna che era rimasta piegata su un ginocchio. Se lui si fosse voltato a guardarla non avrebbe riconosciuto il sorriso negli occhi della ragazza questa volta.

Simona é laureata.
Aldo lo sapeva. O forse lo aveva saputo. Era stato uno dei criteri della selezione per la sua assistente, due anni prima, perché lui la segretaria la voleva “come si deve”. Che avesse studiato, che fosse carina, che anche l’immagine vale. Che non fosse volgare, sui clienti e partner esteri si faceva presto a sfigurare e le battute sugli italiani un po’ maiali si sprecavano grazie al capo del governo in carica.
No. Laureata - ma in lettere e filosofia o sociologia, mica lo ricordava, di certo una di quelle lauree inutili che mai avrebbe concesso alle sue figlia, ripeteva – e bisognosa di lavorare, così mai avrebbe alzato la testa più di tanto per lamentarsi o protestare. Di famiglia umile così niente grilli e arie da nobildonna decaduta.
La scelta era stata facile, se l’era trovata praticamente in casa. Figlia di un suo operaio, dello stabilimento di Gessate, se ricordava bene. Così con la paura di perdere il lavoro duplice e la necessità di entrambi di lavorare per vivere ne teneva per le palle con una mano sola due.
Si ritrovò a riderne mentre la guardava entrare nel suo ufficio, dopo la riunione del consiglio.
Sì, proprio bella si era fatta, altro che “carina”.
Si chiese come avesse fatto a non accorgersene fino ad allora.
- Vorrei qualcosa da bere – le disse appena si fu seduto alla scrivania.
- Si serva pure anche lei se ne vuole – si stupì ad aggiungere quasi a mezza voce, era la prima volta in due anni che succedeva.
Prese il bicchiere che lei gli porgeva e per la prima volta si accorse di quanto fresca fosse la sua mano mentre si sfiorarono le dita.
Ne fu imbarazzato, ma non riconobbe il proprio imbarazzo, a cui non era abituato.
Distolse bruscamente gli occhi dal sedere di lei quando la ragazza si voltò, dopo aver riposto i bicchieri vuoti sul tavolinetto basso davanti alle poltroncine per gli ospiti, nell’angolo dell’ufficio dirigenziale. Contro la luce della finestra aveva scoperto la perfezione delle caviglie affusolate e le curve armoniose dei polpacci e delle cosce, velate dalle calze, fino a scomparire sotto l’orlo teso e sollevato in quella posizione della gonna. Desiderò che si chinasse di più, ancora un poco, solo poco gli sarebbe bastato.
Per vedere spuntare ancora oltre, solo poco più in alto, disvelate per un attimo, le due labbra nude e rosa.
Ci mise forse qualche secondo di troppo, Simona, a risalire da quella posizione, ma Aldo non se ne rese conto.
La sua testa era persa su quel gioco di carne, nylon, ombra e luce.

Fu allora che, girandosi verso la sua postazione di lavoro, voltandogli le spalle, ancora, Simona sorrise. Più che un sorriso, nella velocità del gesto fu un lampo.
Se Aldo avesse guardato il quadro alla parete dietro la sedia di lei, nel riflesso dello specchio, con un poco di fortuna, forse avrebbe potuto coglierlo quel sorriso compiaciuto. Ma non lo fece.
Si alzò, era abituato a dettare camminando nervosamente per l’ufficio, quando lei scriveva.
Solo lo fece senza fretta, non è che avessero urgenza quelle lettere ora.
Camminò fino alla porta, la senti aprire il portatile e sentì la sedia muoversi mentre lei si accomodava per scrivere la nota sotto dettatura.
Poi, contrariamente alle sue abitudini non tornò alla scrivania, ma scelse il divano di pelle e la invitò a sedersi col portatile a lato di fianco a lui, su una poltrona.
Le vide posare il laptop sul tavolinetto mentre si sedeva, sollevando e sistemando la gonna sotto di se sulla pelle nera della poltroncina. La gonna le salì nel prendere posizione ma lei non dimostrò di darsene a vedere. Né alzò gli occhi in quelli di lui che videro scoprirsi le cosce un po’di più, quasi al rallentatore.
Si chiese perché avesse quel groppo in gola ora e come mai le parole che di solito uscivano da sole fossero come bloccate e non riuscissero a venir fuori.
- Detti pure dottore – si sentì dire.
E per la prima volta colse i toni di quella voce che era abituato a sentire solo obbedire.
Non era quella della ragazzina assunta due anni prima. Era calda. Quasi umida come se fosse uscita dai vapori di un bagno turco in un quartiere di Istanbul in estate.
Un po’ roca nelle consonanti che arrotava e scivolava come se pattinassero sul ghiaccio, tagliandone il velo in superficie. Questa volta il sorriso di lei sì che lo vide.
Gli occhi che si abbassarono nell’incontro stavolta non furono quelli di lei.
Sì, io sono imbarazzato, si scoprì a pensare.
Ma al tempo stesso scoprì di non aver nessun desiderio di uscire da quell’imbarazzo ora.
Si schiarì la voce.
Per la prima volta da quando aveva venti anni si sentì goffo e un po’ a disagio.
Ma l’ultima cosa che desiderò fu di uscire o farla uscire dall’ufficio.
Si scoprì a sorridere, spostando lo sguardo dalla ragazza al proprio orologio, per poi risollevarlo, visibilmente impacciato.
Fu allora.
Che Simona si sistemò meglio sulla poltrona.
Lo fece in modo totalmente naturale. Con noncuranza. O così sembrò fare. Mosse le natiche sulla pelle della poltrona, un po’ a lato, sinistra, destra, e si fece risalire sulla seduta.
Salì, appena la ragazza smise di spingere con le reni, puntata sui tacchi, la gonna sulle cosce. Scoprì l’orlo della calza. Simona non accennò alcun gesto per farlo scendere. Stava guardando Aldo negli occhi e non smise di farlo. Gli sentì cambiare il ritmo del respiro. Quasi che fosse vincolato e sincrono al suo muoversi nel sistemarsi dentro la poltrona che ora la avvolgeva.
Lentissimamente questa volta. Senza alcun cenno di pudore, ma nemmeno di emozione o coinvolgimento, sollevò da terra un piede.
Un istante infinito.
O almeno così parve ad Aldo.
Ebbe l’istinto di alzarsi, verso di lei.
Mentre la gamba era ancora sollevata, svelando cosa celava la gonna, questa volta senza dubbio o alcun pudore.
Lo gelò la voce di lei.
- Stai seduto, o grido e dopo me ne vado
Lui si lasciò pesantemente ricadere, e si sentì mancare il fiato.
Urtò facendolo il tavolino basso da cui caddero i fogli che aveva sistemato sedendosi poco prima lei.
- Raccoglili
Si sentì dire dalla voce di lei, ferma, priva di qualsiasi emozione.
Ogni emozione l’aveva dentro adesso lui. Gli sembrò che il cuore amplificasse, nel torace, tono, frequenza e volume. Se lo sentì crescere nel petto come si accorse che stava crescendogli altro nei pantaloni. Alzò gli occhi in quelli della ragazza.
Non lesse alcun indugio, alcun dubbio, alcuna incertezza.
E si accorse solo dopo averlo fatto di essersi alzato dal divano e di aver posato a terra un ginocchio per raccogliere i fogli dalla moquette.
Il viso a pochi centimetri dal piede della ragazza.
In ginocchio davanti all’ombra della grotta disegnata dalla gonna sollevata dalla coscia.
Non osò alzare gli occhi, pur volendolo.
- E ora giochi come piace a me o smetto subito, e il gioco mio non si ripete, se ti rifiuti ora, sappilo. Scegli – si sentì dire dalla ragazza, con voce calma, ferma, sicura, senza che tradisse la minima emozione. Soltanto un velo compiaciuto di piacere e scherno malcelato nelle parole.

Aldo non era certo avvezzo a stare in ginocchio.
Non lo era per cultura, arroganza, presunzione, educazione. Una vita spesa a godere esercitando coercizione, privilegi e quel gusto sottile che tanto amava nel far sentire piccole davanti a lui le persone. Né aveva un gran concetto della donna.
A partire da sua madre, giudicata piccola, meschina, insignificante di fronte a quel padre puttaniere, sempre vincente e sempre sicuro, toltogli da un incidente stradale ancora da ragazzo prima che potesse mai vederlo debole, o malato, o solo, o fragile quale in realtà era.
Eppure era in ginocchio ora.
Davanti a una ragazza la cui età entrava due volte nella sua e ancora ci ballava.
A una che era nel suo libro paga, poi, figlia di un operaio e non come lui di un ingegnere, padre di un ingegnere, lui, a sua volta padre di una ragazza costretta a diventare anche lei ingegnere.
Il piede, calzato nella scarpa, ad oscillargli davanti al viso.
Piano, in modo impercettibile quasi.
La danza di un serpente davanti al topo, la testa del cobra pronto a scattare.
La voce di Simona lo colse impreparato, perso come era nel seguire quella danza lieve. E le parole del tutto inattese.
- Bacialo
Gli si fermò il respiro. Un attimo di troppo, perché lei ripeté, la voce salda più del respiro di lui la stessa parola
- Bacialo
E l’uomo che alla visita vescovile in fabbrica si era rifiutato di baciare l’anello del pastore, che nemmeno davanti a Dio io mi inchino, aveva detto a cena, compiaciuto, dopo, la stessa sera, accostò le labbra. Sfiorò il cuoio rosso con le labbra. Il nylon risalendo alla caviglia e al dorso.
Con l’altro piede Simona sfilò, facendo leva sul calcagno, in un sol gesto, la scarpa.
- Bacialo come si deve, ora
Lo sollevò, offrendone la pianta alle labbra e alla lingua dell’uomo in ginocchio davanti a lei.
Iniziò la danza, il piede si muoveva e la bocca lo inseguiva, come se fosse calamitata e le labbra non avessero altro luogo dove andare.
Non avevo mai desiderato tutto questo, pensò quasi con angoscia Aldo, eppure non smise. Non aveva mai desiderato così nessuna donna così in tutta la sua vita, e questo lo sentiva ben chiaro, era eccitato come non gli succedeva da anni di essere. Pregò dentro di sé che tutto ciò non fosse destinato mai a finire.
La ragazza rideva.
Lui impazziva.
Poi, come le aveva accavallate, lei separò di scatto le gambe, mentre lui era chino con le labbra posate a pressarle in un bacio interminabile. Lei posò i piedi, lontani tra di loro, con le piante al suolo, allargando le cosce più che poteva.
Lui crollò al suolo con la testa e il volto tra di loro.
Desiderò alzare gli occhi, la fica era proprio sopra di loro. Ma quando lei gli disse – giù la testa – e gliela schiacciò al suolo, lui non osò ribellarsi, e non lo fece.

Era eccitato. Eccitatissimo. Sdraiato quasi sulla moquette grigia.
Sentiva persino dolore, il cazzo imprigionato nel tessuto dei pantaloni teso per la posizione innaturale in cui era franato al suolo al sottrarsi del piede al suo bacio. Era come aver scoperto per la prima volta un sapore.
Era così allora che si erano sentite le sue amanti in anni e anni di soprusi e umiliazioni? Si chiese. E in un lampo, un soprassalto istintivo di quel che era sempre stato, si rimproverò di essere stato con loro comunque fin troppo generoso allora,…
Simona lo sentì muoversi e calcò il tallone.
- Sfilati i pantaloni
- Fai solo quello che ti ordino, al primo cenno di ribellione o iniziativa tua, finisce il gioco, ricordalo
E Aldo cominciò ad armeggiare con le mani.
- No, non così, non alzarti, fallo senza togliere la lingua dal mio piede. Striscia, se vuoi la mia fica.
Aldo portò le mani alla cintura, la slacciò a fatica, poi i bottoni e iniziò a contorcersi per scivolarne fuori senza alzarsi dal suolo.
- Così, bravo, ora le mutande, per liberare le caviglie usa i piedi, così, bravo
E si alzò la gonna sulle cosce, togliendo il piede dal suo viso, sollevandosi sulla poltrona
- Guardala, è fradicia. Avvicinati senza alzarti, cercane l’odore.
E Aldo a culo nudo, la giacca e la cravatta, e la camicia azzurrina Oxford, a sollevare il collo fino a sentirne dolore.
La fica nuda, implume, liscia, la pelle rosa, pallida, le labbra gonfie, aperte, il taglio della bocca più piccola, disvelato. Che sembra una ferita bagnata. E la terra di nessuno, sotto il culo sollevato, celata tra la fica e l’ombra serrata della rosetta celata tra le dune.
- Bravo, sai obbedire
E l’uomo abituato solo a ordinare e comandare, quello che non si era mai posto il dubbio dell’aver fatto del male facendolo o di aver imposto umiliazioni, restò lì con gli occhi persi tra le pieghe morbide e umide schiuse davanti a lui. Desiderando solo di affondarci le labbra e la lingua e, godendone, sentirla godere. Quasi implorando con lo sguardo il permesso di poterlo fare.
Simona intuì probabilmente i suoi pensieri.
Portò le mani alle labbra gonfie e cominciò a carezzarle. Sollevò un piede prima, poi l’altro. Li portò sulle spalle di Aldo e con l’indice percorse il suo stesso taglio, aprendolo, lentamente da sotto a sopra, intingendo la falange e l’unghia nei suoi umori.
Al salire del dito tra le labbra, dietro, lenta e morbida si richiudeva la sua fica.
Una due tre volte.
Ogni volta si chiudeva meno, più lentamente, poi allargò le cosce di più e rimase schiusa come una rosa porpora e carnosa. Gli porse il dito.
-Pregami di assaggiare il mio sapore, gli disse, la voce bassa, calda, umida come il polpastrello e l’unghia corta che gli offriva.
E Aldo pregò, lei avvicinava alle labbra e alla lingua oscenamente offerta il dito.
Poi lo sottraeva. In attesa che le preghiere fossero ripetute ancora. E le preghiere si ripeterono, sempre più vere, sempre più impudiche, sempre più oscene.
E lei giocò. Giocò.
Poi, inattesa, gli si concesse. Esplorò la bocca, si fece avvolgere dalla lingua. Gli violò, fino a dargli un conato di vomito, la gola.
Poi, inattesa come erano stati l’inizio e ogni sua richiesta, impose la fine.
- Ora ti ricomponi che così fai schifo
Lo gelò.

Aldo, anche solo sfiorandolo, o sfiorandosi, avrebbe potuto godere.
Si chiese come avesse fatto a non accorgersi di lei prima. Così diversa, folle, così bella, l’ingenuità assoluta e al tempo stesso la consapevolezza così sconcia e impudica di quello che voleva. Ci si innamora in mille differenti modi e lui, che non si era innamorato che di se stesso, aveva il cuore che impazziva, non meno del suo cazzo trascurato, di cui, in quel momento, paradossalmente, nemmeno quasi gli importava. Lui che aveva violato, schiacciato, preteso, offeso, violentato anime e vite, nella vita e nel lavoro, stava allacciandosi come un liceale la patta dei pantaloni sul cazzo che non accennava a trovare riposo.
Non sapeva cosa fare, cosa dire.
Cosa, ma soprattutto “come” chiedere. Era completamente perso, per la prima volta in vita sua.
Così si rivestì, mentre Simona stessa si ricomponeva, carico dentro se stesso di desideri e di attese.
Gli diede appuntamento per la sera.
Dettandogli, scandendo minuziosamente le parole mentre si faceva infilare, da lui, con un ginocchio al suolo, le scarpe, le istruzioni.
Avrebbe dovuto raggiungerla, se voleva continuare il gioco.
Ma continuare, pena la fine immediata e irrevocabile di tutto, ancora e sempre solo secondo le sue regole, che da quel momento quella era l’unica regola che per lui avrebbe dovuto esistere. Appuntamento alle ventidue.
Al motel, quello, sì quello, gli disse.
Quello che lei ben sapeva lui da tanto frequentava, avendone pagate le fatture ogni fine mese. Per le sue scopatine extra, come Aldo ridendone le chiamava al telefono con gli amici.
- Quello dove scannavi le amiche di tua moglie, gli disse.
Gli dette istruzioni su come voleva lui fosse vestito e gli dettò un elenco di cose da portare che lo stupì non poco. A parte il vino, i calici, le corde prese dalla sacca nautica del gommone. Il frustino che la moglie usava a equitazione. Il cappuccio nero che lei sapeva lui usava per le riunioni, al tempio, da buon massone.
E ancora altre piccole cose, e al crescere dell’elenco lui annuiva. E gli ricresceva l’eccitazione.
Lui così violentemente forte, vincente da una intera vita davanti a lei, fragile per nascita, ceto, educazione e condizione e ruolo sociale.
Gli ordinò di chiedere della stanza che avrebbe prenotato lei e entrare, senza attenderla. Di non chiudere la porta a chiave, solo accostarla.
Di spogliarsi nudo, riponendo gli abiti con ordine sul letto e attendere. Le spalle all’entrata, e non voltarsi mai.
Gli disse che avrebbe trovato ulteriori istruzioni nella stanza, a cui avrebbe dovuto ubbidire.
Fu il tocco finale questo. L’idea di altre richieste e ordini, l’ennesimo giro di vite ad affondare nei suoi desideri. L’attesa, l’incognito, l’ansia e l’eccitazione. O fu la bellezza sconvolgente di lei così forte e sicura di sé.
Lei sollevò il piede calzato e glielo posò sui pantaloni. Lì. Proprio lì.
Lo sentì fremere. Calcò il piede.
Poi vide la macchia scura allargarsi lenta sotto la suola.

Aldo arrivò dieci minuti alle ventidue. Attese. Nel parcheggio.
Alle ventidue esatte andò alla gabbiola del concierge e si fece consegnare le chiavi.
Il concierge finse di non riconoscerlo, salutandolo formalmente, nonostante sapesse benissimo chi fosse, per le sue assidue frequentazioni. La privacy anche formale in certi luoghi impone regole grottesche che rasentano la maleducazione, si disse, prendendo la chiave magnetica con visibile trepidazione.
Aprì la stanza, la luce del motel nelle stanze entrando era soffusa.
Si spogliò, piegò gli abiti. Nello specchio vide riflettersi un corpo che iniziava a cedere agli anni e l’esordio della sua erezione. Sul letto un iphone bianco, quello di lei, avvolto in un foglio ripiegato.
Aprì il foglio cercando le istruzioni.
Dovette sedersi dopo le primissime righe. Senza fiato in gola.
Poi riuscì a continuare la lettura.
“Bene, ora sei arrivato qui. Al tuo scannatoio.
Questa volta non per scopare tu e importi ma per farti tu violare. Iniziamo subito, vuoi?
Siediti che è meglio.
Leggi tutto, poi guarda il video che c’è nel cellulare.
L’ha girato tua moglie. Oggi, dal bagno del tuo ufficio, dietro la porta socchiusa, mentre il suo marito infedele, violento, arido, arrivista, crudelmente insensibile mi leccava i piedi e strisciava come un verme accettando ogni umiliazione. Lei piangeva, ma le è passato in fretta. E’ abituata a piangere e ha deciso di imparare a smetterla di farlo ora.
Non sei venuto bene.
Nel video intendo, visto da dietro il tuo sedere è grottesco. Bianco, largo per la prospettiva. Impareremo migliori tecniche di ripresa, non temere. No, non sei venuto bene, sembravi un verme in giacca e cravatta a sbavare per una ragazzina leccandole l’indice come fosse un cazzo a scoparti la gola.
No. Non è vero. Sono ingiusta io ora.
Sei “venuto” bene, anche se questo, nel video, si capisce solo dall’espressione ebete del tuo volto mentre col mio piede sul tuo cazzo godevi. Nella ripresa dal bagno purtroppo la macchia che si espande sui tuoi pantaloni non si vede.
Gliel’ho dovuta raccontare io, a tua moglie. Sapessi come rideva.
E ora che ti sarai seduto, è come se ti vedessi adesso sai, devi essere pallido come un lenzuolo, un fantasma col cazzo teso, ecco le regole.
Gli ordini.
Primo, le dimissioni. E’ tempo che ci sia un nuovo amministratore delegato in azienda. Sì. Lei.
Marta Borghetti, è quello che avrebbe voluto suo padre, il fondatore, se non avesse avuto un genero rapace.
E’ quello che tutti, ricordando le differenze di morale, comportamento, onestà e stile tra te e lui, in azienda desiderano da sempre, idiota. Le cederai il 5% delle tue azioni, a titolo gratuito, così ci garantiamo che non alzerai la cresta mai più da ora.
Secondo. Sarò la “sua” segretaria. Visto che sono la sua amante da sei mesi ma tu sei troppo preso a vedere te stesso per accorgerti che la donna che da sempre tradisci e offendi ti ha fatto cornuto con una segretaria, la tua, quella che ha una laurea che non vale nulla, come dici. E figlia di operai, cosa che per te è una bestemmia, vero?
A te, che servirai solo a fare figura, la segretaria in realtà non servirà più nemmeno, ma se serve , quando serve, ci penserò io.
E parlando di operai, il punto tre. Riassumi i centoventi licenziati. Anche quel Giorgi, Adelio Giorgi che nel gruppo c’era, ma tu, e lo so per certo, hai firmato i centoventi licenziamenti suggeriti dal capo del personale senza nemmeno preoccuparti di chi fossero quelle persone o di leggere persino i loro nomi. Sì, Giorgi.
Giorgi come me. Perché è mio padre, mio povero coglione.
Impara a leggere le cose che firmi, e a ricordare come si chiamano le persone. Lui e io ad esempio.
I punti quattro, cinque e sei, gli altri ordini, non sto a dirteli ora.
Guardati invece il video.
Siediti più comodo e vedi come ti sputtaneremo se non ubbidirai alle mie regole.
Perché da oggi si gioca, ma come dico io. Gioca con le mie regole e nessuno si farà del male.
Rivestiti.
Torna a casa.
Domani vorrei trovare una rosa sulla mia scrivania. Bella, gambo lungo e senza spine. E che tu indossassi la cravatta di Hermes, quella a toni rosa antico che è vero, come dici, che ti sta proprio bene”

Spillata con una graffa in fondo alla lettera una carta da gioco. L’ottavo arcano maggiore.
Sulla carta l’immagine di una ragazza, giovane, luminosa, esprime forza. Al suo lato, il capo abbassato, inoffensivo e domato, un leone.
Sotto, le note all’arcano.
Sottolineati con l’evidenziatore azzurro che Simona usa ancora per le lettere in ufficio alcuni passi.
Arcano numero 8. LA FORZA
…Questo arcano rappresenta due tipi di forza: quella bruta rappresentata dal Leone e quella spirituale rappresentata dalla fanciulla
…Sii forte. Affronta con energia le sfide che ti si parano innanzi, Non cedere. Non ti arrendere.
…La forza che ti permetterà di ottenere la vittoria è la forza della ragione


Finisce così?
No, non è possibile, vero? No. Non finisce così.
I punti quattro, cinque e sei mancano. Mancano quei tre successivi ordini, arrivati nei giorni a seguire, tre richieste ancora.
Ma non li racconto in questa fiaba. Perché è una fiaba, questa, e come tutte le fiabe deve avere un epilogo come si deve.
Ho un dubbio solo: serve davvero che lo scriva, ora? Non si capisce? Non si capiva?
Da quasi un anno, ogni volta che apro il portafogli, io trovo, tra una banconota da cinque euro e una da venti, quella carta, piegata. La ragazza e il suo leone.
Sono esattamente dieci mesi e undici giorni che non la tolgo da lì.
L’evidenziatore è un po’ svanito, a furia di toccarla, era di pessima qualità. Ma non farò scrivere da Simona una lettera all’ufficio acquisti per lamentarmi degli impiegati. Non rientra nemmeno più nelle mie mansioni.
Vivo meglio però.
Con Marta e Simona.
I punti quattro, cinque e sei, benedette le sue regole, erano i più belli, coinvolgenti e sconvolgenti, come poi ebbi a scoprire. Erano meravigliosi.
Mi hanno.
Ci hanno, cambiato la vita. E’ una forza, quella ragazza.
E anche Marta non è male quando giochiamo tutti e tre insieme, è stata una scoperta del tutto inattesa dopo una vita malvissuta insieme.
Parola di Aldo. Giuro. E’ una forza, sono una forza, entrambe.
Davvero.
 

 

Note: racconto scritto per un'antologia erotica a tema GLI ARCANI MAGGIORI
L'arcano sviluppato è l'ottavo, LA FORZA. Queste le sue caratterizzazioni:


Sul dorso della carta viene raffigurata una fanciulla, vestita di bianco, con una ghirlanda di fiori, in compagnia di un leone. Il leone è in atteggiamento decisamente pacifico, quasi affettuoso nei confronti della giovane. La carta della Forza nei tarocchi indica solitamente due forze tra loro contrapposte: la giovane donna rappresenta la forza della ragione, dell'autocontrollo e della pazienza mentre il leone indica la forza brutale e selvaggia. Il leone simboleggia la nostra natura istintuale e impulsiva.
E’arrivato il momento di considerare quanta forza hanno su di te i tuoi impulsi e valutare se possono essere distruttivi, se possono portarti a un punto di non ritorno.
Tutto quello che hai cercato di nascondere a te stesso, verrà a galla per essere ripulito una volta per tutte. Questo ti porterà dei cambiamenti positivi in vari aspetti della tua vita: economico, sociale e anche in amore. La tua via comincerà a vibrare un’energia vera.
La forza nei tarocchi assume un significato positivo se pescata dritta indicando situazioni che si evolveranno in positivo. Se invece la Forza viene pescata a rovescio, rappresenta il predominio dell'insicurezza e della forza brutale che porta quindi ad un eccessiva istintività e violenza che può essere solo controproducente.

 
 
 
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