La nebbia aveva cominciato a salire poco prima del tramonto.
All’inizio apparve come sbuffi di cotone, fiocchi sfilacciati e resi
incompatti dalle dita, direttamente dall’erba fredda. E al progredire
del buio e allo svanire definitivo delle ombre degli alberi lungo la
riva aveva cominciato ad addensarsi.
Un coagulo di bianco denso, che ora svolgeva al suolo celandone i
dettagli, il profilo, gli ostacoli in lontananza. Del fiume, lungo cui
si erano addentrati nello snodo oltre il parcheggio, negli occhi dei
due, che camminano sul piccolo sentiero sulla riva, resta il ricordo.
E’ andato.
Avvolto dalla maggiore densità della coltre bianca proprio in prossimità
dell’acqua.
E allora lei si stringe. Quasi che dell’incertezza di due serie di
passi, e quattro piedi alla ricerca della ghiaia del sentiero che
confermi la direzione giusta, se ne potesse fare quasi, unendoli, una
certezza piena.
Aveva deciso di vederlo e aveva finito con lo scegliere proprio quel
giorno.
Nessuno dei due aveva ordinato che ci fosse nebbia intorno, era arrivata
da sola, colpa, o merito, di un sole che li aveva accolti ancora quasi
caldo, di un cielo sereno ormai da un paio di giorni e del freddo della
notte che si avvicinava a passi lenti. Erano avvolti adesso.
Per quella similitudine di bianco che fa sì che nebbia e neve occultino
oltre alle sagome intorno anche i rumori, i loro passi erano sospesi
nell’unico rumore dei loro piedi. E persino il fiume sembrava aver
trovato finalmente dopo secoli e millenni un suo silenzio, nel suo
instancabile movimento.
Il primo bacio era stato quasi tremato dalle labbra.
Si erano guardati, non sapendo all’ultimo, come darselo. Poi lui aveva
chinato a lato il capo e lei aveva fatto simmetricamente lo stesso. Si
erano guardati prima di farlo.
Quasi titubanti e imbarazzati, benché sapessero da sempre che sarebbe
successo.
E in quel mistero, che fa di ogni bocca e di ogni labbra le prime che
baci, erano stati impacciati davvero, ma lo erano stati un solo istante.
Lei potè percepire l’irruenza che lui frenava e negava alle sue labbra
perché si era innamorato all’attimo del contatto di quella carezza. Di
labbra sulle labbra.
Il fiato caldo forse si mescolò, uscendo dalle loro bocche così vicine,
alla nebbia.
Si perse nella nebbia.
Ora lei si era stretta. A lui.
In pochi passi avevano trovato il passo e camminavano accostati e
stretti – ho freddo, stringimi- lei gli aveva detto. Sembrava, ma nella
nebbia nessuno avrebbe potuto scorgerli o dirlo, che stesse camminando
lì un animale strano, con due paia di gambe non disposte in fila, le une
davanti alle altre, ma affiancate in una geometria animale di due corpi.
Arrivarono alla luce che alonava la nebbia, gialla di tuorlo d’uovo
cotto, dopo parecchie soste.
A volte capitava che lui o lei ponessero male un piede a terra e
incespicassero aggrappandosi al corpo che tenevano stretto E ogni sosta,
ne simularono probabilmente anche alcune per ripetere come bambini il
loro gioco, tornavano a danzare nel circo delle labbra le lingue,
ritrovandosi.
Lei gli infilò, sollevandogli il giaccone che lui aveva aperto, la mano
tra la cintura dei pantaloni e, dopo l’orlo della camicia, la pelle. Lui
sentì la mano fredda e immaginò che lei percepisse sotto le dita il
brivido provato a quel contatto.
Poi, e fu questione di pochi minuti, forse uno soltanto, la mano diventò
così calda, aveva assorbito parte del calore del suo fianco e quello
degli abiti sotto cui si era protetta, che lui la sentì quasi capace di
sciogliergli la pelle solo toccandolo.
Ancora un sasso, sotto le scarpe inadatte di lei a camminare lì lungo il
fiume, e quella mano che si aggrappa al fianco sotto i suoi pantaloni e
la camicia, e lui che la trattiene per evitare che caschi, serrando il
braccio alle reni dove a sua volta lui la tiene a sé e la abbraccia.
Si baciano ancora. Come se non avessero fatto altro da sempre.
La luce della trattoria ora è ben distinguibile, l’alone giallo si è
fatto luce sufficiente quasi per leggerne il nome sulla vecchia insegna.
Ancora un bacio, rubato sulla soglia, prima che con lentezza lei sfili
quella mano, quasi con rimpianto. Un bacio ancora e ancora un altro,
come se avessero paura che potessero non essercene più altri.
Sarà la prima volta che mangeranno insieme. E trasformeranno in gioco
ogni cibo, le forchette, i cucchiai, i tovaglioli di stoffa pesante.
Trasformeranno in gioco la scherma del rubarsi il cibo l’uno dall’altrui
piatto. E il cozzare delle forchette che sembrano ridere con loro.
-Fammi assaggiare piccola strega –
E nel dirlo, mentre affonda la forchetta, sporgendosi fino sfiorarla,
viso a viso, per la stufa a legna accesa lì vicina nella stanza e per la
voglia che traspare nelle parole e già anticipa il loro mordersi e
rubarsi gemiti di labbra pelle e denti, il volto di lui si arrossa.
Quasi scotta.
La piccola trattoria ha solo due stanze.
Locanda con alloggio.
In quella sopra la piccola sala dove sono stati avventori solitari, si
spoglieranno.
Il ponte di Pavia nel quadro appeso sopra la testata del letto li vedrà
gettare gli abiti sul pavimento senza nemmeno interrompere un istante la
colla delle labbra.
Nel loro sonno dopo l’amore, avvolti e indistricabili nelle lenzuola
attorcigliate ai fianchi, a respirare alterni, come se ad ogni respiro
si modellassero i loro corpi, si leverà sulla campagna il vento.
Sottile, quasi impercettibile, in silenzio.
Sposterà via il copriletto di nebbia dal fiume, dal sentiero e dai campi
di terra nuda rotta e allestirà per loro la prima alba.
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