L’isola non era nella mappe.
O per lo meno, se anche c’era doveva essere così piccola che almeno in quelle più diffuse, se anche la si vedeva, la si vedeva appena. La cacca di una mosca, disse una volta un nostromo cercando di toglierla dalla carta nautica, pensandola una macchia o una incrostazione di cibo. Non si dette nemmeno la premura di controllare se la cosa fosse andata via, dopo il colpo rapido col dorso della mano.
Era rimasta lì, ma lui era salito in coperta, lasciando il compasso d’ottone aperto, piantato sulla carta. Al posto della macchia, adesso, un foro.
Fu per questo che, lui che pescava in quel mare, non si recò all’isola, né la cercò, né quel giorno né mai.

Non so dire, allora, come la trovarono loro. Né come ci fossero arrivati, una mattina, sotto un sole che ustionava di sale la loro pelle nuda.
Ricordavano a malapena di essere caduti, lei per prima – quell’onda la tradì davvero, facendola sbilanciare - e lui subito dopo. Nel tentativo di fermare la caduta della donna, oltre la ringhiera. Che era notte fonda, e il mare era nero.
Freddo persino, nonostante fosse piena estate.
O forse fredda era solo la paura del buio intorno.
E sotto di loro.
In pochi istanti la grossa imbarcazione da cui erano caduti si era allontanata, il mare era quasi calmo, ma il rumore dei motori aveva sovrastato da solo le loro voci. E poi era tardi e sul ponte a quell’ora c’erano solo loro.
E si erano trovati, così. A galleggiare.
Lei a fatica, lui un po’ meno insicuro, soli, in mezzo, o a lato, o sopra, o sotto. Insomma in qualche punto imprecisato e buio di quel mare.

Dopo di che la notte.
All’inizio non fu fatica. Poi lo divenne. E il freddo divenne forte, l’acqua sembrò gelare nelle ossa e perse ogni residuo di calore, bevendosi lei quello dei corpi immersi a galleggiare.
Passò del tempo, minuti, poi un’ora. O forse delle ore.
Poi il buio fu totale. Anche dentro di loro.
E ora tutta quella luce, il sale sulla pelle mentre i vestiti stesi sulla sabbia, appesi a cespugli di rovi, iniziavano ad asciugare.
Lei era svenuta forse, lui l’aveva sorretta come poteva, in acqua, pensando che erano entrambi condannati a sciogliersi in quel mare. A farsi mangiare dalle onde che erano cresciute e avevano iniziato a trasportarli chissà dove.
Poi aveva perso i sensi anche lui, o forse solo smesso di pensare e non sapeva o poteva ora così ricordare.
Come fossero arrivati lì.

La prima cosa che fece quando riprese conoscenza fu alzarsi e con gli occhi cominciare a urlare.
La spiaggia era in salita, alberi poco più in alto, poca sabbia e poi sassi e rocce con piccole pozze chiare. E macchie più scure. Cercò lei.
Sbandò, perse l’equilibrio e si sentì incontrollabile e incontrollata e forte nello stomaco la necessità di vomitare. Uscì acqua a getto, vomitò tossendola, fino a provare al diaframma crampi di dolore. Quando rialzò gli occhi, vuoto dell’ acqua salata bevuta nella notte, allora solo, lui la vide.
La risacca la portava in su e in giù, giocava con vestiti gonfi d’acqua, e le gambe e le braccia sembravano senza ossa e si muovevano, assecondandolo docili, al ritmo di quel mare.
Ebbe necessità di urlare.
Urlò.

Poi corse, la raggiunse, si inginocchiò, le prese la testa nelle mani.
Le pulì il volto dall’acqua che colava dai capelli, le pettinò i capelli con le dita. Scoprendole la fronte. Poi portò le labbra alle sue e la cominciò a baciare. E respirare e spingere quanta aria più potesse nei suoi polmoni. Le labbra erano fredde e chiare, avevano perso quasi ogni colore.
Fu quando le sentì riprendere calore sotto le sue che, col cuore che gli si fermò sentendolo, lui si fermò.
Pressò il petto e il seno.
Lo aveva visto fare nei film ,era l’unica cosa che gli venne in mente di fare. Nei film l’acqua esce a getto dai polmoni, in realtà esce più piano, all’inizio e sembra quasi colare.
Una spinta, un’onda dalla gola. Due spinte e una seconda onda.

Non le seppe dire, dopo, a quale onda lei avesse ricominciato a respirare e finalmente, allora sì, con colpi convulsi si fosse liberata dall’ultima acqua salata, restituendola al mare.
La strinse, le baciò occhi, fronte e viso.
Ne carezzò la pelle che il mare aveva cotto e reso pallida, e che si ricopriva del velo secco e sottile di quel sale. Attese che lei aprisse gli occhi.
Poi la guardò, incredulo, nemmeno fosse scesa da Marte su di un’astronave. E la vedesse, per la prima volta nella sua vita, solo allora.
Tornò col volto alle sue labbra e fu un bacio quasi colmo di stupore. Mescolarono le labbra velate di sale.
Trovò la lingua, celata dal calore del respiro. Era dolce, non sapeva di sale.
La carezzò con la sua, quasi avesse paura di quel bacio, ne temesse la fragilità, dopo i mille che si erano dati sulla nave.

Non c’era ansia, fretta, urgenza, rapina o urgenza alcuna in quel furto di respiro. Né battaglia della lingua con la lingua, solo un nodo da riannodare.
Allora si staccarono.
Erano ancora dove la terra accoglie il mare.
E poi lo lascia andare.
Guardarono verso il mare e videro solo mare.
E poi ancora mare, a sinistra e a destra, mare. E poi mare. E sopra il mare un cielo che sembrava lo specchio di quel mare. Dietro di loro la salita della spiaggia a farsi roccia, cespugli di rovo e cardo marino, poi i primi alberi. E l’erba che si mescolava e perdeva in chiazze tra le pietre, la sabbia e la terra più scura.
Guardarono il verde sempre più pieno e denso e fitto dietro le prime piante. Si misero e sedere vicini.
E quasi sottovoce cominciarono entrambi a ridere.
Senza un motivo.
Non era un riso che liberasse da paure, né che ne esorcizzasse alcuna, risero perché venne così, da ridere senza un motivo, a tutti e due.
Si alzarono.

Lui la spogliò. Poi si spogliò anche lui.
Misero gli abiti ad asciugare. Sospesi sui cespugli, trattenuti dalle spine a rispondere al vento che aveva cominciato a soffiare dal mare, cercando di rapirli nel suo spingere e gonfiare.
Il corpo ritrovò per entrambi sotto il sole il suo calore. Assaporarono i raggi caldi e il vento che li rendeva tollerabili e li faceva ancora di più desiderare.
Nudi, guardarono le impronte dei loro corpi nella sabbia bagnata, dimenticate dal mare che la marea aveva cominciato a fare ritirare. Le impronte dei piedi di lui che andavano da dove il mare l’aveva depositato a riva a dove era arrivata, poco discosta, lei.
Si accorsero solo allora di avere entrambi perso le loro scarpe in mezzo al mare.
Calcarono i piedi nudi nella sabbia. La imprigionarono allargando e stringendo le dita tra le dita.
Poi guardarono le impronte impresse davanti a loro. Fonde e calcate come plantari.

Allora lei salì sulla punta delle dita dei piedi di lui, stando in punta di piedi, lei. Lui perse quasi l’equilibrio, sotto la spinta.
Si ritrovò coi seni nudi di lei puntati al petto. Gli occhi negli occhi. Sorrisero.
La bocca alla distanza di un respiro.
Lei si teneva con le mani alle spalle di lui.
“Sarai le mie scarpe, qui mi distruggo i piedi sui sassi e sugli scogli, signor Robinson”, e rise.
Lui accennò due passi. Goffamente.
Sembravano pinguini dondolanti, scossi dalle loro stesse risate. Mentre, petto a petto, l’animale con due schiene e quattro gambe diventate due, accennò ad iniziare a camminare.
“Io sarò Venerdì di martedì, giovedì e sabato. Poi io Robinson e tu Venerdì” gli disse, e ancora rise.
Più tardi si resero conto di non avere calendario alcuno.
A indicare giorni, mesi o settimane.
Non che la cosa poi importasse molto a nessuno dei due.
Avevano un’isola intera, solo loro, tutta per loro, senza un metro, un orologio, una mappa, un biglietto di ritorno, tutta da esplorare.
Le ultime tracce che il mare poi, nella tempesta quella notte, salendo alto alla riva, impadronendosi della spiaggia, si occupò di occultare, andavano dalla spiaggia al fiume.

Sulla barca che passò vicina, la cacca di una mosca forata da un compasso da carteggio, a cancellare ogni traccia, si fece complice del mare.
E il nostromo tornò a far filare le sue reti in mezzo al mare.
Nemmeno si accorse di qualcuno che nella notte in mezzo al mare cominciò a ridere e a cantare.

 
 
 
 
 
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