Erano giornate torride.
L’estate infliggeva dardi caldi, intinti di sudore, oltre il tessuto della maglietta. Incollata alla pelle.
L’uomo aveva corso. E non era nato corridore.
E stava correndo ancora.
Il fiato aveva preso sapore di metallo, quello che conosceva quando, per il gran respiro affannato, la gola gli si seccava e sembrano di alluminio, al palato, il suo sapore e quello della saliva che ora deglutiva a fatica nel suo ansimare. Ma sono i casi della vita.
Quelli che fanno ritardare.
Aveva avuto intoppi sin dal mattino. Oddio, se si guardava indietro di intoppi ne aveva avuti un casino.
Ma correre così verso la stazione gli impediva persino di pensare.
Il piccolo zaino, auto-indulgenza alla sua voglia di mai invecchiare, gli batteva ad ogni passo sulla schiena, come una macchia blu, appesa a due fili, a saltellare. Sotto lo zainetto, nonostante le spalline così morbide e allungate, la sua schiena era diventata la mappa di un’isola tropicale. Un’isola di sudore caraibico, scura più del tessuto originale.
Tra un passo e l’altro, quando doveva per forze riprendere fiato e rallentare, il pensiero ricominciava a correre. E a srotolarsi come una matassa di corda caduta dal tavolo e in fuga verso la fine del tappeto o l’urto contro lo spigolo del muro. O l’anta della porta chiusa.
Pensava al trasloco.
Alla scala di ferro che cantava sotto i piedi di lei alla discesa veloce e che divideva come per incanto il mondo dei loro giochi dal mondo dell’amore.
Perché loro amavano giocare. E amare.
Ai ventilatori che avrebbe voluto ora lì in strada, per aiutarlo a respirare. Il caldo non poteva non farlo pensare a loro, lì, sudati, in quella loro giungla privata, dopo l’amore. Alle pelli liquide. Al sapore di lei, dolce e sapido. Quando il suo sesso era caldo, umido di piacere e salato dal sudore per il suo volto affondato in lei a tormentarla di piacere. Pensava alla bottiglietta di acqua gelata che, arrancando sul materasso, andava a cercare.
Per offrirla prima a lei, seduta, imperlata di sudore, poggiata con la schiena ai cuscini.
A riprendere il respiro.
Era sudata come lei, come loro, la bottiglietta appena tolta dal frigo, imperlata di condensa del calore. Riuscì ad avere nella sua corsa abbastanza fiato per sorridere quando nei pensieri la rivide. Mentre beveva, nuda.
Il capo reclinato all’indietro.
Amava quel modo suo di fare le cose più quotidiane o anche più banali. Quando lei era felice qualsiasi cosa la faceva o viveva come il più bel dono. Persino bere acqua da una bottiglietta riempita e portata lì per la notte. La loro.
Pensò alle notti degli ultimi tremendi temporali. Quando al calore si mescolava il rumore della grandine sui tetti, sulle impalcature, nel cortile. Il vento freddo della pioggia dopo l’esplosione dell’odore di ringraziamento della terra secca e riarsa al bacio delle prime gocce.
Quelle che annunciano il diluvio, che sono grosse, lente, e torturano la terra di baci profondi. Che si fanno suggere, una ad una allargandosi e scomparendo al suolo, prima di cominciare a donarsi copiose.
Guardò l’orologio. Una corsa senza speranza, la sua.
Ma continuò a correre, nell’estate della città trasferitasi per ferie ai tropici, quanto meno per il suo calore.
Si appoggiò a un palo della fermata del filobus. A riprendere fiato, cercando di trovarne ancora nei polmoni.
Pensò alla casa, e a quel trasloco che aveva vissuto dentro di sé, inventariando oggetti, mobili, cose, man mano che lei sapeva li stava incartando, inscatolando, smontando, portando via. Avrebbe potuto enumerarli, farne un inventari preciso, esatto anche allora. Uno per uno.
Tutti.
Ma non ne aveva il tempo.
Riprese a correre, con troppa strada nelle gambe ormai perché la corsa potesse essere molto più che l’atto di fede di un ateo in un miracolo o altro che non una camminata accelerata.
Vide le volte mussoliniane del grande palazzo farsi più vicine.
Ma era passata l’ora. Continuò a farle avvicinare accelerando ancora, quando sei vicino a una meta e senti di non farcela, succede. Trovi risorse in te sconosciute e non previste, che non credevi più di avere. O di aver mai avuto.
E ancora, senza motivo, sorrise.
Ricordò l’ultima volta che sciacquò tazze e bicchieri, nella grande vasca trasparente. Ancora nudo.
Il ticchettio dei tasti sotto le dita di lei al pc.
L’odore della sigaretta di lei, l’unica che a lui che da anni ormai non fumava, non desse mai fastidio alcuno. Il tabacco un po’ dolce, avvolgente e morbido al sentirlo.
Gli piacevano le sue stesse mani nell’acqua. Era una bella sensazione.
Giocavano come le tazze del tea e con i bicchieri come se non avessero avuto peso, corpo dentro l’acqua.
Il fresco gli faceva pensare al guizzo dei delfini mentre lavava le stoviglie.
Strano che se ne fosse ricordato proprio ora.
Il ticchettio lo conosceva, passi rapidi sulla tastiera, le dita sottile e il rumore dei tasti come se li pizzicasse e non fossero schiacciati.
Le cose che lei scrisse anche quella volta alla tastiera lui le aveva ritrovate solo dopo, tornato a casa, accendendo il suo pc. Erano state, come sempre, una sorte di bacio a scoppio ritardato. Suo.
Un altro ancora, un replay al rallentatore, un telegramma trovato – inatteso ma così desiderato - nella casella.
La goccia più profumata che esce dall’alambicco a temperatura perfetta di un amore.
A riprenderne odore e calore. Di pelle e sudore.
Facendogli, nel leggere o nel vedere, salire il respiro. A circondare, profondo nel petto, dentro, al centro del suo corpo, il cuore. Bastava una parola, una foto, una frase.
Lei lo sapeva.
Lui pure.
Ancora accelerò. Stava salendo a due gradini per volta le scale. A ogni gradino pensò a un loro addio, a un distacco loro. Quando le corde si tendevano e ognuno dei due minimizzava finché poteva lo strappo intimo e quel senso di vuoto che è il dolore.
Alle promesse prima di allontanarsi, al seguire i passi dell’altro lungo un binario o a scendere le scale. Al voltarsi credendosi non visti per ritrovarsi con gli occhi negli occhi persino quando la distanza li fa due piccoli punti neri su un viso che non deve più trattenere nulla per pudore. E nessuna lacrima rischia più accrescere l’altrui malinconia e dolore.
Corse verso il binario, sperava fosse quello che da altri viaggi già conosceva.
Era in ritardo e lo sapeva.
Il treno partiva quasi un’ora prima. Pensò che le avrebbe spiegato perché e percome.
Dei mille inconvenienti, grandi e piccini che avevano impedito a lui di correre prima, di arrivare in tempo quando lei lo attendeva per partire. Pensò che dal binario le poteva, ripreso almeno il fiato necessario, telefonare. Maledisse ogni intoppo o inconveniente, la lentezza delle sue gambe impacciate nella corsa, il calore che aveva reso la sua maglia grigia di cotone un sudario scuro ora.
Il treno doveva partire quasi un’ora prima. L’altoparlante ne annunciò il ritardo.
Proprio alla fine della rampa delle scale, quando lui si era fermato a respirare. “E’ in partenza con 56 minuti di ritardo…”
Attraversò i vagoni dopo essere salito al volo, mentre stavano per chiudersi le porte e il capotreno sporgeva già da quella di testa segnalando alla coda il varo della sua nave.
Fu nel quart’ultimo vagone prima della motrice, che, sudata come lui, seduta vicino al finestrino, lui la vide.
Su cosa sentì nel cuore e nella testa, su cosa dissero o non dissero, sul sorriso e sulle lacrime che non seppero controllare, sull’abbraccio dei loro sudori, stretto a farne anche sul treno di due uno solo, sul disperato tentativo nell’abbraccio di inglobarsi nell’altro, diventare una sola cosa e scomparire, io non posso dire.
Perché è del cuore che ho pudore.
Quando scrivo. Io che non ho pudori, ho un unico pudore.
E’ il mio unico pudore.
So solo che i treni a volte viaggiano con molto ritardo.
Di tutto il treno, di questo, furono gli unici due a esserne felici.
 
 
 
 
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