E il primo giorno
crearono la luce, e trasformarono il giorno in notte, solo per loro.
E il secondo giorno divisero il cielo dal mare, e sprofondarono e
volarono come se aria e acqua fossero un continente solo di piacere e di
dolore.
La sera del terzo giorno si chiese perché.
Se Dio ne aveva avuti sette, raccontano le favole, lui non potesse
averne avuti, consecutivi, tre.
In fin dei conti era una creazione, la loro.
Si erano visti due giorni di seguito, ed era stato così normale, così
naturale, fisiologico rimettere le sue mani nel calco che avevano
lasciato sul corpo di lei, nel corpo di lei, che quel giorno gli parve
senza alba, e senza occaso. Pensò al corpo nudo che il piacere e il
dolore trasformavano in un moto ininterrotto, onde di cera di un bel
mare tropicale, sotto il fuoco di un agosto fuori stagione. Ne ebbe
infinita nostalgia. Quasi dolore.
Di lei ricercò l’odore, forte e acre del piacere, sulla sua maglia,
sotto le unghie, nelle calore delle mani.
Pensò alle sue voglie che sentiva e conosceva, al suo arcipelago in cui
voleva farla navigare, riemergere, affondare e riemergere nuovo, che
dopo questo, questo e dopo questo ancora, questo.
Pensò a come lei vibrava se solo la sfiorava. Pensò. Che poi invece
sarebbe stato quello che al momento gli veniva. E sorrise.
Perché senza una traccia, un percorso, una traiettoria ogni volo è
ancora di più una emozione.
Bevve, mangiò con amici, bevve ancora, poi fu l’ora di un gelato.
E pensò al gioco del freddo e del calore, mentre lo ordinava. Se fosse
stata lì, beh, la colpa sarebbe stata proprio del gelato. La vaniglia e
la crema antica al rum fanno magie. Mangiate a lume di candela.
Pensò al ghiaccio che brucia ancor più della cera sulla pelle, se ne
alterni il bacio. Pensò.
Che non era naturale no che quel giorno lei non fosse sua. Che dovevano
creare, il terzo giorno, gli alberi e le piante.
E il giorno dopo il sole e la luna. Cioè loro.
Mangiò il biscotto sottile di ostia, pensando che dalla sua bocca,
offrendolo alla sua, avrebbero fatto una bella comunione.
Di ostia e di saliva. E di respiro.
Poi leccò con calma la vaniglia che colava oltre il bordo del
bicchierino con la lingua.
La ricordò sul collo di lei, caldo, dietro l’orecchio, nella gola, sul
seno, sui segni impressi poco prima sulla schiena. Che baciandoli
onorava.
Sì, era buona la vaniglia, ma in quel momento lei gli mancava.
Pensò che doveva comprare giochi nuovi, che il Natale cade quando cade,
a volte al sabato, a volte al venerdì, e non serviva un albero proprio
il giorno di Natale per giocare a legarla prigioniera, sul ponte della
loro nave pirata.
Pensò ai suoni catturato da loro, mentre un’auto frustava i blocchi di
pietra della strada, umidi, uno schiocco delle gomme secco, ad ogni
cambio di lastrone.
Allora chiuse gli occhi, deglutì un cucchiaino di crema al rum, da buon
pirata - e sorrise a immaginarsi tale - e godette di quel suono che gli
ricordava l’eco in una stanza di altri schiocchi e grida soffocate.
A mezzanotte chiuse il terzo giorno, senza piante o alberi creati, solo
col seme della nostalgia.
E gli sembrò strano che non ci fosse stata quel giorno almeno un’altra
ora loro. In tutta la giornata.
In cui vederla uscire dai tornelli della metropolitana alla sera. Per
poi, tenerla ancora lì, inchiodata al muro, la schiena contro un
distributore di biglietti, mentre la gente di fretta passava e correva a
casa e non se ne curava.
Le sue mani fredde a scaldarsi, perse di gioia, sotto il maglione aperto
di lei. A torcerle i seni mentre lei tremava.
Il quarto giorno, il giorno dopo, dovevano creare il sole e la luna.
Allora andò a dormire presto, perché gli piaceva troppo l’idea di avere,
di fronte a loro, proprio quel bellissimo lavoro. Da continuare insieme. |