Un giorno un amico gli chiese di fargli vedere almeno una loro foto.
Si erano raccontati, i due uomini, ritrovandosi come se mai si fossero allontanati, molte cose delle loro vite. Erano anni che non si vedevano e di lei e di altre persone di cui gli aveva parlato e che, non frequentandosi, non aveva conosciuto era proprio curioso.
Fu cercando quella foto, e dopo averla ritrovata, che l’uomo che era insieme alla ragazza nella foto si accorse di una cosa curiosa.
Si era sempre chiesto come avesse fatto, all’epoca, lei, a trovarlo così bello e a dirglielo guardandolo negli occhi, senza pudore. Bello di certo lui non era. Tutto tranne che quello, lo si poteva definire. Un po' per gli affanni, un po' per pigrizia e indolenza, e un po' per il suo rifiuto di impegnarsi in mille cose. Si trascurava, anche, da una vita.
Fu quando rivide lei, mostrando la foto di loro due all’amico, che capì, soltanto allora. Come facesse lei.
A veder lui bello in quel modo.
Aveva visto di lui ogni cosa, anche le peggiori e non ne era scappata. Era miope, ma essere miopi non coinvolge necessariamente né il cervello né il cuore, si disse cercando spiegazioni. Sulla miopia d’amore avevano scherzato nel cambio delle lenti e degli occhiali, ma nessuno dei due ci aveva forse ragionato.
I suoi difetti erano una montagna, se li conosceva da una vita, l’uomo, come mai lei non li vedeva?
Persino l’amico ritrovato, lui lo sapeva, molti glieli riconosceva.
Non ritrovò, adesso, o, per meglio dire, vide in modo differente, e la cosa fu come lo spalancarsi di un portone all’improvviso, in quella foto invece molte delle cose che aveva amato in lei allora. Non perché necessariamente non ci fossero più, la foto era anche bella ed erano proprio loro. Bellissimi, per un miracolo forse anche della fotografa.
Era lui che non riusciva a vederle, che le vedeva in modo differente, mentre la illustrava al suo amico ritrovato. Il viso gli ricordò ad esempio il corpo a cui era attaccato. E gli sembrò nel ricordo, bello sì, ma anche così normale, più normale, semplice e reale. Ne vide tutti i difetti, quelli che inevitabilmente ha un corpo, ogni corpo porta con sé e se ne nutre, attraverso la sua vita. Lo vide e rivide come se mai l'avesse visto prima e si perse nelle cose che non notava allora. Sorrise, perché persino vedendole solo ora, nude e senza velo, si accorse come ci fossero già prima, da sempre.

Parlandone con l’amico, di questa sua strana e nuova percezione, si accorse che, anche quelli che ora riviveva per quello che erano in realtà, cioè anche i difetti del carattere di lei, li aveva sempre visti come cose buone.
In alcuni casi nemmeno li aveva calcolati o considerati nei loro giorni.
Ricordò e rinnovò la crudezza e l’egoismo, che erano necessari a lei, nel gestire ogni suo addio, per non soffocarne. Glieli aveva anche raccontati, della sua vita precedente, anticipati, aveva fornito persino la mappa per temerli o affrontarli, da subito. Ma lui ascoltava, e soprattutto vedeva, altro allora. Lei era sua, erano gli uomini prima di lui ad aver sbagliato tutto.
Rivide le ansie di lei, tutte le fragilità e le paure malcelate. Ne misurò, impietoso, le ambizioni. Lei che vedeva tutto bellissimo, che di una piccola cosa faceva una festa e tutti erano “stelloni” come diceva prima di deludersene spesso. Capì la fame che la portava a vivere in quel modo, cose per lui normali, ma che a lei erano state negate troppo a lungo.
Rivide l’uso di cercare un senso forte, sempre, drammatizzando o esaltando un po' ogni cosa , quello che lo stupì così subito quando la conobbe e che faceva di qualsiasi cosa anche normale un’emozione. Erano davvero identici in questo. Si agitava, andava in panico, per cose a volte inesistenti, o irrisolvibili.
Lui se ne agitava, ma poi lei, senza segno si svolta, voltava pagina all'improvviso, i problemi sembravano svaniti, quando lui se ne curava, come se mai fosse successo nulla e tutto fosse stato un fatto naturale. E lui rimaneva un po’ spiazzato ogni volta. Era il lavoro, la casa, la famiglia, un cantiere fastidioso o una stanza torrida e senza luce per le impalcature.
Ne percepì l’immagine di sé, che lei calcava a volte, rivide - o forse vide solo allora, sorridendone – le civetterie di una ragazza, e la possessività dolente di chi finalmente aveva il mondo. Alcuni atteggiamenti suoi che lo avevano già a suo tempo divertito e affascinato, e che a volte erano così volutamente e in modo conscio e divertito plateali, quasi a reclamare più attenzione.
Perché lei stava appena imparando a sentirsi, e a vedersi, bella allora. E aveva bisogno di dello specchio dei suoi occhi, per vedersi.
Pensò ai danni e ai torti che ci capitano in sorte a volte, a quelli vissuti da lei, e ai suoi.
Li capì, a distanza di tempo, anche più drammatici e profondi di come li capisse allora, perché non erano più un confidarsi da amanti. Erano la consapevolezza della carne.
Accettò, se ne accorse allora, gli era stata dolorosa davvero per molti, troppi mesi, e non aveva mai accettato di farci i conti veramente, il baratto di lei delle sconfitte in cambio del bisogno di certezze.

Non che i difetti suoi fossero inferiori o da meno, anzi.
Non sapeva nemmeno celarli per tre minuti l’uomo, erano una bandiera sporca, non un velo nascosto.
Ma quelli lui li conosceva, se li conosceva, erano scheletri di dinosauro con cui da sempre conviveva, era solo lei che non li vedeva. O fingeva di non vederli.
In quella cosa lei era stata davvero generosa, sempre, oltre ogni logica e ogni limite, lo realizzò davvero allora.
Li aveva accettati tutti, ma proprio tutti, senza recriminazione e vissuti, tutti, anche lei, persino quelli che le davano dolore. Aveva anche rinunciato a redimerne i peggiori, concedendoglieli come un lusso, per amore, tutti.
Fu parlando con l'amico, davanti a quella loro vecchia foto insieme, che vide per la prima volta, all'improvviso lei, sé, loro, con occhi nuovi. Non ne parlò all’amico, che forse si chiese il perché di quello sguardo dapprima perso, poi stupito e poi di quel sorriso strano che gli tagliava il volto.
Pensò, i pensieri sono veloci quando corrono, e in poco tempo nella sua testa se ne ammassarono in ordine sparso tanti, che quelle cose sì, di lei, le aveva viste, e anche lei le sue, a sua volta.
Le aveva vestite, vivendole, fino a farne parte di ciò che aveva amato in lei. Le aveva assecondate, lui, e lei a vicenda quelle di lui, negandone la natura. Modellando a loro misura, per se stessi, la realtà e l’immagine di una persona.
Per come volevano o avevano necessità di vederla o farla diventare.
Disse di ciò all’amico, per sommi capi, perché era davvero materia intima quella consapevolezza. E poi era difficile anche da spiegare con le parole, quello che ora gli era così chiaro e dubitò comunque di poterci riuscirci davvero.
Aveva bisogno, ma non credo se ne rendesse conto, di capire veramente, più che spiegare all'amico.

Erano, le persone abbracciate sullo schermo, due persone normali, persino banali, in quella foto felice, ora che erano uscite dalla luce. Un uomo quasi vecchio e una ragazza, due come tanti.
Che, uno che non li conosce e li vede, dice - guarda che carini - perché belli, veramente belli, lo erano ancora nella foto. Ma dopo, se non li ha conosciuti o visti allora, inevitabilmente, guarda altrove.
Succede così che un uomo, in fondo come tutti, o forse peggio, e senza particolare pregio alcuno, diventi, agli occhi di una donna un mondo intero, o che uno che scrive, come riesce o è capace, divenga un grande amore e il suo scrittore. Il suo più grande, transitorio, amore.
Al pari, che una donna senza nulla di divino, così perfettamente terrena, normale, fragile, imperfetta e vera, divenga per lui una regina.
Perché davvero lei diventa tale, l'amore veste le nudità e le trasfigura. Nel desiderio di vederla felice la costruisce e sagoma e scolpisce e sostiene ad esser tale.
E lui racconta a lei di come la dipinge, mentre la dipinge e scrive, e lei, che alla felicità proprio non ha uso e abitudine, è felice. Ne è così felice, lui, nel farlo, della felicità di lei, da perderci il respiro.
E’ un bel Natale, finalmente, per tutti e due.
Con lui si sente finalmente così bella, come mai prima. Si specchia in lui, ama i suoi occhi, non se ne può scollare. E lui dai suoi. Ed è regina della notte.
Lo diventa davvero, e non solo per loro: se questa cosa funziona, funziona e come. La vedono anche quelli che ti vivono intorno.
Questa cosa irradia una sua luce, è un mantello rubato alla leggenda. Sono i miracoli, illogici dell’amore. Assorbono ombre, curano, plasmano luce.
Dopo tempo, quando riprendi la foto in mano, a distanza di anni, quando l’ebbrezza è sciolta, ti stupisci di loro. Di entrambi.
Li vedi in una foto insieme per quello che erano in realtà sin dall’inizio e che di nuovo sono. Un uomo banale che invecchia male e una donna così normale, più fragile di quello che di sé racconta, in debito di equilibrio con la sua vita, come una condanna a una ininterrotta sospensione.
Due collezionisti di ustioni.
Niente re, niente regina, un fine corsa lui, vicino alla data di scadenza, e una corsa reiteratamente incompiuta lei, per mancanza di un arrivo, come se fosse una condanna. Abbracciati, stretti e vicini, che si baciano in una foto.
Nessun effetto seppia o gioco di luci artificiali, nessun trucco nel cilindro, nessun coniglio nel cappello. La luce c’era, loro conoscono e riconoscono quella luce nella foto. E’ una foto. E una foto, a differenza di quasi tutto nella vita, non cambia. E non è detto che questo in realtà sia una fortuna e non una dannazione.
Provi, da osservatore estraneo, guardandola, se hai fortuna, tenerezza di loro.
Pensi. Fai ipotesi gentili e generose.
Immagini ripetute cadute e rinnovati voli.
Se fossero riusciti a vedersi e accettarsi per quello che veramente erano, forse quella foto probabilmente sarebbe diventata album o avrebbe guadagnato e mantenuto un senso, persino ora. La foto almeno, se non loro.

L’amico scoppiò a ridere, più che un riso era un sorriso tirato e un po' amaro. Lo fece con affetto, senza cattiveria alcuna. Gli sfuggì così, da solo.
Abbracciò l’uomo perplesso per ciò che non aveva ritrovato, e con ironia dolce gli disse, sorridendogli, ora davvero, che aveva riconosciuto indenne in lui l’inguaribile Pigmalione che ricordava da anni lontani.
Lui, arrossendo, in cambio, gli promise che forse un giorno gliela avrebbe anche presentata. Chissà se. Forse. Se avrebbe mai potuto. Nemmeno sapeva se sarebbe esistito mai un come o un dove.
Ma lo disse credendoci davvero. Ci sperava. Ma mentiva e lo sapeva.
I due amici uscirono e andarono a cercare un libro in libreria. Di libri erano malati tutti e due, oltre che di donne e amore.
Volevano cercare un manuale di guida in fuoristrada, di quelli per chi ama la guida pericolosa. Unico requisito, si dissero ridendo, era che non avesse una riga, non una sola riga, nemmeno una, che citasse o parlasse o facesse sovvenire sfogliandolo, di fotografia, di donne, di vita o di amore.
Sullo scaffale, all’entrata della Fnac che stava chiudendo, perché a fallire di questi tempi a volte non è solo l’amore, un banchetto carico di libri in offerta a prezzo scontato.
L’eros era di moda, vendeva bene, e così tra i primi libri, quelli più vista non lo potevi non vedere.
Di Anais Nin. Svettava in molte copie aperte a ventaglio appena entravi.
Henry e June.
Una foto sopra, a torreggiare, dietro le copie, enorme, bellissima, seppiata. Un uomo grande e una giovane piccola donna.
La foto della Nin e di Miller, lei giovane ancora e lui ormai vecchio davvero.
Fecero finta di non capire entrambi che non era stato il caso, o solo l'esigenza di svendere e saldare, ed evitarono il banco e ogni commento sulla foto. Salirono subito con la scala mobile di due piani.
Andarono diretti agli scaffali della sezione viaggi. E motori.
Mentivano, l’un l’altro. Nemmeno così bene, ma ebbero cura di non guardarsi in viso per non tradirsi, i due amici.
Uno pensava al giorno che l’amico che sorrideva strano gliela avrebbe presentata, era curioso.
L’altro desiderò, perché lo desiderava, che quel giorno sarebbe venuto e che l’amico, così simile a lui in troppe cose, se ne sarebbe al volo innamorato. Sapeva benissimo che quel giorno non sarebbe mai venuto.
Ma lo stesso ne sorrise.
Pensò, ma non lo disse all'amico, che probabilmente di lei quello che gli mancava era quello che non era mai stata e che lei non era, e per questo ancora il suo sorriso a chi lo vide sembrò forse così strano.
La commessa li guardò, erano strani quei due, sorridevano senza motivo, come due idioti. E chiese con l’interfono, senza farsi sentire, sussurrando nel microfono schermato con la mano, alla vigilanza di non perderli di vista.
Non un solo minuto.


Note in calce
Che dovevano essere in testa al racconto ma la spiegazione è meglio stia al piede. Questo racconto è una delle cose che ho fatto più fatica a scrivere. Assomiglia nella mia piccola storia di scrittore ai Mangiatori di Patate di Van Gogh, che vidi in quel museo. Ha avuto, mal contate otto stesure. No, con stasera sono nove, cambia anche il finale.
Alcune sono sovrascritte, alla fine di integre ne restano solo tre. Quando vidi gli studi preparatori di quel quadro,mi chiesi il perché. Vero, era un capolavoro, ma schizzi, incisioni, prove, parti isolate? Tantissimi, da fare già solo della storia di quel quadro un intero museo.
Questo racconto ha una storia simile, pur avendo ben più misere ambizioni. Nasce per scavare in alcuni muscoli facciali dell’amore. Non grida passioni, non racconta amplessi eroici, parla di semplici persone. A me piacciono i due protagonisti di questa storia, scrivendola ho cominciato ad amarli davvero. Sono diventati veri e vivi, anche l’amico non è male. Sono cambiati di stesura in stesura, alla fine sono arrivati ad essere, per me e nel mio racconto quel che ho cercato di raccontare. E’ la storia si come evolve un bacio, se non rimane solo una foto.
L’ho detto prima, è solo la storia di mille piccoli meravigliosi muscoli facciali. Meravigliosi anche quando un sorriso può fare stare male.

(Le versioni sono dieci e va online così, ora. E' difficile dire addio alle proprie parole e chiudere un racconto ma ci si riesce, alla fine)

 
 
 
 
 
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