Quel giorno lui decise che fosse giunta l’ora.
Perché tutto diventasse chiaro come l’alba.
Perché lei sentisse che cosa e come e dove e quanto.
Non era nemmeno passato così tanto tempo dai loro primi timidi approcci.
Quella danza di parole esploratrici che si inerpicano alla scoperta di
sentieri celati all’ombra di desideri spesso inconfessati.
E per certe decisioni in realtà non esiste altro orologio che la comune
biologia condivisa.
Sì. Era l’ora.
Provò una tenerezza infinita, lui, quando colse il suo stupore. E la
curiosità quasi ingorda e carica di aspettative e domande con cui la
giovane donna accolse la sua richiesta.
Lei lo accusava spesso di essere quasi duro, insopportabile a volte,
quando chiedeva a lei qualcosa, ma quella volta lei non colse quella
durezza quasi indisponente nel modo dolce e gentile di chiedere a lei,
da lei, quel dono.
Quasi che il dono fosse stato lui a farlo a lei, per come le porse le
sue istruzioni e non viceversa. O forse era davvero così, come spesso
succede, che chi regala ha il dono del piacere dello stupore,
dell’eccitazione e della sorpresa, dell’attesa e della soddisfazione,
letto negli occhi di chi lo riceve. E gode di quell’attimo di eterno
infantile essere bambini anche da adulti che si sveglia in chi riceve un
regalo.
Siccome era l’ora, lo fece.
Le chiese di cercare nel cestino della biancheria.
Di frugare e di nascosto prenderne due.
Non le disse se aveva preferenza per il loro colore.
Ci pensò dopo e desiderò di averle chiesto di sceglierle rosse. Di un
rosso scuro, se ce n’erano di quel colore. E sperò che fossero proprio
così.
Immaginò lo stacco di ciliegie purpuree sulla pelle bianca e non
abbronzata per un piccolo residuo pudore.
E pensò anche che in quel loro gioco non avrebbe potuto farle vedere, né
poi mai raccontare, la tenerezza con cui pensava a lei ora. Che quelle
regole accettate e scritte insieme l’avrebbero obbligato a negare a
entrambi loro la sottile quasi commossa inclinazione d’animo che per lei
sentiva forte ora.
Le chiese di trovarle e contemporaneamente di trovare il modo in casa di
restare sola. Di non dover avere attenzione, paura o anche solo la
distrazione del pensiero che qualcuno potesse irrompere nella stanza e
vedere. Perché voleva che lei fosse lì da lui mentre obbediva. Che fosse
libera da ogni altro pensiero e si sentisse lì dove lui ora era.
Le chiese di sfilarsi per prima cosa la maglietta e il reggiseno. Piano
con calma, lentamente. Con meticolosa cura.
Lui voleva che lei assaporasse ogni istante e il senso intimo di ogni
gesto. E avesse coscienza di ogni suo pur minuscolo e rallentato gesto.
Immagino lei a farlo, dopo. Le mani all’inizio quasi incerte e in
qualche modo ancora timorose. E poi, all’improvviso, senza che nemmeno
lei ne percepisse il come erano transitate dall’incertezza alla
decisione, così decise. Consce e ardite, quasi sfrontate: perché lei
stava sfidando se stessa e non voleva mostrare a se stessa il minimo
imbarazzo o timore.
Sfilata la maglietta, sganciato e rimosso il reggiseno lei li doveva
riporre in bell’ordine lì vicino. Perché nella meticolosità di quel
mettere a posto capisse quello che stava facendo senza dubbio alcuno. E
ne sentisse piena la testa del sapore. Che non era un caso, un gesto
nato per capriccio, era una scelta ben precisa. Che era una porta quella
che lei lentamente apriva e che oltrepassatala avrebbe conosciuto altri
colori, che nei gesti lenti oltre un’invisibile barriera già intravedeva
uscirne fuori.
Lui sapeva che in quella lentezza lei avrebbe sentito la sua fica che
cominciava a vivere e pulsare. Che al tocco delle sue stesse dita sui
capezzoli lei li avrebbe già trovati tesi e duri. Raggrinziti e in
ascolto di ogni sfiorare.
“Bagnati le dita di saliva prima di toccarli” le aveva detto “ e
sfiorali e poi stringili come farei io ora, finchè saranno dolentemente
duri. Stringili forte senza aver paura.”
Le chiese di ascoltare il rumore del suo respiro e l’accelerare del
battito del cuore. Di serrare le cosce senza toccarsi per sentire la sua
fica pulsare. Riempirsi di sangue, le labbra gonfie e probabilmente già
lucide senza bisogno di sfiorare o di toccare.
Le chiese di ascoltare il rumore del suo stesso respiro mentre lo
faceva, e l’accelerare del battito del cuore. Di serrare le cosce tra
oro, strettissime, fino ad aver dolore nelle cosce, senza toccarsi, per
sentire la sua fica pulsare. Come un cuore pronto a sanguinare.
Riempirsi di sangue, le labbra gonfie e probabilmente già lucide senza
bisogno di sfiorare o di toccare.
Le chiese di prendere allora la prima delle due mollette rosse. Chissà
se lei, senza che lui glielo avesse chiesto, poi, le aveva scelte
proprio di quel colore…
Di aprirla schiacciandola con decisione tra indice e pollice e di
posarla, aperta, a lato del primo capezzolo. Il bottone di carne
sfiorato dalle due ali dure.
Le aveva chiesto di lasciarle chiudere.
Nel modo più lento e interminabilmente esasperante che il rilascio
allungato all’infinito delle dita e la larghezza dell’apertura iniziale
di quei denti rossi le permettessero di fare.
Perché sentisse quei due denti stringere in modo inesorabile,
progressivo, quasi non si volessero o potessero mai fermare, nel loro
mordere. E ne percepisse la stretta crescere in ogni infinitesimo
millimetro del loro agire.
Immaginò il respiro, che alla ragazza si era fermato all’istante. Il
ventre che si era contratto nel trattenere il fiato che non riusciva più
nemmeno ad uscire.
La stretta dei muscoli al diaframma, a chiudere il fiato e farla
tremare.
Il labbro inferiore forse morso, alla prima morsa e al primo piccolo
dolore. Per non gridare.
Lei a serrare le cosce e comprimersi la fica dal piacere.
Poi la seconda molletta, sull’altro seno, sul capezzolo conscio questa
volta di quel che gli sta per arrivare. Le mani e le dita fattesi più
esperte e capaci di assaporare.
Il capezzolo teso, lucido della sua stessa saliva, che quasi si ritrae,
e la morsa che scivola e brucia un poco, si chiude a vuoto dopo essere
scivolata senza afferrare. Poi la molletta a riaprirsi e finire e
portare a termine anche lei il suo dovere.
Le aveva chiesto di mettere la mani dietro la schiena, subito dopo, come
le avrebbe messe e guidate lui, dietro la spalliera della sedia, dopo
che lei avesse fatto il suo compito coi seni. Di incrociarle dietro le
reni dove lui le avrebbe legate. Di posare il dorso di una sul polso
interno dell’altra, sulla vena. Di ascoltare così il battere del sangue
accelerare.
Di spingere il suo seno di ragazza avanti, inarcandosi più che poteva,
lì, seduta, legata dalle sue parole solo, alla spalliera, in fuori.
Se lì ci fossero state le sue mani avrebbero indugiato, sfiorato, mosso,
torto un poco, dato vita ai denti rossi puntati sui suoi seni. Li
avrebbero fatti giocare e divertire. Di lei che si scioglieva ad ogni
movimento e tensione.
La ragazza le sentì, lì seduta, sola, come se davvero avessero preso
possesso delle due mollette e indugiassero a variare allentandone la
stretta per poi riserrare. Ad occhi chiusi le sfuggì un lamento che
sembrava un gemito animale d’amore.
In quel momento lei per la prima volta lo chiamò col suo nuovo nome.
La voce era liquida come cera e sottile e fine. Calda come vapore.
La prima volta che lo chiamò Padrone.
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