Il nastro rosso e la cravatta

(trilogia d'inverno - atto terzo)

    

 

 

 

“Bravo”
Tu senti solo al sua voce e non la vedi.
“Così, alza la testa e cercami” e le sue dita, in punta di unghia salgono lungo l’asta fin dove la vena segna l’inizio della testa.
Non parli, taci, come taceva lei prima, seduta al tavolino di quel bar, con l’uovo acceso a vibrarle dentro il ventre. Sciolta nella testa e tra le cosce.
Vi siete alzati, prima. E le hai concesso una tregua, mentre vi allontanavate verso l’auto.
Sotto gli sguardi delle persone sedute al tavolino accanto al vostro non hai azionato il piccolo telecomando.
E l’uovo marziano che lei aveva ancora dentro il ventre è stato fermo.
Volevi anche chiederle se camminando non ci fosse stato il rischio che scappasse, ma lei ha risposto prima ancora che glielo chiedesse alzandosi, chiudendosi il cappotto, e incamminandosi prima di te verso l’auto.
Ha allargato il braccio a manico di anfora e ospitato il tuo,stretto serrato lì tra braccio e corpo, quasi aggrappandosi a te a passi corti all’inizio. Poi dopo pochi passi anche lei aveva avuto le sue risposte, l’intruso, l’ospite che le aveva rubato il fiato e fatto lacrimare il sesso non sfuggiva camminando.
Adesso avete finalmente occhi anche per il parco. La nebbia che comincia ad avere consistenza, bassa sull’erba ingiallita dall’inverno, alle radici dei tronchi di alberi ridotti ad essenza, completamente spogli.
E mentre senti lei vicina, stretta calda, contro il tuo fianco ti fai una domanda stupida, del tutto inconsistente come la nebbia stessa.
Che sale si dice, quando il velo comincia a stendersi e sagomare avvolgendo tutto ciò che è basso e che chissà perché si dice invece che scenda.
Scende la nebbia.
Sì, ma cosa c’entra? Reprimi un sorriso a stento sulla domanda che ti è affiorata sulla nebbia, nascendo come nebbia dentro.
L’hai anche baciata prima di aprire con due scatti la portiera, poi la maniglia e lei che si fa inghiottire dal sedile dentro l’auto, sistemandosi il cappotto. Sotto il sedere e sulle ginocchia.
Hai conosciuto lì, alla fine, la sua lingua.
Nervosa, calda, quasi dura quando è lei che fruga e cerca e morbidissima quando è la tua che la schianta. Hai conosciuto il suo sapore, è fresco, come i suoi anni, le calza perfettamente nella bocca, le labbra né sottili né grosse. Lei non fuma e sa di buono, le avresti chiesto scusa forse in quel momento, delle tue troppe sigarette che nemmeno più riesci a cancellare dal tuo respiro, se aveste parlato anche invece di baciarvi.
Le hai arpionato prima la schiena e dopo il culo tra le mani, le sue infilate sotto la tua giacca, posate sul tuo petto a sentire i tuoi piccoli capezzoli indurirsi oltre il cotone della camicia azzurra.
L’hai tirata a te, mentre la lingua si faceva cazzo nella sua bocca e la esplorava sfregando sulla sua, ventre contro ventre, teso nei pantaloni contro la sua gonna alla cintura, e il maglione che le è risalito sotto lo sfregamento, scoprendo la sua pelle.
Potevi sollevarla volendo. Non deve aver gran peso e la senti leggera mentre la stringi.
Sollevarla, retta dalle tue mani sotto la piega delle natiche, piccola abbastanza da essere tenuta lì sospesa.

“Non dire niente”
E senti le sue dita ancora, scivolare solo di punta, non capisci se è un dito solo o se ha compagnia, se sono due vicini, solo il contatto scendere e risalire lungo l’asta, senza fretta.
“Non dire niente”, sì.
E tu non dici niente, respiri con l’affano che comincia a somigliare a quello di lei al bar prima.
Non dici ma sollevi il bacino per dirle senza parole e senza suoni cosa vuoi, cosa desideri e chiedi adesso. Che le sue mani finalmente stringano, avvolgano, accolgano, circondino.
Che prendano possesso di ciò con cui hanno giocato a stuzzicare solo fino ad adesso.
Ti spingi, alzi le reni, offri a quelle dita piccole, sottili, quasi diafane per il freddo dell’inverno, che ora sono anche, senza che quasi tu le senta, così calde sulla tua pelle.
Respiri. Sempre più a fondo e velocemente.
Come veloce era diventata la corsa in auto verso il motel dopo aver sciolto il bacio e messo in moto l’auto.
Che poi il motel non era così lontano da quel parco.
E tu solo per poche centinaia di metri hai resistito. A guidare con calma quasi che di arrivare lì e presto non ti importasse niente.
“Non sono mai stata in un motel sai ?” lei te lo dice con voce calma, dolce, quasi ti rivelasse una sua enorme e candida innocenza.
Ti sei voltato e le hai guardato il viso, subito dopo che lei ti ha confessato, la voce che chiudendo la frase sorrideva, quel suo piccolo segreto. E le hai sorriso.
Ti ha dato i documenti che insieme ai tuoi sono stati accolti dalle mani, belle, non hai potuto fare a meno di notarlo, della ragazza alla reception dietro la finestrella aperta.
Le chiavi, la manovra a cercare quella stanza, la tua mano che in quella marcia lenta si posa sulla sua.
E che lei, spostando la sua sotto, trascina con sè e poi abbandona ritraendosi, fa scivolare su lungo la coscia a salire sotto la gonna, partendo dal ginocchio. E lì senti le labbra del suo sesso, nude, senza alcun indumento o pelo o nulla che ne celi il profilo, il taglio, la rosa di carne in alto sopra, quella che sfiori ora e che solo toccandola la fa respirare profondamente, all’istante.
“Ti ho fatto un regalo vedi? Quando ho messo il tuo regalo non le ho sfilate, temevano che cadessero, ma poi prima di uscire, sono tornata in bagno, me le sono tolte e me le sono messe in tasca.”
E nel dirlo serra le cosce imprigionando la tua mano lì sotto, sul sesso fragile nudo e glabro.
Tu hai fermato l’auto allora, davanti alla vostra stanza, e siete scesi.

“Aspettami”
E senti i suoi passi sulla moquette, leggeri a piedi nudi.
Senti che armeggia con qualcosa, la tua cravatta ti nasconde gli occhi, girata sul tuo volto e legata dietro la nuca. Sei nudo su quel letto, lei dopo averti tolto la cravatta e bendato in quel modo ti ha spogliato completamente.
“ Lasciati accudire” aveva detto mettendosi in ginocchio e cominciando, lei ancora interamente vestita a sciogliere i nodi alle stringhe delle tue scarpe.
Poi ti aveva baciato, come per vedere se anche non vedendola tu la sentissi, era scesa baciandoti sul petto, con una mano lei tra le tue cosce. L’aveva preso, posato quasi in mano, avvolto, prima di aiutare te, cieco, a scivolare e sdraiarti sul copriletto, lucido e freddo.
Poi aveva cominciato la sua danza con la punta delle dita dalla radice alla punta del tuo cazzo.
“Ora non parli e non ti muovi e ascolti le mie dita”
Nessuna esitazione, tremito di voce, incertezza. Nessuna traccia della sua esaltazione quasi infantile di quando, appena entrati nella stanza, ne aveva quasi con frenesia esplorato e scoperto i segreti girandola passo passo, saggiando il letto quasi volesse saltarci sopra, i cuscini, la morbidezza della moquette pulita e calda, l’unica cosa che aveva scalciato via subito erano state le sue scarpe, il bagno, la grande vasca, persino dentro l’armadio.
Né della tenerezza strana con cui aveva detto, come se fosse una verginità anche quella e tutta tua in quel momento “…il mio primo motel” e aveva riso subito dopo come se fosse stata la sua prima bicicletta.
Aspettami.
E ora senti le sue mani carezzarti il braccio e risalire lente. Fino alla vena del polso.
Le sue dita posate lì, forse vuole rubare il battito, pensi.
Poi le senti attorno, poi il contatto con qualcosa che in pochissimo riconosci, appena comincia a stringere, in un nastro o qualcosa di simile. E ti viene subito in mente il nastro rosso che, prima di serrare in coda i suoi capelli come tu ami e le avevi chiesto, avvolgeva e nascondeva nel tuo gioco il suo gioco regalato. E da tanto promesso.
Strano, una donna che sa fare i nodi, pensi mentre con la mano porta con decisione secca, quasi inaspettabile e inattesa, l’altro polso a posarsi sul primo alti sopra la tua testa.
Ora sono stretti insieme e lei ha di quella serratura morbida che non strozza ma ti impedisce comunque ogni indipendente movimento, lei sola, il lucchetto.
Il suo tirare il nastro ti fa capire senza parole cosa vuole da te, lei, seduta a cavalcioni del tuo petto, senti con la pelle l’orlo teso della gonna e l’umido caldo del suo sesso che posa e sfrega sul tuo petto.
Ti sollevi sulle reni e scivoli contro il suo sesso caldocce senti cedere morbido e bagnato, risalendo un poco lungo il letto.
Lei tira un attimo più forte, senti il suo respiro concentrato mentre lei fa qualcosa e armeggia sopra la tua testa, è sollevata e ora non senti né gonna né fica umida sulla pelle.
Non le puoi muovere le mani adesso. I polsi sono bloccati, non sai né come né dove, probabilmente alla testata del letto.
E senti muoversi e cedere a un lato il materasso.
Poi più nulla nel buio e nel silenzio.
Poi un dito, due forse. Riprendere la danza sul tuo sesso.

“Sfilati la camicia” aveva chiesto.
E tu l’avevi fatto, prima, dopo che bottone dopo bottone, lei in piedi l’aveva sciolta. Bendato avevi sentito le sue dita sempre più sicure, asola dopo asola, aver ragione del petto e poi dei polsini. Destro. E sinistro.
Le stesse dita e la stessa leggerezza che senti tornare sulla pelle adesso.
Indugia. Si ferma.
Poi riparte. E tu fai fatica e quasi non riesci, anche tendendo allo spasimo il nastro rosso, ad andare più di tanto incontro alle sue dita e intensificare quel contatto che ti sta sciogliendo.
Più spingi e più fatica offri, più sembrano arretrare e farsi lievi, così che tu debba trovare ancora quei centimetri in più nel tuo sporgerti e offrirti nella tua ricerca di un contatto che sia più forte. Caldo. Esauriente. Saldo.
“Aspettami” e lo dice questa volta dopo averti per un attimo solo lievemente stretto. Come se tu avessi possibilità lì, adesso di non farlo.
Minuti. Forse uno solo in realtà, ma non si misura bene al buio nulla.
La stretta delle dita ti prende di sorpresa, è quasi che lei voglia serrandoti cosi, le dita tutte, controllare qualche cosa, inventariare la durezza e la tensione delle tue voglie per un attimo soltanto.
Nella tua bocca muoiono soffocate le parole con cui le chiederesti di non togliere la stretta. Fai fatica a importi di non liberarle e dirle.
Parla per te il salire e lo scendere del petto. Forte, profondo, serrato e stretto.
Senti rumori piccoli, formiche di silenzio malcelate di una gonna che cade, tessuto su tessuto al pavimento. Si amplificano, quasi un rallentatore nella mente, mentre le cerchi, le decifri, le scommetti.
Poi senti una carezza nuova, quasi una schiuma inconsistente e incostante, irrequieta, a solleticarti il ventre. Le cosce.
I suoi capelli, che, liberi dal nastro, scuri nel buio in cui non puoi vederli, scivolano, corrono, si adagiano, solleticano, avvolgono come una tenda la discesa della testa e della bocca.
Vedi con la pelle la saliva che ti bagna, vedi le labbra, vedi la lingua. Vedi il calore umido di quella bocca di ragazza che ti accoglie e ti si stringe addosso.
Hai il cuore in gola. Come lei ha in gola te adesso e scivola, scivola. Scivola, sembra quasi non doversi fermare in questo avvolgerti e inglobarti in una bolla di mucose e di saliva.
Solo la gola che ti avvolge ei suoi capelli che giocano ad ogni risalita a sfiorare la tua pelle. Solo il rumore nel silenzio del suo deglutirti, il gorgoglio sommesso della carne fradicia di saliva nella sua bolla.
Riprende il ritmo delle dita con la bocca adesso, serra e dischiude, trattiene e rilascia, scende stretta e poi si allarga quando le sei dentro a fondo, poi scenderà ancora stretta stretta, facendoti percepire ogni millimetro della sua corsa.
La volta successiva scenderà in modo quasi non percepibile e invertirà serrando, quasi a volerti succhiare svuotandoti nella risalita, la sua corsa.
E quando prende fiato il suo respiro. Caldo, poi la goccia di saliva che mentre lei è sopra di te, probabilmente a bocca vuota e aperta, le sfugge e batte lì tra i peli e l’ombelico, improvvisa e inattesa, piccola pioggia dopo il caldo, fatta di una sola goccia.

Non parla.
Non parli.
Nessuno dei due ha avuto una sola parola dall’entrata nella stanza. Forse perché molte ne avevate dette nei giorni precedenti, forse perché non è sempre con le orecchie e con la bocca che si parla e che si sente.
Non parla e la senti risalire.
La bocca allontanarsi e poi anche i capelli definitivamente. Lei si è fermata, già tre volte precedentemente.
Quando il tuo respiro, la spinta del bacino per quel che hai potuto esercitarla, la contrazione del tuo ventre e la tensione che in bocca le si inarca le hanno parlato al posto tuo della tua urgenza.
E ogni volta tu hai atteso che lei, in nome di un istinto che alla sua età ancora non è sopraffatto e governato da abitudini ed esperienza, sapesse, come, quando e quanto. Ricominciare e poi fermarsi, frenando lei per te per dare vita rinnovata e non permettere al desiderio di svuotarsi.
Non parla mentre la senti adesso puntare le ginocchia intorno a te ai fianchi. Né lo fa mentre slaccia dalla testata il nastro e subito dopo ti libera i polsi.
Non ha parole mentre tu le cerchi i seni immediatamente e lei si lascia calare fino a prenderti nel ventre. Seduta lì, aderente.
La baci e la rovesci su quel letto. Non sai per quanto riuscirai a resistere adesso, dentro una nuova bocca che esplori per la prima volta. Vorresti avere tu i suoi ritmi, la sua calma di giostrarci, la pazienza e la dedizione fatta di piccolissimi momenti.
Ma punti i piedi quasi a voler stracciare il copriletto e spingi.
Lei è ancora tornata piccola sotto di te adesso.
Ansima. Ansimi.
E solo dopo tornerai a baciarla.
Finalmente.



A margine.
Dopo i tre capitoli di questa Trilogia dell’Inverno, subito il giorno dopo, l’uomo e la giovane donna sono partiti per il loro fine settimana.
In auto verso il mare. Il sabato e la domenica erano in Provenza. Entrambi.
Su due auto diverse, con persone differenti al loro fianco.
Non si sono telefonati. Lui ha mangiato in un piccolo ristorante a Cagnes sur Mer con un’altra donna, lei a Saint Paul des Vence col suo compagno.
Poi lei gli ha proposto una visita al museo dei surrealisti, la Fondazione Maeght, lì vicino, di cui l’uomo del motel le aveva tempo addietro parlato con entusiasmo.
Davanti ad una scultura di Mirò, in uno dei cortili del museo, raffigurante un uovo enorme, lei senza motivo ha riso.
Come una bambina, felicemente.
Il ragazzo che l’accompagnava non ha capito il perché, ma non le ha chiesto niente.






 

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