Era arrivata da San Pietroburgo, a cavallo, in serata.
Dopo un viaggio estenuante durato quasi una settimana. Vestita da uomo a
tratti, i capelli nascosti sotto un cappello di foggia marinara, vecchio
e scolorito, i pantaloni di tela ruvida a righe, simili nel disegno al
manto dei materassi negli ostelli dove avevano dormito, i vecchi
pantaloni di lui quando un giorno era tornato a lei, fingendosi
messaggero.
Arrivarono al villaggio e alla locanda, lei e Piotr,lo stalliere che le
aveva fatto compagno di viaggio e protezione, anche se rischi veri fino
al confine turco non ne avrebbero in teoria, né poi avevano nemmeno
nella realtà, dovuti affrontare.
Portava una sacca simile a una fodera, con monete tedesche in oro.
Cento.
Cucita sotto la mantella di feltro pesante e scuro, ogni moneta cucita e
avvolta in un batuffolo di stoppa gonfiata e arruffata come una
cotonatura perché non suonasse battendo le sorelle, al cammino o al
galoppo del cavallo, tradendo il trasporto di valore. Aveva scelto
questa via perché era senz’altro più sicura, avendola indosso lei, di
qualsiasi borsa o sacca che poteva esserle con destrezza, o in un attimo
di distrazione, portata via. E le monete erano tante abbastanza da
giustificare un duplice assassinio se si fosse mai saputo che i due
viaggiatori le avevano con loro.
“Se le vogliono, così. devono prendere prima me e se ci riescono, ad
avere me e loro io, poco importa allora. Io sarò morta, prima di cedere
la sacca e non avranno più le cento monete né scopo né valore” aveva
detto alla vecchia che l’aveva aiutata per sette notti a gonfiare e
cucire i bonbon di stoppa e oro nella sacca a fodera, piatta e larga
prima che la zarina lasciasse la villa in compagnia di suo nipote. Aveva
fatto mille raccomandazioni al nipote Piotr, la vecchia, la sera della
loro partenza appena aveva fatto scuro. Sottovoce e con cura, senza
farsi sentire dalla giovane donna che aveva visto nascere anni prima e
che si sarebbe senz’altro inalberata per orgoglio se solo avesse sentito
le sue parole affidarla al giovane e parlare di lei come se ancora fosse
rimasta la “sua” bambina.
Entrando alla locanda di Amir, l’unica del paese sito poco lontano dal
confine con la Turchia, aveva lasciato lo stalliere negoziare per la
stanza, come sempre, dalla loro prima notte di viaggio, per non essere
riconosciuta come donna ad un esame più vicino. Perchè di giorno, con lo
sporco del viaggio e della via sugli abiti da uomo e il viso scuro per
il sole e il misto di polvere e sudore, la camicia un po’ larga da
mugiko, la giacca gilet di lana e la mantella avvolta a raggiera
l’inganno funzionava bene. Ma da vicino e con l’aiuto di una lampada.
Oppure al mattino, quando il viso era pulito, ben pochi ci sarebbero
potuti cadere. Se poi la mantella era aperta come ora entrando nella
stanza e il gilet sbottonato, la camicia bianca di cotone aderendole ai
seni rivelava tutto. Sudata, quasi un velo reso trasparente dal sudore,
si modellava sulle curve piccole e precise, una seconda pelle maliziosa
senza necessità di malizia intenzionale alcuna, lasciando quasi nulla
alla fantasia. E catturava persino lo sguardo del suo compagno di
viaggio, subito pronto a farsi rosso in viso e dire qualcosa per
dissimulare imbarazzo e sensibilità a ciò che inevitabilmente vedeva.
Poi, nella stanza, lei, infilata, con lui fuori in attesa del via
libera, una camicia da notte in tutta velocità, si infilava nel letto,
e, in quello gemello, subito dopo andava a coricarsi lui, se un secondo
letto nella stanza quella notte c’era. Oppure dormiva coricato sulla sua
mantella al suolo, ai piedi del letto della sua padrona, il coltello
sotto le coltri a portata di mano. Di solito solo un po’ dopo di lui,
lei, stanca, si addormentava.
Portava con se sotto le coltri la mantella col tesoro.
E pensava, col cuore che accelerava al pensiero, a quando avrebbe avuto
luogo il baratto, solo poco tempo, in realtà, dopo. Per quattro notti di
seguito, compresa quella, sentendo il giovane respirare rumorosamente
nel sonno ormai profondo, pensando a quel baratto, lei si scoprì a
toccarsi come il suo amante le aveva insegnato a fare e amava guardarla
fare, senza toccarla le volte che lei giocava col suo stesso corpo.
Dapprima il seno, giocando con le dita e il respiro, come se i
polpastrelli avessero potere sull’aria che aveva nei polmoni, e poi giù,
le labbra a lato, e ancora sotto tra sesso e culo, con le dita morbide e
umide di saliva. Per poi salire, arresa, di scatto quasi fosse una molla
ad aprirsi e prendersi da sola. Serrando le cosce sulla mano un attimo
prima di godere.
Pensando al suo baratto, cominciava a carezzare se stessa così, e
pensando a ciò che avrebbe avuto nuovamente dopo. Ancora suo.
Quasi che quel baratto fosse un acquisto che ristabiliva un possesso
naturale e sanasse una ferita.
Aveva goduto in quel viaggio così, nei letti usati ciascuno una notte
sola.
Lo fece anche quella notte, mordendosi le labbra per non fare rumore, e
non svegliare svergognandosi da sola lo stalliere che dormiva ignaro lì
vicino. Per controllare poi, zittendo il proprio respiro affannato e
fattosi rumoroso, quando l’onda dentro si acquietava, quello del giovane
uomo, che non tradisse un risveglio inopportuno e non voluto.
Ecco.
Domani.
Il giorno che la mantella sarebbe diventata più leggera e più leggero
anche, in petto, il cuore.
Dormì. L’uomo.
Male, nella cella, illuminata solo dalla luna e dalle stelle di una
notte senza nubi, a riflettersi e danzare luci sul muro in pietra scura.
Lucido di umidità della notte e del fiume, che scorreva vicino e che,
nella notte fredda, dopo il caldo torrido del giorno, respirava
nell’aria la sua acqua rendendola come fosse sudore alle pareti della
cella.
Dormì male per le nuove ferite, ancora da chiudere, e necessarie di
pulizia e di cure migliori, inferte dalle percosse dei carcerieri, due
settimane prima, quando, ubriachi, si erano sfogati in tre su di lui,
per vendicare tutti i loro amici uccisi dai soldati russi in battaglia.
Nella prigione, il giorno dopo, lui aveva barattato i suoi stivali da
cavallo con le cure di uno strano medico che probabilmente fuori dal
carcere si occupava della salute di pecore, galline e maiali, e oche. Ma
che era l’unico a poter portare una bottiglia di grappa a sessanta
gradi, utile a disinfettare, stracci abbastanza puliti da farsi bende e
fasciature e saper operare una cucitura sul volto del prigioniero aperto
da un coltello. Quasi perfetta.
L’uomo sotto le cure aveva faticato a trattenere urla a lamenti di
dolore mentre riceveva la sutura, punto dopo punto, con le gocce di
sudore del medico improvvisato, chino su di lui, a stillargli sulla
faccia. Punti stretti e ora tesissimi, sopra l’occhio e l’orecchio verso
la nuca, dove la lama aveva aperto la carne e intaccato l’osso pure.
Nello scontro di frontiera con i turchi lui era stato l’unico del
drappello a cavallo russo ad essere sopravvissuto, ferito leggermente.
E l’ufficiale del forte, che era al tempo stesso anche il bey del
villaggio, essendo il campo, nei pressi del confine, una via di mezzo
tra un forte e l’abbozzo di un villaggio al tempo stesso, aveva
incredibilmente rinunciato a far divertire il boia e la guarnigione con
un’esecuzione al centro della fortificazione. Facendolo gettare ancora
vivo, non si sa se per benevolenza o per odio ancora maggiore, in quella
cella.
Sei mesi aveva trascorso lì, quasi, in claustrofobica prigionia,
domandandosi come fosse la vita fuori e se mai l’avrebbe rivissuta,
libero, nuovamente.
Pensando alla villa fuori Pietroburgo dove viveva con lei quando non era
a Mosca. Alla vita che amava.
A lei, ad occhi chiusi, quando pensava a lei e ai loro giochi.
Alle promesse di nuove emozioni e viaggi e piccole follie felici, che si
erano scambiati, guardando il soffitto delle loro stanza, sdraiati sul
letto, solo pochi giorni prima che lui partisse verso il confine con il
drappello.
Il viaggio.
Quello lungo, sul treno di legni pregiati, acciaio e ottoni, che
volevano fare, fino ai confini dell’Impero. Dove i figli della Madre
Russia sembrano farsi orientali e vestono quasi come i figli delle
periferie del Celeste Impero.
Aguzzano il taglio degli occhi, i nasi si fanno piccoli, e sembrano
schiacciati un poco, e hanno corpi più piccoli e tozzi. E capelli
liscissimi e scuri, che portano più lunghi della foggia russa.
Le raccontò che col treno lì avrebbero visto i paesi dove gli uomini in
età da sposa, giocano, nelle feste di paese, con le teste di capra,
correndo coi cavalli e lanciando urla di guerra mentre cercano di
rubarsi con violenza il trofeo sanguinante. Insieme ad esso si
contendono il cuore delle ragazze più belle. In piedi, frementi ed
eccitate, a guardarli battersi così, vere regine loro e non i principi
guerrieri in quel rito di sangue e amore, dove gli uomini si sfinivano
di fatica e dolore, colpi di frusta sul corpo e il viso, e rischiavano
anche la vita per poter avere vicine loro.
Assiepate con la folla ai bordi del campo di gioco e di simbolica
battaglia, finte prede di un gioco erotico portato all’estremo e fuori
misura.
Lui le aveva viste, li aveva visti, quando avevano sedato le rivolte
mongole, e avevano ucciso in battaglia molti di quei cavalieri
coraggiosi, e ne parlava a lei, quasi fosse un mondo di favola, creato e
messo lì solo per loro.
Notti passate in cella, per mesi e mesi dopo, pensando al treno in
viaggio d quella notte, attraverso i giorni e le notti. E a loro due in
quel viaggio.
Il letto costruito nel vagone, lusso di ottone lucido e drappeggi
pesanti di velluto per le tende.
Luci velate in lampade ad oscillare ad ogni traversina sotto il letto
volante.
E loro a seguire i rumori con la fantasia, scandire di curve e giunti di
binari e travi di legno catramato e secco, percosse dal ferro delle
ruote il tempo dei baci, delle mani, delle dita e delle lingue.
Del fondersi e affondarsi dei sessi. Quando lui non distingueva più,
stordito dal sesso di lei, caldo e aperto, dove finisse il suo cazzo e
cominciasse lei, e l’umido denso e avvolgente della sua carne, a
risucchiarlo quasi dentro. Per notti e notti, e aveva perso il conto,
nella monotonia dei giorni venuti inesorabili uguali dopo ogni
risveglio, perché ogni notte, invece, il loro viaggio era stato diverso,
imprevedibile, e differente.
Diversi i paesaggi, i colori, le luci e i suoni.
Diverse le musiche che arrivavano al finestrino dai villaggi
attraversati o dalle stazioni a volte microscopiche. Diversi i cibi che
il ferroviere in divisa da cameriere serviva loro, a volta ancora nudi e
impudicamente mal nascosti dal lenzuolo, nel letto sulle ruote. Cibi che
diventavano giochi spesso anche essi, di bocche e denti e mani e corpi
usati da tavolo, bicchiere, piatto, quasi loro avessero desiderato
mangiare i loro corpi stessi.
Diversi i loro giochi, quando lei legava lui coi lacci delle tende tolti
dal finestrino da cui così irrompevano le luci, e poi giocava col suo
corpo facendolo impazzire con le mani e con la bocca, sui capezzoli,
senza sfiorargli il sesso che si tendeva ubriaco a vibrare di voglie,
domandolo di desiderio e di dolore. Oppure quando lui la bloccava per i
polsi e le mordeva i seni mentre lei si inarcava ribellandosi come un
felino e allora lui spingeva più forte il ginocchio fino a violarla con
la pressione lì tra le cosce, facendole sudare umori di piacere densi,
fino a sentirla domata a sua volta, contrarsi senza sosta.
Poi al mattino il viaggio terminava, con le luci che entravano storte
dalla piccola finestra troppo alta per guardare fuori e gli battevano
sul viso risvegliando gli occhi, nella cella, come anche quel mattino
era successo.
La moglie della guardia gli aveva fatto avere un piccolo foglio di
carta, appallottolato stretto stretto, la mattina del giorno precedente.
Si era stupito quando la donna, di solito schiva e brusca, gli aveva
afferrato la mano e l’aveva chiusa nella sua, passandogli così la
piccola pallottola di carta, entrando per portare la brocca dell’acqua
piena per la giornata. Quasi con simpatia e complicità gli sembrò fatto
quel gesto. O almeno lui così all’inizio l’aveva interpretato.
Ma gli occhi della donna, perennemente sporca e vestita con la stessa
veste mai lavata, erano rimasti anche in quella occasione quelli di
sempre, e lo spregio e il dileggio che in essi si leggevano nei
confronti del prigioniero russo erano sempre gli stessi.
L’avranno pagata, pensò l’uomo, abbandonando ogni ipotesi di tardiva
gentilezza e tenendo la mano stretta su ciò che aveva appena ricevuto in
quel modo strano.
Poi aprì la mano, quando fu solo, e aprì con stupore il foglio un po’
sporco che si celava in essa. Guardò che nessuno, ma nessuno c’era o
avrebbe potuto vederlo nella poca luce di quella piccola stanza, lo
vedesse e intervenisse. E lesse cercando di collegare il senso. Poi
rilesse per verificarlo e superare lo stupore e la gioia e la voglia di
gridare o piangere che lo colse violenta.
Il giorno dopo al mattino.
Poco dopo l’alba.
Doveva fidarsi, non l’avrebbero ucciso anche se ufficialmente era per
questo che lo portavano via se mai li avessero scoperti.
Lei.
Nascose il biglietto vergato a lettere piccole, tonde, quasi infantili
nella circolarità perfetta dei tondi. Non in cirillico ma in francese,
forse per celare più segreto e più nascosto, fosse mai stato scoperto il
foglio, il testo. O forse in quella lingua rara in Russia e Turchia, più
certa al cuore e ai pensieri di lui l’origine di quelle poche frasi
volutamente poco chiare e tra loro quasi sconnesse e la mano che le
aveva vergate.
Dormi l’uomo.
Male, nella cella.
Per il freddo della febbre che saliva, l’agitazione e l’aspettativa e il
dolore della ferita non ancora chiusa nella carne.
Ma si svegliò, la mattina dopo, il giorno previsto dalla lettera che
aveva nascosto nell’orlo scucito della giacca militare sporca e lacera,
con una voglia di vivere e di luce incontenibile, e dimenticata da mesi,
dentro.
I due soldati turchi arrivarono al passo poco prima della mezza.
Il prigioniero fu legato per i polsi e trascinato per un capo della
corda come se fosse stato un asino reticente alla soma. Faticava ma non
rallentava il passo, quasi avesse più di loro fretta. Salirono veloci e
lui con loro, solo un po’ più incerto a tratti, per la fatica di
camminare a piedi nudi anche sulla roccia, dove loro erano spediti negli
scarponi di cuoio bruno e forte.
Erano usciti con lui legato per i polsi, camminando lenti come se lo
trasportassero da qualche parte, fino a salire, in prossimità della
porta del forte-villaggio, sul carro del macello. Si nascosero dietro le
ceste del pollame, prima dell’alba, e nessuno a quell’ora ebbe modo di
vederli quando il carro uscì salutato dalle guardie che scherzarono col
conducente.
Uno dei due turchi aveva spiegato al prigioniero che gli conveniva
tacere e non richiamare attenzione alcuna. Se fossero stati scoperti
perché tentava di fuggire o richiamava l’attenzione di qualcuno
l’avrebbero ucciso rapidamente col coltello che portavano in cintura,
sgozzandolo come una capra, perché l’averlo portato fuori dalla
prigione, se fossero stati scoperti, sarebbe costato loro la vita alla
pari che a lui stesso.
Non gli dissero dove lo portavano, si compiacquero anzi tra di loro con
gli sguardi, immaginando fosse vera la paura che lui esibì a loro
beneficio, quando lo legarono e lo trascinarono fuori dalla cella.
Giunsero al passo.
Saldarono il capo libero della corda a un castagno, in modo che il
prigioniero tenuto lì in piedi fosse in bella vista per chi fosse salito
dall’altra parte della collina sino al culmine di rocce e piccole radure
verdi confinante col gruppo di piante terminante proprio con quel
castagno.
Gli chiusero la bocca con una delle bende tolta dalla fasciatura perché
non avesse voce, poi uno dei due si sedette lì e l’altro si nascose. Il
prigioniero ebbe paura che preparassero un agguato e alla fine lo scopo
fosse una rapina e l’uccisione dei testimoni tutti e niente altro.
Incominciò a sudare e a maledire se stesso per non aver tentato una fuga
comunque, mentre salivano al passo. Ebbe paura per lei e si ferì i polsi
quando la provò, cercando di liberarsi tirando e tendendo le corde con
tutto il corpo.
Lei arrivò al bordo della radura, aveva la luce contro, e il volto in
piena luce, quando lui la vide.
Illuminata in pieno, vestita da viaggiatore, ne riconobbe i lineamenti
del volto che conosceva per aver fatto l’amore con loro con gli occhi,
con le labbra, con le dita.
Riconobbe ogni curva celata del corpo e tentò, agitandosi e facendo
tendere la corda nuovamente, di avvisarla.
Accanto a lei riconobbe, e fu felice di vedere, poco dietro, Piotr.
Lo riconobbe appena in tempo per vederlo assalire dal turco che si era
nascosto, e cadere inerte a terra, senza sensi, colpito al capo con
violenza con un sasso. Subito dopo, vide l’aggressore afferrare
rapidamente lei, ancora frastornata dall’assalto inatteso e tenerla,
rendendola inoffensiva, ferma per i polsi, uniti dietro la schiena e
chiusi in una sua sola mano. Enorme per i polsi di lei così sottili e
fragili, pensò.
Lo vide avanzare, spingendola col ventre da dietro, verso di loro, lui e
la sua guardia. Ridendo e sfregando corpo e ventre contro il corpo e la
schiena della ragazza.
La vide dibattersi, e cercare, divincolandosi, di liberarsi. Mentre
anche il turco seduto ai piedi del prigioniero a sua volta rideva
sguaiatamente e con la mano libera l’altro, sempre spingendola, con un
gesto solo, le strappava la camicia dal collo tondo lacerandola.
Le scoprì i seni e, infilando la mano e toccandoli, stringendoli,
sfregandoli, cercò di insinuarsi, subito dopo, approfittando di lei che
si era chinata in avanti per proteggersi, oltre la cinta dei pantaloni
di tela a righe, alla ricerca del suo sesso.
Fu allora che lei riuscì a liberare una mano, una sola delle due
bloccate in quella del turco, che le imprigionava entrambe. E davanti
agli occhi dei due uomini vicini al castagno sfilò in un attimo il
coltello a punta curva dalla cinta di lui e aprì con un solo gesto il
collo al suo aggressore.
Ne uscì sangue come se si fosse aperta una nuova, enorme, sguaiata,
bocca sotto il mento dell’uomo. Rossa di un rosso volgare, denso e
violento, come quello delle puttane del bordello a Izmir, per un solo
attimo. Un attimo subito dopo la nuova bocca si trasformò in un fiume
che sgorga impetuoso dalla roccia e cominciò a dare un colore unico alle
vesti del soldato.
Ci misero poco ad accordarsi.
Anche perché Piotr si riprese in quell’istante e il soldato
sopravvissuto non aveva alcuna voglia di mostrare il suo eroismo. E poi
novantacinque monete d’oro da solo sono senza dubbi alcuno molto meglio
di cinquanta a testa.
“E’ stato il prigioniero” avrebbero pensato tutti, a liberarsi di un
disertore corrotto con cinque monete d’oro tedesche, che avrebbero
trovato nascoste nel tasca del morto.
“Il russo l’ha ucciso al confine, appena liberato” avrebbero detto i
soldati di pattuglia, trovando sul colle il cadavere e qualche traccia,
oltre alle poche monete sacrificate alla bisogna, che facesse
ricostruire lì la presenza anche del prigioniero evaso.
Si controllarono a vicenda. Il turco che non lo seguissero per ucciderlo
a tradimento e loro che lo stesso andasse giù veramente dal colle verso
il forte e il villaggio.
Poi la donna liberò il prigioniero.
E il giovane stalliere Piotr fece come faceva nella stanza, quando lei
cercava l’uomo da sola, tra le sue cosce, nelle notti di quel viaggio.
Si voltò per non vederli. Qui almeno, pensò sorridendo, non doveva
fingere col respiro il sonno e che lei non l’avesse anche quella notte
svegliato coi suoi gemiti.
Gli bastò voltarsi e scendere oltre il colmo pochi passi, mentre si
stringevano e ritrovavano, l’uno dell’altra, il calore, e l’umido e il
sapore delle bocche. Impossessandosi della meraviglia che cela ogni
volta il contatto aderente di due corpi.
Nella stanza che presero la sera, appena in territorio russo a una
distanza sufficientemente sicura dal confine turco, lei lo spogliò.
Piano, quasi lui fosse fragile come porcellana.
Sfiorò con le dita i segni delle ferite, dopo aver tolto ogni benda.
Quelle ormai chiuse da anni che già conosceva e ritrovò come se le dita
tornassero a casa all’istante sfiorandosi. Quelle che sembravano rughe
scure e familiari sulla pelle diventata pallida fino a sembrarle
fragile, per la vita in cella.
E quella fresca, recente, umida alla carezza, che combatteva ancora con
l’infezione e la difficoltà di chiudersi definitivamente e
perfettamente, avuta in dono, quella notte poco tempo prima, dai
soldati, ubriachi, in cella.
Poi, usando una bacinella di acqua calda, lo lavò con cura e
delicatezza, lasciando colare l’acqua da un piccolo telo di cotone,
intriso e spremuto sulla pelle, lenta e calda. A leccarlo più e più
volte. Dall’alto, fino ai piedi.
Un rito.
Quasi volesse ridargli la meraviglia che mesi di cella gli avevano
negato, dell’acqua, del calore. Della seduzione semplice che può se ama,
una donna.
Poi lo asciugò, con un telo più grande, avvolgendolo come in un sudario,
l’impronta di acqua del corpo a disegnare il tessuto imbevendolo.
Col telo a terra, aperto come il calco del suo corpo, gli posò le mani
aperte e calde sul petto.
Toccò le spalle, scese. Scivolò sul petto nuovamente, poi giù verso il
ventre e il sesso.
Lui aveva gli occhi chiusi e accoglieva quasi vibrando il percorso delle
mani sul suo corpo, leggendo il desiderio muto di lei che stesse fermo,
resistendo al desiderio di fermarle per stringerla e baciarla.
Poi le mani di lei risalirono, lente, lungo i fianchi e tornarono al
petto dell’uomo. Sfiorarono i capezzoli.
Dapprima pianissimo, poi a cerchi circoscrivendone quasi i nervi. Poi
posandosi su di loro piatte come accogliendoli nel palmo, sentirono
sotto di loro il respiro di lui farsi più corto.
Li carezzò e li strinse, dapprima piano e poi con forza, saggiando la
resistenza di lui a un solo gemito o a un lamento o a un gesto qualsiasi
di fuga o di rifiuto anche di quello, quasi ne riprendesse svegliandone
ogni nervo, pieno possesso.
Tolse le mani carezzandolo e sorridendo. Lei, negli occhi quella luce
che lui conosce e ama, quella di quando si accende in lei il desiderio,
e lei sente il controllo di se stessa diventare fragile in un istante. .
La luce dentro gli occhi, un lampo che da vicino se lo vedi sembra farsi
giallo, quella. Che sa rendere infinita e inebriante se le guardi, come
un pozzo, al centro, la profondità delle sue pupille. Poi gli offrì la
sua mano, sempre in silenzio.
Perché lui la conducesse al loro nuovo letto, di una notte soltanto,
nella locanda. Si spogliò davanti a lui.
Più tardi, a notte fonda, sdraiati e guardando il soffitto sconosciuto
di assi e travi di legno di una locanda ai confini della Grande Russia
con l’impero turco, persi nei dettagli di quel legno senza accorgersene,
come se fosse un quadro, lui cominciò a raccontarle.
Di un treno e di un viaggio.
Di troppi giorni, ma poi di quelle notti, quando la raggiungeva sul loro
treno.
Di traversine, binari e ruote che ad ogni giunto fanno un rumore. E come
un piccolo salto.
Di un uomo e di una donna che lui aveva visto, come in uno specchio,
dentro quel vagone, dentro quel letto, ogni notte.
Mangiare, bere, ridere, amarsi.
Mentre, oltre la tenda di velluto e gli ottoni lussuosi e lucidi da cui
pende, si seguivano vite, musiche di piazza, scorrere di campagne e
villaggi.
Giorni e notti, riflessi di oro su quei vetri in corsa al sole
dell’estate, alternati a sfuggenti lacrime di pioggia o di condensa
nell’inverno. Quando dentro il loro viaggio loro hanno caldo e il
finestrino suda.
E il mondo, fuori, regala ricami. Incollati ai vetri.
Bianchi, fragili, di neve, ghiaccio, gelo e freddo.
Presero sonno così, quella notte.
Ancora, finalmente, in viaggio. |