Si
accorse della mano quasi per caso.
Negli scrolloni ripetuti del filobus affollato aveva già dovuto
difendere i suoi piedi più e più volte dagli equilibri resi instabili
dalle frenate e accelerazioni che scandivano il traffico impazzito.
L’uomo seduto davanti a lei aveva anche protestato della sua borsa larga
e grande che l’aveva urtato, ma lei, a cui avevano insegnato sin da
bambina che sull’autobus e nel mercato i migliori affari spesso li fa
chi borseggia ed è lesto di mano, la borsa la teneva lì davanti, ben in
vista e quel signore dai capelli grigi poteva anche andarsene
all’inferno invece di protestare, eccheccazzo…, lui che se ne stava così
comodamente seduto… sbottò dentro di sé Angela improvvisa.
La mano era stata lesta davvero, ma non per il borseggio.
Con noncuranza si era posata sotto l’orlo del giaccone corto. Sotto le
reni, quasi in pieno sul suo culo, dove è più plastico e tondo.
Ora Angela la sentiva, bene, netta e chiara.
Posata, ora, al suo non accennare reazione istintiva e subitanea al
tocco, in modo più sicuro. Quasi sfrontata nella pressione aumentata.
Sentì il calore della mano dilagare sotto il tessuto, dilatarsi,
passare, e dare alla mano quasi la forma di palmo e dita. Conca calda
posata ben salda e aperta ora.
Il primo scossone fu per caso l’occasione che fece ancor più ladra
quella mano..
L’autobus che accelera e si insinua tra due auto in fila e la mano che
si insinua ancora un po’ più in basso, all’orlo della gonna, e sfiora le
cosce ancora coperte dalle calze a inizio primavera, e ne cerca l’orlo e
sale. Sotto la gonna.
La mano si fa audace.
Come se leggesse nel suo farsi immobile col culo e nel tendersi dei
muscoli al suo tocco, la sete di sapere che ha in cuore Angela che tace.
Di lei del suo percorso di polso e dita, del limite che si sarebbe posta
lì in mezzo al mondo stretto e pressato dall’ora di punta, all’essere
invasiva, sconcia, spregiudicata e oscena.
Angela non si volta.
La mano ora è sicura. Non ha più alcuna incertezza o alcuna paura.
Sfiora l’orlo delle mutandine sgambate, lo scosta approfittando di una
donna che deve scendere e per farsi strada spinge implacabile e
inconscia del risultato indietro Angela.
Contro le sue dita.
Angela sente caldo. Non più l’impronta della mano ora.
Ma un caldo liquido che la divora.
Le sembra che chiunque possa vedere e sapere di quella mano che ora si
bea dall’umido che la imperla sotto le cosce e la gonna sollevata, dita
posate. Sulla sua fessura.
Le tremano le gambe, non avrebbe mai immaginato di permettere ad alcuno
una molestia così invasiva, né che il piacere potesse arrivare anche per
questa via. Potrebbe girarsi, inveire, anche solo scansarsi e
bruscamente guadagnare l’uscita o una posizione più sicura.
Invece lascia quelle dita, non si volta, si fa prendere e toccare.
Incrocia gli occhi dell’uomo seduto lì davanti, quello delle proteste
per la borsa troppo grande e troppo invasiva. Scommetterebbe che
qualcosa della manovra dell’uomo alle sue spalle all’uomo seduto non sia
sfuggita.
E invece di abbassare gli occhi, lo fissa, seduto lì fronte. Inchioda i
suoi occhi in quelli dello sconosciuto seduto, mentre si sente frugare
dietro e sotto dalle dita. Si morde il labbro, sa di avere gli occhi
sottili e lucidi dall’eccitazione, sottili e lucenti come le piccole
labbra della sua fica.
Lo sfida.
L’uomo seduto deglutisce, arrossisce, abbassa lui il viso.
Cede.
Lei gode, della sua impudicizia, si sente strana, quasi ubriaca. Mentre
la mano dietro si è fatta dura e scivolano in lei quelle che interpreta
coi nervi elettrici come la punta delle punte di un paio di dita.
E come è cominciato, finisce, il gioco a violarla della mano.
Scompare il tocco, scompare il numero illeggibile nell’eccitazione delle
infinita dita che sembravano averle dato vita.
Senza voltarsi sente brontolare persone, l’uomo si è fatto strada un po’
a spintoni. E’ sceso all’ultimo minuto, di corsa. Con l’autobus che
chiudendo le porte già ripartiva, col coro di proteste di chi ha spinto
per liberarsi in fretta del groviglio di corpi, gambe e mani e
raggiungere i tre gradini dell’uscita.
Angela rassetta la gonna con gesto semplice come è abituata a fare
quando si alza dopo esser stata seduta.
L’elastico delle mutande sotto le cosce le ha lasciato le labbra fuori,
di lato, nude, e spinge e un poco gratta. Stringe, a lato della fica.
Come le piace a volte che Marco la prenda, senza sfilarle, solo
scostandole di lato, contro il cazzo, non può fare a meno di pensare
riconoscendone il tocco e la tensione di elastico e cotone.
E come fosse stato chiamato dal pensiero, ecco di Marco, sul cellulare
che suona, appare il nome.
”Cucciolo, perdonami”
Angela pigiata nella folla col cellulare all’orecchio ascolta lui e
sorride.
“Non ce l’ho fatta a raggiungerti sulla 90 a Piola, mi spiace per il
nostro gioco”
Angela ora non sorride.
“Avevi messo le calze che mi piacciono e le mutandine che ti ho regalato
apposta, lo so, ho visto le buste vuote sul letto quando sono uscito,
sarai bellissima, non scendere ancora...”
“Se riesco salgo in Centrale, tanto il filobus non si svuota ancora alla
stazione e possiamo giocare …”
Angela diventa rossa all’improvviso.
Per un attimo è’ incerta e barcolla di vergogna ora. Poi chiude la
comunicazione.
E, nello stupore delle persone che si voltano al suo esplodere,
guardando l’uomo grigio seduto lì davanti a lei improvvisamente, si
libera.
E quasi senza controllo ride.
Mi alzo poco dopo, e scendo alla fermata successiva. Tre dopo quella a
cui dovevo scendere, ma non capita ogni giorno di perdersi nei pensieri
a primavera.
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