L’uomo uscì di casa nella mattina ferma di un sabato di primavera.
Una di quelle giornate sospese a metà. Tra le stagioni. Quando i passi del tempo ancora non si sono fatti così decisi da svoltare l’angolo e aprirsi a nuove sensazioni. Quando sembra, nella immobilità di un germoglio che sembra lì lì per schiudersi, che nella vita stessa delle cose e delle persone esista il fermo immagine o quanto meno l’opzione del rallentatore.
Un bar, un caffè, tre chiacchiere in croce con visi conosciuti.
Poi si ricordò di dove fosse il negozio, la piccola bottega che aveva visto mille volte lì in paese, e si incamminò con passi decisi verso la sua destinazione.
A tre isolati di distanza, nel paese dove era solito svernare e tornare ad ogni possibile occasione, la porta, la vetrina con quel sapore di cose calde, un poco polverose, quasi una soffitta di colori. E con quel buon odore che hanno solo persone diventate antiche senza essere passate attraverso l’oltraggio dell’età, e dietro a quel bancone lei, la padrona della bottega, anziana senza età, a servire.
A voltarsi offrendoti la schiena nella ricerca di ciò che chiedi.
Salire i tre gradini della piccola scala portata al punto giusto sotto lo scaffale a parete.
Prendere una grande scatola di cartone, aprirla lì davanti a te, estrarne mille cose, poi prendere l’enorme forbice e tagliare.
Chiudere in un sacchetto di carta bianco. Fresco quasi stirato e subito pieno di mille rughe appena consegnato.
L’uomo che adesso paga, saluta. Esce ancora nella via.
Che sale in auto, tornato sui suoi passi, la strada sotto i piedi è un film che si riavvolge su stesso, non può fare a meno di notare. Riavvolge i passi.
E’ come un film rivisto a passo inverso, e sorride del fatto che lo sguardo ora indugia a leggere e immagazzinare dettagli, oggetti, situazioni tutti sul lato opposto della strada rispetto a quello che aveva bevuto con gli occhi nel percorso dell’andare.
Arriva e parcheggia sotto casa. Di lei.
Suona il citofono e attende che lei scenda ad aprire.
Col suo involto bianco di carta, accartocciato dove lo serra tra le dita, di cui, portandolo mentre la attende lì, al viso, non può non essere felice per quel buon odore.
Nel salutarla glielo porge e poi la segue su, lungo le scale.
Lei chiude la porta alle loro spalle e con gli occhi abbozza una domanda.
“Aprilo, dai” lui nel porgerglielo ha poche parole.
Lei apre, celando a stento la curiosità e l’attesa di un inatteso dono, e estrae quella piccola matassa avvolta su se stessa.
Il nastro di velluto nero, lungo, stretto e sottile tra le dita si srotola dalle sue spire. Serpente di tessuto, che non rifrange né riflette luce ma sembra volerla tutta assorbire, nel contrasto con le dita pallide, quasi bianche, lunghe e sottili e le unghie chiare della giovane donna.
L’uomo ripensa alla merciaia, a quando lo avvolgeva su se stesso, sulle dita rugose e secche, prima di metterlo nel sacchetto bianco di carta, e pensa come sia più animato ora, srotolandosi tra quelle dita, quasi avesse vita in sé, e come siano chiare e pallide le dita di lei e piene di agitazione ora.
Le prende il polso, avvicinandolo a sé. Il polso, la mano e il nastro nero.
Gira sul polso il nastro.
Un nodo, due. Ben chiusi.
Stretto abbastanza perché si senta, anche senza bisogno di toccarlo, se ne percepisca e ricordi la presenza, ma non da fare male.
Poi le chiede di andare a prendere le forbici e di tornare.
Lei esce, torna, sembra nemmeno sia uscita in realtà dalla stanza in questa primavera sospesa, chiusa in una casa che si offre al suo sbocciare. Ma è davvero andata e tornata e ora ha le forbici in mano.
L’uomo tronca i due capi oltre il nodo. Uno corto, quasi a filo, l’altro in modo che lei possa, lasciandolo lungo abbastanza, volendo farlo arrivare al palmo della mano. O che lui, volendo, lo possa afferrare.
Lei per istinto abbassa gli occhi mentre l’uomo compie il suo lavoro. Guarda solo le mani di lui, sicure nei gesti, le dita nella forbice, il gesto duplice, rapido e deciso del tagliare.
Come sapesse per istinto che lui, dentro di sé, le ha detto silenziosamente che non lo può guardare.
Il lembo lungo penzola ora dal polso nudo, cinto dalla cintura morbida, sottile. Di velluto.
La donna solleva il polso lo avvicina a lui, finchè quel lembo arriva a sfiorare le sue dita.
Lo accolgono. Lo stringono, Lo girano due volte su di loro.
Poi tirano il polso, tenendo saldo il nastro. Il polso e lei che, né assecondando né contrastando la tensione improvvisa e progressiva, si lascia trascinare.
Fino a due spanne dal suo viso.
Sente il respiro di lui sul volto, sfiorarle il viso. Le labbra.
Forse lui la vuole baciare. Pensa.
Ma non la bacia, parla, ora, a voce calma, calda e sottile. Le parole arrivano calde e umide di respiro alle labbra della donna. Quasi fosse con quelle e con gli occhi fissi sulle labbra di lui, e non con le orecchie, che le debba sentire.
“Sfilati la gonna e tutto dalla vita in giù e vatti a sedere”
Lei fa scivolare al suolo gli indumenti, solleva prima un piede, poi l’altro e se ne libera definitivamente.
Poi, sempre senza guardarlo, si volta e si va a sedere. Lui si avvicina a lei seduta, la sedia è bassa e nel sedere le sue cosce si scostano e restano aperte quasi da sole.
E’ fermo lì, lei coi polsi sui braccioli. Il lembo del nastro a pendere nel vuoto. Oscillare fino a farsi immoto.
L’uomo la guarda. A lungo. Fino a farle sentire il contatto dello sguardo percorrerla, fisico, tangibile, sempre più caldo, dalle caviglie a risalire. Su su lungo le gambe, le cosce.
A cogliere il lucido che le affiora tra le labbra, sul sesso glabro, offerto nudo al suo guardare, disegnato di carne e ombra.
Alla camicia chiusa sul petto della donna, che ora vede riempirsi e poi svuotarsi d’aria sempre più a fondo, più veloce, accelerare, al respirare.
“Allargati con una mano e con l’altra, quella col nastro, datti piacere” dice con calma, quasi senza emozione.
Poi guarda la danza delle dita di lei, avvicinarsi, scostare, aprire e penetrare, Indugiare sul taglio e sul suo vertice superiore.
Poi affondare per ritrarsi come lei sola sa fare.
E si perde, nel gioco del velluto nero che dondola, sale per poi crollare, oscilla, quasi nel farsi sempre più sicuro delle dita acquisisse vita autonoma e vigore.
Il piccolo serpente di velluto nero scompare tra cosce.
Quando lei concedendosi finalmente al suo piacere le serra e comincia a godere.
L’uomo attende che compaia ancora, poi si avvicina.
Prende il piccolo guinzaglio legato al polso e, tirandolo a sé, la fa alzare.
Avvicina le labbra alle sue.
Lei, ad occhi bassi, con fiato corto, le vede arrivare.

 
 
 
 
 
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