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		scala è una vertigine. E’ nascosta dietro una porta scura, sul ballatoio della vita.
 La porta è di metallo, rinforzata lungo i bordi da una striscia di 
		metallo aggiunta, saldata a fare da costola, rilievo. La porta è nera.
 Non cigola sui cardini, non servono effetti speciali.
 E’ sufficiente il buio che disserra se la apri. La voragine infinita 
		della chiocciola sotto i piedi.
 Gradini stretti al centro e solo larghi poco di più ai lati, che si 
		avvitano su se stessi.
 A perdita d’occhio nel buio quasi totale.
 E la donna sporgendosi ne vedrebbe, o per essere più precisi, ne 
		percepirebbe, lì sotto, sforzando la vista per adeguarla al buio, solo 
		pochi, pochissimi giri.
 L’aria gelida che sale dal nulla sotto è l’unico segnale della 
		profondità celata. Imprecisata.
 Ma poi che senso ha?
 Dire che la donna vedrebbe poche volte e pochi giri.
 Non li vedrà, non li vedrai, bendata.
 
 La porta ha una chiave che l’uomo tiene nella mano e farà, chiudendola 
		alle spalle della donna e sue, cadere. A celarsi nel buio stretto della 
		tasca dei suoi pantaloni.
 L’uomo indossa jeans stinti e una camicia azzurra.
 Lei nulla.
 E’ nuda, ad eccezione di un nastro nero legato al polso, uno a serrarle 
		i capelli in una lunga coda scura e una catenella a maglie grandi che le 
		cade dal collo, sulla gola, lucida all’ultima luce prima del buio del 
		tramonto di grotta asciutta. Della scala.
 Ha aperto, l’uomo, la porta, che è girata sui suoi cardini senza il 
		minimo rumore, perché la vita non ha segnali acustici nelle sue svolte e 
		nelle sue evoluzioni. Non è una strada con comodi segnali.
 Ha aperto e si sono mischiati caldo e freddo e odori. L’odore del buio 
		sale violento alle narici, perché il buio ha odori e colori. E mille, 
		nel suo silenzio immobile e nero, frastornanti voci e rumori.
 L’uomo ha bendato la donna prima di aprire. Dopo averla fatta spogliare.
 “Togliti tutto”, ha detto solo questo perché arrivati lì nemmeno 
		servivano altre parole.
 Poi ha stretto la lunga benda nera, morbida, a imprigionarle gli occhi e 
		farle il dono della notte. Inutile forse, pensa l’uomo, perché, richiusa 
		la porta dietro di loro la discesa della scala è nero pece già di suo.
 Poi con la chiave le ha regalato un suono, forse due.
 Il rumore della piccola chiave di metallo sottile che entra nella toppa 
		della serratura. Calza nel taglio e ruota azionandone la vita.
 Il rumore di un meccanismo celato nella serratura che sottovoce gira.
 Il rumore, quasi un fruscio, dei cardini ben oliati da chissà chi e 
		chissà quando. Di una porta che lui solo ha la chiave per aprire.
 E il silenzio dell’anta di metallo che sposta l’aria aprendosi e carezza 
		con essa il ventre nudo e il seno.
 La porta ruota come un sospiro.
 La donna ha i brividi e l’uomo li coglie, visibili come un’onda, sul suo 
		seno. E sulla schiena.
 Tu hai i brividi, davanti al vuoto della scala, li vedo. Tu, nuda coi 
		capezzoli che sono diventati in un istante duri e secchi come legno, e 
		io lecco con lo sguardo e col pensiero.
 
 Le aveva detto tutto. O quasi.
 Di quella porta, di quella scala, piantata nel ventre del palazzo, 
		infinita. A cui si accede solo conoscendone l’esistenza nascosta 
		all’ultimo piano.
 Dei mille passi a scendere, la scala stretta e senza corrimano.
 Del buio che ingannava persino lui, se la scendeva ad occhi ben 
		spalancati e tesi.
 Del gelo che sembrava venire dal ventre della terra e crescere mano mano 
		che l’ombra diventava più eterna e definitiva. Del rimbombare lì di 
		qualsiasi pur impercettibile suono.
 Nel silenzio del camino di cemento nudo in cui la scala sprofondava. Del 
		suono dei passi, i propri, che sembravano venire, pur fisicamente così 
		presenti sotto i tuoi piedi, da chissà dove.
 Di quella lingua di gelo che l’aria insinuava tra le cosce nude, 
		sfiorando il sesso, la schiena. I seni.
 E del rumore quasi assordante del respiro. Il proprio, lì in quel 
		camminare eternamente sospeso.
 Del calore umido dell’alito che ti si incolla sulla faccia quando 
		respiri.
 Le aveva detto quasi tutto.
 Della paura, quasi dolorosa, che lì le avrebbe dato in dono.
 Della sua mano che avrebbe permesso a lei di afferrare e tenere.
 Le aveva chiesto: “Vuoi? Lo vuoi davvero? Perché quella scala è così 
		stretta che non si può nemmeno più voltarsi e risalire, tornando 
		indietro”.
 E tu avevi risposto a mezza voce sì, ed era sembrato eterno, sospeso in 
		aria indefinito e immoto come una piuma, il suono, nella durata di quel 
		sì appena sussurrato che sentivo.
 E ora, davanti ai piedi nudi hai il vuoto.
 Prima del primissimo gradino.
 Sembri cercare coraggio nel contatto delle piante nude e delle dita sul 
		cemento grigio.
 Prima della discesa.
 
 La donna ha un sussulto appena lui la sfiora.
 Indugia allora la mano dell’uomo sulla schiena nuda, che sente corsa da 
		corrente e tesa al suo cammino a fior di pelle, sotto le dita.
 Indugia sulle reni che lei, spingendosi un po’ indietro, affida, come se 
		fosse un cuscino quella mano che la sfiora e a cui si posa. Che le 
		permette di stare indietro, senza cadere, rifuggendo lì davanti il 
		vuoto. Il nero.
 Che lei sa esserci.
 E che non vede.
 Indugia e si insinua ora tra le cosce, cerca le labbra nude sotto. Le 
		sfiora.
 Ne coglie l’umido. Tra i polpastrelli lo degusta.
 Lo impasta tra le dita.
 Stringe le labbra come se volesse chiuderle per sempre la fica con le 
		dita. Le tira verso il basso, poi le torce, senza violenza vera, come 
		fossero cera.
 Le lascia gonfie e aperte, e lei, cieca per la benda, ora è confusa.
 E’ eccitata e l’aria gelida sul seno e il ventre che sale dall’apertura 
		della porta mischia eccitazione a paura.
 Le lascia gonfie e aperte, bagnate, insoddisfatte della brevità così 
		sconvolgente di quella violazione cieca, sorda, nuda e muta. Passa la 
		mano ancora sulla schiena, fino a raggiungere la nuca.
 Attiva come fosse un cavo elettrico scoperto corde e matasse di nervi al 
		solo transitarci sopra in punta di dita.
 Gode del suo contrarsi nella schiena, del mugolio sommesso che lei non 
		riesce a trattenere dalla gola. Poi insinua un dito, due, tra collo e 
		catena della collana.
 Quello spessore imprevisto la tende e la tira. La fa aderire alla gola.
 Alla donna manca quasi il fiato benché la pressione non sia sufficiente 
		a toglierglielo davvero.
 La sente, la pressione, riflessa nel respiro che spinge il metallo fino 
		a farlo sembrare volerle scomparire in gola. Ad ogni riempirsi dei 
		polmoni, col transitare dell’aria nella gola.
 Poi l’uomo sfila le dita, lascia ricadere la collana stretta ancora, e 
		la donna sembra riprendere il respiro con affanno, come dopo 
		un’immersione troppo lunga e troppo nera.
 Ora respira con violenza e le si gonfia il petto ad ogni colpo di 
		mantice umido e caldo dei polmoni.
 Ora respiri così forte che non posso non metterti una mano lì davanti.
 Sul petto a cercare i battiti del cuore.
 E poi a stringere nella mia mano un seno.
 Sfiorandoti il capezzolo mi rendo conto che tremi.
 
 Il primo gradino ora.
 Della tua discesa tra le mie mani.
 Debbo forzarti a farlo quasi. Prendo nella mia mano le tue dita, poi 
		afferro la mano tutta e stringo. Sentilo il calore.
 La forza, perchè è la forza tua. Da ora.
 E’ solo e unicamente lì, in quella morsa di dita, in questo contatto 
		stretto a cui ti consento di aggrapparti e cercare luce che vedrai le 
		scale. La mano mia l’unica luce.
 A condurti a scendere, passo dopo passo, gradino dopo gradino.
 Sono leggermente davanti a te ora. E tiro verso di me l’anello di catena 
		delle nostre mani.
 Sollevi un piede, nel vuoto.
 Sembri cercare la terra che non c’è, così sospesa, come dovessi 
		all’improvviso precipitare.
 C’è un attimo, un’istante esatto, uno solo.
 Ad ogni gradino.
 In cui non sei più salda a quello da cui sei partita e ancora non hai 
		trovato atterraggio su quello nuovo. La tua isola di naufrago prima di 
		salpare ancora e ancora.
 Verso un mare così profondo da sembrare nero.
 C’è un istante in cui, al buio dei tuoi occhi, nel silenzio di parole 
		che ti sono proibite, sprofondi, volta dopo volta, prima di toccare il 
		suolo, nelle tue paure.
 C’è un istante in cui sento la tua mano aggrapparsi disperata alle mie 
		dita.
 Per poi sciogliersi dalla tensione dopo che ti avranno trascinata, 
		guidata a ritrovare sotto il piede sporto nel vuoto il suolo.
 La mano che si aggrappa alla mia vita.
 Mi volto , ti sfioro nella strettezza delle scale il corpo con il mio. 
		Stretto a te risalgo sul tuo stesso gradino.
 Infilo la chiave da dentro nella toppa, faccio scorrere la porta.
 Ora la chiudo.
 Ascolti, coperti da quello del tuo cuore, al contrario il riavvolgersi 
		del nastro dei rumori. Di quando avevo aperto. Spalancando il nero 
		davanti a te.
 Ti danno certezza e ne cerchi il seguirsi a specchio nel ricordo 
		dell’entrata.
 
 Tornando a scendere un gradino sotto di te, ripasso tra le tue cosce con 
		le dita.
 Sembri temere di precipitare mentre lo faccio.
 Io sono così in basso ora da poter sentire il tuo odore forte di donna, 
		quel misto acido di sudore e di paura e colloso di miele del piacere 
		scosso e animato dalle mie dita, senza nemmeno dovermi flettere o 
		chinare.
 Le tue gambe si contraggono. I muscoli delle cosce sono tesi e duri. 
		Quasi dovessi essere lì per cadere e si inchiodassero per la paura.
 Sotto le dita cedi, ti fai mosto d’uva bianca denso e coli.
 Poi la tua mano a tentoni, al buio doppio della porta chiusa e della 
		benda che hai sul viso, cerca la mia.
 Non la trova. Non la troverà finchè non starà ferma.
 Ad attendere che io decida che ci sia.
 Ad ogni gradino.
 L’aria si farà più scura.
 E al freddo che salirà agli occhi ciechi, io sarò la cura.
 La tua mano stretta nella mia si bagna dei tuoi umori prigionieri.
 
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