Le aveva chiesto un appuntamento. Ancora uno. L’ultimo. La ragazza dopo
infiniti tentennamenti aveva accettato e, rientrata a casa a metà
mattina si era preparata a uscire di nuovo, cambiandosi.
Aveva sostituito i pantaloni con una gonna abbastanza corta da lasciare
vedere sotto il velo delle calze il tatuaggio che le saliva dal malleolo
lungo la caviglia per terminare al primo accenno di muscolo del
polpaccio. L’aveva fatto due anni prima, e ora un poco era pentita di
quel serpente sottile chele cingeva il piede.
Alla camicia aveva sostituito una maglia di lana, stretta, nera, col
collo a dolce vita abbastanza alto da tenerle calda la gola, già
irritata dai primi freddi e dalle troppe sigarette che aveva fumato
negli ultimi giorni.
Era arrivata con la metropolitana e, uscendo dal ventre della città
sotterranea, di tunnel e piazze a bolli neri di linoleum consumato, lo
aveva scorto subito, appoggiato al muso della sua auto, in quell’attimo
distratto.
Doveva essere un addio.
Lei si sarebbe sposata di lì a pochi mesi e aveva già cominciato gli
ultimi preparativi con Aldo. La casa era già pronta, i primi mobili
cominciavano a darle forme e vita. Persino il mutuo a vedere la casa
crescere così sembrava farsi più leggero.
Le discussioni con la famiglia. Perché loro due volevano una festa
piccola, per pochi parenti e poi una cena che avrebbero gestito loro con
gli amici più stretti di lei e di lui e di entrambi.
Le discussioni perché a lei non andava che suo padre, operaio e in crisi
perenne con le finanze familiari, tre figlie femmine erano state un
problema da combattere ad ogni fine mese col bilancio, si dissanguasse
per quello che per lei era un giorno sì speciale, ma così intimo da non
richiedere tutte le spese irrazionali e ingiustificate che lui aveva in
mente.
Uscì all’aperto, emerse oltre il profilo del muretto e della ringhiera
di tubolare rosso.
Lo vide, e gli sorrise.
Francesco si girò nell’esatto istante in cui si sentì chiamare dalla sua
voce.
Avevano deciso di interrompere la loro relazione che durava già da quasi
un anno.
La scelta non era stata facile, nemmeno iniziare il discorso e
parlargliene. Un giro di boa.
Avevano diradato di mutuo accordo i loro incontri in rete, lo scambio di
mail e messaggi. Le telefonate.
Da oltre un mese, per un motivo o per un altro, erano riusciti a trovare
ogni giorno una ragione plausibile per non vedersi.
Per oltre un mese.
Ora lei gli stava andando incontro, l’ultimo gradino della scalinata
dell’uscita del metrò appena dietro le sue spalle.
Si baciarono. Un po’ impacciati e goffi.
Attenti a non posare labbra su labbra, come era automatico da tempo
succedesse. Lei si lasciò stringere e lui cercò di frenare quella
stretta che gli veniva d’istinto così forte, il petto e il pube spinti
ad aderire ogni volta al corpo della donna.
A turno uno dei due abbassava lo sguardo, quando si rendeva conto,
parlando, di continuare a tenerlo troppo fisso negli occhi dell’altro.
Le parole fecero fatica, per la prima volta ad uscire dalle bocche.
Pause e silenzi, così densi da sembrare colla.
Bevvero qualcosa in un bar in cui nessuno dei due era mai stato in
precedenza.
Lei un latte appena appena macchiato e le restò un lieve alone bianco
sulle labbra.
Lui un caffè ristretto, amaro, senza zucchero e lei rise perché sapeva
che certamente lui per se stesso avrebbe ordinato proprio, come sempre,
quello.
Lui passò le dita, per istinto, sul segno bianco rimasto sulle labbra di
Francesca. Le sentì morbide, cedevoli e calde.
Quasi incresparsi al passare delle dita.
Le sentì cedere mentre le puliva, arrendersi al tocco dei polpastrelli,
schiudersi. E poi riaccostarsi.
E trasformare in bacio alle sue dita la loro arrendevolezza.
Nessuno dei due parlò.
Salirono sull’auto di lui, parcheggiata lì davanti.
Le aprì, come era solito fare, lui la portiera, lasciò che lei si
accomodasse, sistemandosi la gonna sulle ginocchia che si erano
scoperte. Poi richiuse e salì alla guida.
Arrivarono al loro motel in meno di un quarto d’ora, passato in
silenzio. In auto.
Solo il respiro e il rumore del motore al cambio di marcia, al
rallentare in curva o al riprendersi dove la strada prima dell’arrivo
tornava nuovamente diritta.
Appena in camera si franarono addosso.
Si spogliarono quasi con violenza. Le sollevò la maglia e prese possesso
sotto il tessuto del reggiseno delle sue coppe, della pelle morbida e
calda di lei, donna.
Lei incespicò con le dita con la cintura dei pantaloni di Francesco. Poi
con la zip, dopo aver vinto la resistenza del bottone in alto e cominciò
a calarglieli, quasi facendogli perdere e perdendo lei stessa
l’equilibrio nello slancio.
Finirono sul letto ancora metà vestiti. Lui la penetrò scostando solo di
lato l’elastico dello slippino stretto. Senza che lei avesse tempo di
togliere la maglia tutta arruffata sul suo petto, un seno sfuggito fuori
dalla coppa del reggiseno. Le calze ancora alte fino a fine coscia.
Scostò l’elastico e si insinuò tra mutandine e carne fino a salirle in
ventre quasi con rabbia.
Non fu un’eternità il loro tempo.
Con il fiato che nemmeno più bastava, le gole aperte a cercare l’aria,
lui venne solo un istante dopo averla sentire contrarre sul suo cazzo e
stringere più forte le sue reni prigioniere del laccio di gambe e cosce.
Uscirono dalla stanza 157 che erano ancora paonazzi in volto.
Lei si pettinò dopo essersi ricomposta gli abiti e si truccò poi in
auto, in silenzio, sapendo che non l’avrebbe più rivisto e non trovando
parole per dirlo. Tornarono alla fermata del metrò velocemente perché
avevano entrambi poco tempo.
Lei terminò di rassettarsi il trucco mentre lui già stava accostando,
quasi perfettamente, ma non riuscì a nascondere in alcun modo
l’arrossamento delle lacrime che aveva pianto.
Lo baciò, aprì, si voltò e scese. Pochi secondi dopo era già scomparsa
nella città di tunnel e sale sotterranee col pavimento di linoleum a
bolli neri lucidi e consumati da mille e mille passi.
|