L'uovo

(trilogia d'inverno - atto secondo)

    

 

 

 

 

 

Eri entrato per cercarlo.
In quel negozio. Un nido molto strano per quell’uovo.
E ti eri chiesto, suonando il campanello che azionava l’apertura della porta a vetri, come sarebbe stato il mondo anche lì dentro.
La porta e la vetrina oscurate da carta adesiva rossa, come nei peggiori film.
Nelle peggiori strade.
Di città che non conosci.
Era il terzo negozio in cui eri entrato cercando quel regalo, proprio quello.
In mezzo alle pochissime persone, due, poi ti eri accorto che erano tre, quasi desiderose di essere invisibili le une alle altre, a ostentare indifferenza guardando immagini di dvd e un’infinità di oggetti, avevi chiesto ancora una volta a un uomo dietro a un banco se aveva quell’oggetto.
Avevi anche sorriso perché, rinunciando a fingere di non essere lì, gli altri clienti si erano avvicinati, ognuno simulando di non farlo apposta, così ridicoli in quel movimento sincrono di curiosità. Avevi sorriso pensando a lei.
Che lo desiderava come si desiderano i regali chiesti e comunque ricevuti con sorpresa vera.
L’uomo del negozio aveva quell’oggetto.
E hai visto lei mentre lui lo andava a recuperare da una vetrinetta chiusa a chiave, immaginandone il sorriso e il turbamento di quel Natale ovale, lucido, chiuso come un guscio ma così vivo dentro, al vostro appuntamento.
Piccolo, chiuso nel blister di plastica, color argento il piccolo uovo, le sue batterie, un piccolo telecomando bianco.
Che ora hai in mano. E, all’altro capo dei tuoi capricci, lo specchio fedele delle sue volontà che lei si è nascosta a fondo. Dentro.
Ruoti la piccola ghiera della velocità. E la guardi.

Lei comincia ad avere un respiro differente, hai come la sensazione di essere tu a governarlo, il suo respiro. E allora provi a vedere se è vero e, se è vero davvero, a farlo.
Ha riaperto gli occhi e ti guarda quasi senza guardarti. Ti senti traversato dal suo sguardo umido come se fossi trasparente.
Sono lucidi, gli occhi, grandi. Belli.
Come lo sono sempre ma ora ti sembrano quasi liquidi mentre le rubi il fiato e il tempo.
Sembrano sciogliersi come la crema del suo cappuccino nel nero del caffè lì sotto, nella tazza intonsa lì sul tavolino tondo.
Al tavolo di fianco debbono avervi notati.
Immobili tutti e due, in pieno e assoluto silenzio, quasi irreali, e hai la sensazione netta che almeno due di loro vi stiano proprio guardando.
Non ti volti a controllare se l’alito di quello sguardo estraneo che senti sulle spalle è vero. Guardi solo lei e ti sembra che lei invece ora non ti veda ma ti ascolti. Non te. Perché tu non parli. Ascolti se stessa forse. Dentro.
Tu che le parli dentro azionando una piccola ruota dentata di plastica bianca.
Quasi sorpresa, come se fosse stata soprappensiero e si fosse accorta solo adesso che la stavi fissando, ti chiede, con una voce che le mangeresti dalla gola, di fermarti.
Lo chiede piano, sottovoce.
Quasi timidamente, come una bambina.
Quasi lo sussurra.
Hai i muscoli dei polpacci tesi. Li vedi.
Come se controllasse uno scatto e si trattenesse a stento dal farlo.
Posi una mano sulla sua, che giace sul suo ginocchio.
Chino così puoi cogliere il calore del suo fiato, del respiro che le esce dalla bocca.
E’ umido nella giornata di mezzo sole e mezza nebbia.
Umido come l’aria che ti circonda ma molto più denso e caldo.
Vorresti chinarti ancora e baciarla, infilarle in gola la lingua che ti scalpita dalla voglia di affondare sulla sua finalmente, ma non sai fare a meno di respirarla.
“Fermati, per favore”
Un filo di alito che ti parla.
Attendi un attimo ancora, fino a che l’eco di quella voce sottile e bassa si spegne nella tua testa, e ti fermi. Non rallenti prima, girando dente per dente la piccola ruota di plastica sotto il dito, fermi di colpo, lasciando risalire il tasto.
Lei si riassesta sulla sedia, riallinea gambe e cosce.
Respira di un respiro più profondo.
“Il cappuccino sarà freddo del tutto, vuoi che te ne ordini un altro?”

E fai un gesto al cameriere, lei si ricompone del tutto mentre ti vede chiamarlo.
Abbassa la gonna che ora era alta oltre l’orlo delle calze. Da dove sei seduto e da come sei seduto le puoi vedere il bianco caldo del cotone delle mutande.
Nel farlo si accorge che l’uomo più giovane seduto al tavolo di fianco ha anche spostato la sedia e siede quasi in punta del sedile per guardarla meglio, dissimulando il tutto alla donna seduta con lui e all’altro.
Lei abbassa gli occhi quando incrocia quello sguardo.
Rendendosi conto che lui deve essersi goduto la salita della gonna attimo per attimo, mentre lei scivolava sulla sedia lentamente.
E cerca di immaginare, ricordare come può essere stato il suo viso, desidera che lui abbia avuto solo occhi per la gonna e non per quello.
Se tu non stessi richiamando l’attenzione del cameriere e la stessi guardando forse vedresti che il suo viso in quel momento arrossisce un poco. Poco, perchè fa freddo e le sue guance sono già rosse per il calore della lampada a gas che le riscalda.
Il cameriere ora è tra di voi, in piedi, recupera la tazza.
Allora tu lo fai.
Le chiedi se vuole un altro cappuccino caldo, sapendo che nel parlare a lei e attendere la risposta anche l’uomo col grembiule bianco in piedi in mezzo a voi due si volterà a guardarla attendendo.
Il sì o il no. O altro.
Lei sussurra un sì strozzato.
Hai schiacciato, mentre lei apre le labbra per ordinare, ancora il tasto.
Lei si contrae, cercando di celarlo, sulla sedia, tu cogli tutto in quel suo raddrizzarsi e premere lo schienale con le reni.
La voce che le esce e si strozza appena ricomincia il tremito dentro e di cui cogli il rantolo.
La voce che si bagna come lei sotto la gonna all’istante.
Fai salire la velocità lentamente ma non troppo. Ruoti con costanza, lenta, determinata, regolare, progressiva, fino a forzare quasi il fine corsa della rotellina bianca, perché lei la senta e ne sia conscia e le sembri non doversi fermare mai il crescere di quel tremito padrone del suo ventre.
Le parli, le imponi con piccole domande piccole risposte. Perché il giovane cameriere dal grembiule bianco debba restare lì davanti a lei che si scioglie.
Se vuole anche qualcosa da mangiare.
“Una brioche..?”
Il no, grazie, dalle sue labbra secche. Senza rossetto come piace a te le abbia.
“Sicura, sicura? Non hai mangiato niente..”
Ora lo vedi quel rossore. Netto, distinto, colorarle zigomi e guance.
Le guance rosse e il viso chiaro del colore di perla della sua pelle.
E glielo fai notare, mentre tu e il cameriere attendete ancora la sua risposta alla tua nuova sollecitazione premurosa acchè lei mangi.
Vuoi che le veda anche lei le sue guance, sappia che le vedete imporporarsi, e che, vedendole nelle tue parole in cui si specchiano, diventino più rosse ancora. Ora lei non alza più lo sguardo sul cameriere, finge indifferenza giocherellando con il nastro.
Lo avvolge e svolge sulle dita, una due, tre volte.
Spegni riaccendi e spegni, una, due, tre volte, quattro.
Le batti il ritmo nella fica con quel tasto. Freni e riparti. Batti e ribatti.
Ai primi tre fermarsi e ripartire cogli netto quasi un sussulto, giureresti di aver sentito il battito del cuore più forte in quel preciso istante. Al quarto e ai successivi lei in qualche modo riesce ora a controllarsi e tu allora smetti.
“Allora porti solo un altro cappuccino e un altro caffè ristretto per me, per cortesia”
L’uomo si volta e si allontana e nel seguirlo giri il capo, e scorgi lo sguardo fisso, dell’uomo del tavolo di fianco, sul suo volto. Segui lo sguardo, dall’uomo a lei, come un filo teso fino al volto di lei che trattiene a stento l’affanno.
Ha il respiro corto. Stretto, fondo.
Se facesse più freddo vedresti forse le nuvole di vapore caldo uscire dal mantice delle sue labbra rosate e secche e schiuse adesso. Vorresti in quel momento, in modo quasi infantile, violentemente tutto quel freddo.
Lei passa la lingua lucida di saliva sulle labbra, fino a ridare loro lucentezza.
Tu fermi in quel preciso istante la vibrazione dell’uovo che ha nascosto nel suo sesso glabro.
Lei allunga un respiro, lo senti lento, il treno del metrò che scivola partendo sulla gomma. E allungandosi si stende e poi si perde.
“Perché non prendi il nastro e non ti leghi i capelli ?” le dici con dolcezza.
Carezzi il viso di lei, chinandoti, sfiori con la punta di due dita, giocandoci, il suo labbro.
Lei morde il dito e lo bagna di saliva, poi, quando esce ti sussurra sorridendo.
Lo dice piano. La voce è dolce ed è solo un velo caldo.
“Bastardo…”





 

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