Lui la chiamava zarina, da sempre.
Dall’inizio dei loro giorni.
La chiamava così anche se la storia della giovane donna era un po’
diversa da quella che quel modo di chiamarla poteva lasciare pensare, e
nessuna parentela, nemmeno indiretta, la legava ai Romanov. Il fatto di
chiamarla così era nato quasi per gioco, la prima volta che lei si era
concessa ai suoi baci, dopo aver giocato per un giorno intero col
desiderio dell’uomo, avvicinandosi e allontanandosi per saggiarlo.
Aveva marcato con quel bacio fatto tanto desiderare e dato solo al
momento del commiato, mordendogli le labbra dal desiderio, i ruoli.
Prima ancora che la loro coppia clandestina trovasse la luce e li
portasse ad essere amanti.
Lui, ufficiale di cavalleria, in quei giorni in congedo non permanente
dal servizio effettivo, avuto per le ferite ricevute nella guerra contro
i villaggi ribelli della Siberia e poi contro il Giappone, e i meriti
conseguiti in battaglia.
Lei, di famiglia nobile ma decaduta per i disastri delle borse europee
della seconda metà del secolo precedente, educata grazie a un saggio
deposito fatto dalla nonna materna e amministrato dal notaio Lutcenko di
Berlino nei collegi svizzeri e poi, come si confaceva alle ragazze di
ottima famiglia, a Berlino. Nessun lusso o quasi, ma le migliori scuole
per una giovane nobile di antica casata, capace di parlare correttamente
il francese senza alcun accento e, con gli abiti migliori, serbati con
cura, capace di apparire in pubblico, fermando e catturando sguardi e
sospiri. Suscitando mille domande su chi fosse e contemporaneamente
mille desideri, e pensieri rapaci di matrimonio, o altro, nei giovani
dell’aristocrazia russa e mitteleuropea.
Viziata nell’essere esigente, e resa difficile di gusti, e assai
esigente, dalla cultura ricevuta e da un senso innato dell’ironia, assai
più che dalle ricchezze che la famiglia aveva perso ben prima della sua
nascita. E di cui non godeva se non nei racconti e nei ricordi di chi la
circondava evocando anni di ricchezze da fiaba.
Poi, a volte succede, che i capovolgimenti non necessariamente debbano
essere negativi. Alla morte di lontani parenti, sua parente a dire il
vero dei due era la moglie , morta sei anni prima del marito di mal
sottile, tornò a essere proprietaria, per eredità della coppia sterile e
senza altri congiunti, tra i beni di famiglia, dell’antica villa di
campagna e di una palazzina San Pietroburgo, proprietà di famiglia che
erano divenute loro, per assi ereditari contorti e un poco pilotati
dall’ingordigia e dalle astuzie di notai compiacenti, molti, molti anni
prima.
La villa, la palazzina appena in collina nella capitale, e due depositi,
in denaro e titoli. Uno in una banca di Zurigo, che con la guerra fu poi
provvidenziale, pochi anni dopo, e uno alla filiale del Banco di
Lisbona, nella capitale, che le permisero di cambiare quasi
istantaneamente livello e condizioni di vita.
Non avevano avuto molto tempo per pensare.
O per rendersi conto dell’attrazione che era nata in entrambi
all’istante, quando furono presentati e si trovarono da soli quel
giorno, poco dopo. Lei si fece portare per la città, la giornata era
ricca di un bel sole, per ore. Si annusarono parlando.
Percorsero vie del centro, passarono vicini alla costruzione gigantesca
e marmorea della stazione che nascondeva il vapore dei treni e le sale e
le enormi scalinate segnate dai passi di mille viaggiatori. Poi, nel
parco al centro della città, sui viali tra gli alberi, e lungo il fiume
stretto che lo attraversava, lei gli offrì il braccio, e lo sentì
fremere mentre sfiorava quello dell’uomo con la mano nel cingerlo ad
anello con il suo.
Indugiò apposta in quel contatto, aveva respinto ogni apparente
precedente approccio dell’uomo al contatto dei oro corpi con maestria, e
ora ne sentiva l’elettricità tesa solo sfiorandolo. Era stata una danza
di sguardi, avvicinarsi e poi sfuggire arretrando, come a volergli
insegnare che esisteva un posto dove stare.
E limiti e valichi che solo a lei spettava scegliere se, come e quando
valicare.
Poche settimane dopo diventarono amanti.
E lui, nella confidenza dei loro corpi nudi, scivolando con la testa tra
le cosce di lei, impadronendosi delle labbra gonfie del sesso della
donna, con la bocca sussurrò nella fessura umida e schiusa. La chiamò
sua dea, sua padrona, che era perso per lei e per l’odore di femmina che
lo inebriava.
Suo amore non osò chiamarla ancora. Poi baciandola e facendosi baciare
dal calore umido che tra e cosce la imperlava, la chiamò sua zarina.
Celarono per mesi e anni la loro relazione, persino il matrimonio che
celebrarono, in segreto, pur senza una vera ragione. Più che per
necessità, per gioco, lei nobile, figlia e nipote di principi, e lui
solo soldato di origine modesta, non cadetto di famiglia, senza
ricchezze né blasone, e per evitare di diventare vincolati in alcun modo
nel loro modo poco comune e ortodosso di vivere la loro passione, fuori
dai canoni della buona società e delle convenzioni. Anche per la natura
di molti loro segreti giochi d’amore.
Lei aveva trovato negli anni della scuola, a Berlino, uno dei libri
proibiti che una ragazza di nobile famiglia non avrebbe mai dovuto non
solo leggere ma nemmeno conoscere. La ristampa in francese di un romanzo
che suscitò scandalo da subito quando fu edito tanti anni prima, nel
1870.
La storia di Wanda von Dunajew e di come Severin divenne Gregor. L’aveva
letto con foga crescente, eccitata, scoprendo un mondo che le era
sconosciuto allora.
Poi aveva cercato vecchi scritti italiani, Boccaccio, Pietro Aretino e
romanzi semi sconosciuti di anonimi francesi.
Ma l’eccitazione provata leggendo del donarsi di Severin alla moglie
l’aveva marchiata, ed eccitata, più di qualsiasi successiva altra
lettura.
Gli regalò il libro, avvolto in una sacca porpora di velluto che aveva
ospitato un crocefisso quando era stata tessuta e portava i simboli
della chiesa ortodossa ricamati, la seconda volta che si videro.
Alla terza lui aveva divorato il libro e lei gli si concesse per la
prima volta, felice che lui non fosse fuggito dopo la lettura di ciò che
tanto la eccitava.
Fu così che cominciarono a vestire da subito il loro amore di giochi e
capricci che non potevano senz’altro esibire né rendere pubblici, nella
società in cui si muovevano le loro giornate. E la scelta della
clandestinità e del celare la legittimità della loro unione, il
matrimonio tenuto segreto, seppur voluto da tutti e due, vestì
ulteriormente di eccitazione e desiderio i loro giochi.
Fu alcuni anni dopo, nemmeno molti, il loro rientro dalla Turchia.
Che scoppiò la guerra.
E si incendiò l’Europa intera.
Avevano frequentato insieme i circoli menscevichi, pochi anni prima,
appena prima della rivoluzione del 1905, all’inizio più per gioco che
per sincera convinzione. A lei piaceva il fatto di poter indossare alle
riunioni pantaloni e camicie senza collo, da mugiko, un cappello piatto
a celarle i capelli e stivali da equitazione di foggia maschile, e
stupire tutti quando poi, tolto il cappello rivelava la sua natura così
fortemente femminile. In quelle riunioni di cospiratori si sentiva
libera come poche volte in pubblico aveva potuto, in un’epoca di
conformismo e convenzioni assai feroci. E poi lì erano davvero loro due,
vicini, nel covo della rivoluzione, e l’illegittimità loro era di un
caldo e bel colore.
Non c’era voluto molto perché la sensibilità di entrambi comunque li
avvicinasse assai profondamente, al di là del loro gioco iniziale, forse
persino un po’ infantile, alle idee del nuovo progresso sociale. Non
c’erano voluti mesi ma poche settimane, perchè scoprissero che si poteva
vivere con gioia e senso di libertà e liberazione persino quel gioco
pericoloso del tessere di nascosto sogni di rivoluzione.
E che il sentire dentro ideali comuni e condivisi, desse fiamme in più
persino al cuore.
Lei si era innamorata del sogno del suffragio femminile, delle battaglie
cominciate in altri paesi, dove le donne potevano reclamare diritti che
nella Russia dei Romanov anche dopo la concessione del parlamento, erano
negati di fatto a buona parte della popolazione.
Nel circolo che frequentavano, allo scoppio del conflitto mondiale, uno
dei più roventi oratori era un giovane, dagli occhialini da professore e
dalle chiome simili alla criniera di un leone.
Faceva Lev, cioè Leone di nome, ma probabilmente era soltanto un caso
che unisse nome e criniera in un persona sola.
Non sapevano all’epoca che importanza avrebbe, quel giovane così
pungente ed arguto, successivamente avuto dirigendo militarmente
l’insurrezione e la rivoluzione.
Era perennemente un poco oltre alle convinzioni del segretario
menscevico del circolo, parlava di qualcosa che doveva andare al di là
della parvenza di democrazia stessa appena ottenuta da dieci anni soli,
parlava dell’abbattimento dello zarismo, della fine delle vessazioni per
gli operai e i contadini e i popoli non solo della Grande Madre ma del
mondo intero.
Della fine del macello di corpi e vite che la guerra aveva scatenato, di
un’unica lotta e insurrezione mondiale, tutte idee che ai due amanti
erano sembrate sogni di conquiste meravigliose, degne della vita,
missioni difficilissime ed epocali.
Ospitarono nella villa in campagna tre fuggiaschi bolscevichi entrati in
clandestinità, e ricercati dalla polizia.
Per molti mesi.
E si tennero nella villa ben celate riunioni segrete cui parteciparono i
membri del loro circolo che erano divenuti tutti tranne il segretario
bolscevichi.
Bruciarono di mille passioni in quegli anni e anche la loro trovò
materia di incendio ulteriore. Tutto sembrava accelerato,
irrinunciabile, improcrastinabile.
Nel progettare scioperi, scrivere comunicati per i soviet delle
fabbriche, ormai illegali, e nel vivere il loro amore ogni giorno con
maggiore intensità e senza conoscere tra loro barriere di pudore.
Amarsi quando sembra che il mondo debba finire il giorno dopo ha di
sicuro un sapore del tutto unico e particolare.
Vi furono notti in cui non accettarono il sonno fino al mattino per non
perderne un minuto o un’emozione.
Altre in cui nella paura che il mondo davvero potesse finire e crollare
forzarono i loro giochi fino a limiti sempre nuovi, valicandoli e
superandoli poi la volta dopo.
Come se amarsi fosse una corsa, una sorta di salita, di ascensione mutua
e condivisa, e un percorso infinito verso la totalità assoluta del darsi
e dell’aversi.
Nulla bastava a lui per dirle la profondità di oceano del suo sentire.
Nulla bastava a lei per dirgli di quanto lo volesse, e lo volesse suo, e
capisse che anche attraverso la via del dolore che gli donava, parallelo
al piacere, gli permetteva di dirle quanto lui la amava e gli dicesse,
lei, quanto amava lui. Lei lo legò, batté il suo corpo, le braccia di
lui alte sopra la testa contro un muro.
Leccò i segni rossi sulla schiena con la lingua e poi si sedette in
grembo alla sua eccitazione, sapendo che ad ogni spinta del suo ventre
contro quello dell’uomo, se d’un canto lui le affondava dentro,
godendone, e lei lo avvolgeva, dall’altro la schiena di lui urlava di
dolore.
Si ubriacarono così senza nemmeno usare alcun alcool o alcun bicchiere.
Lei amava cavalcarlo, amava tormentargli il petto, con le dita serrare e
guidare, con le unghie farlo inarcare e sentirlo come impazzire sotto di
lei, e ad ogni sforzo o sollevarsi di reni, ad ogni scarto a lato
imposto dal dolore sentire crescere in sé il piacere e leggere sul volto
di lui lo specchio del piacere, avvicinarlo come guidandolo
all’esplosione. Sapeva coglierlo.
L’istante dell’esplosione del suo amante.
Nel chiudere di lui le palpebre, nel respiro che si faceva differente,
nella frenesia che lui non controllava più e lo portava a spingere in
modo disperato verso l’alto, per sentirsi perso dentro di lei, un sesso
solo, non più due, nemmeno nelle percezioni delle mucose.
Corsero così giorni e notti.
Mentre il mondo bruciava e loro vivevano in perenne accelerazione.
Quando un giorno, era mattina presto e lui era lì per caso, quel
mattino, arrivò il messo a portargli la missiva, nel suo appartamento di
città, dove simulava una vita solitaria. Perché si presentasse,
ufficiale di cavalleria, veterano richiamato, al battaglione mentre la
guerra stava precipitando e il paese cominciava a morire per la fame e
lo zar reclamava lo sforzo di tutta la nazione fino all’ultimo contadino
a all’ultimo soldato. Tutto finiva indirizzato allo sforzo bellico,
uomini, cavalli, animali e cibo. Acciaio e tessuti.
L’intero paese era in ginocchio e alla fame.
Al pari di mezza Europa.
Ogni settimana la polizia segreta arrestava bolscevichi o presunti tali
e ogni atto repressivo, carcere e esecuzione comminato loro, veniva
enfatizzato dai giornali schierati a favore della guerra per scoraggiare
gli emuli dei rivoluzionari.
Quando giunse la missiva che lo richiamava si trovarono nella casa di
lei nella capitale.
Discussero, per pochi giorni, fecero molte volte l’amore, con sempre
maggior rabbia, furore e disperazione. Come se dovessero accumulare
qualcosa senza farsene scappare nemmeno una goccia, una briciola, una
piccolissima sensazione.
Poi presero, insieme, una decisione.
Di notte scapparono nella villa in campagna. Del loro matrimonio rimasto
segreto si fecero scudo, nessuno lo avrebbe cercato lì e non sarebbe
stato il primo bolscevico a diventare clandestino per non essere carne
da cannone. Lei lo nascose nella cantina sottostante le stalle, dove
avevano ospitato i tre fuggitivi l’anno prima.
Sopra Princess e Katrina, le due puledre a fare la guardia, non sopra
l’assito della cantina, il rumore avrebbe potuto tradire la presenza
della botola, ma poco distante, nel box. Al suolo paglia e terra, la
botola era invisibile anche di giorno.
Lì lui trascorse alcune settimane senza mai uscirne, all’inizio.
Lei lo raggiungeva col primo buio, apriva la botola e scendeva la scala.
Lui appena sentiva il rumore dei passi sopra il soffitto in legno e la
polvere cadeva su di lui sotto, spegneva la luce a petrolio che usava
per leggere, scrivere e vederci, giorno e notte. Era l’unico momento, lo
spegnimento della lampada in cui l’odore del petrolio spento ma caldo si
rivela più secco e forte e avrebbe potuto tradirlo. Imparò a bagnarsi le
dita di acqua o con molta saliva, e serrare lo stoppino rovente prima di
richiudere la lampada per celarne l’odore di petrolio. In ogni caso
altre due lampade ardevano notte e giorno sopra la cella sotterranea per
coprire le tracce di quella sottostante che lui usava.
Lei poi, scesa dalla ripida scala, aiutata e sostenuta dalle mani di lui
che si infilavano golose sotto la gonna o sostenevano il culo con le
mani se indossava pantaloni, gli leccava le dita su cui il fuoco
ripetuto dopo pochi giorni aveva formato le piccole piaghe che con creme
e pulizia lui aveva già trasformate in cicatrici callose, ruvidi e
forti. Stimmate di martire clandestino, diceva lui e rideva.
Avevano trasformato, per rendere meno terribile e carica di paura
l’attesa del tempo che passava in quella cella, il loro tempo in mille
giochi. Lui era suo prigioniero, lì sotto. E loro esorcizzavano ogni
paura, lei fingendo di essere l’inquisitore che lo interrogava e lui il
prigioniero nelle mani avide e ingorde di lui della donna.
Altre volte lei gli ordinava il massimo silenzio, pena il poter essere
scoperti, era quello l’inizio del gioco.
E, nudo lui, non necessariamente sempre nuda lei, lo tormentava, piccole
torture con le mani che arrivavano ovunque, penetravano, aprivano,
giocavano, stringevano o facevano mille giochi anche il solletico o la
scrittura con le unghie di interminabili lettere d’amore sulla sua
pelle.
Per letto aveva fatto portare un vecchio sommier largo quasi una piazza
e mezzo, per coperte tessuti di lana e due pelli di agnello. In quel
letto, grande appena poco più di quello che avrebbe usato un uomo solo
dormivano e si amavano strettissimi.
Spesso lui, per permettere il sonno alla sua zarina e non farla cadere o
non svegliarla vegliava desto, guardandola nel sonno.
Se lei si svegliava gli sorrideva vedendolo così, e gli diceva
stiracchiandosi e inarcandosi la schiena, aderendo al suo corpo,
provocante e provocandolo, pube contro pube, ancora a metà nel sonno
“l’hai fatto ancora di guardarmi mentre dormo, confessalo…”
A volte lei scendeva anche di giorno.
Con la complicità di Piotr e della vecchia madre di lui, che la curava
da anni, e che ormai era così vecchia da non poter più fare nulla in
casa se non vivere. E biascicare nella bocca quasi sguarnita ormai di
denti parole incomprensibili in merito ai due amanti quando li scorgeva
perché dimenticavano una porta aperta e stavano giocando. Parole che
tradivano il loro senso gentile e complice, nel sorriso dolce delle
gengive ormai orfane di denti.
Lo presero dopo poco più di un mese.
Quando ormai la sensazione di sicurezza e di averla fatta franca lo
portò a uscire giorno dopo giorno sempre più allo scoperto. E più a
lungo.
O forse nemmeno questa malintesa sicurezza fu a tradirlo, quanto la
sensazione fortissima che qualcosa stesse precipitando e la rivoluzione
avesse bisogno anche di lui.
Lo fermarono a un posto di blocco, truppe zariste sbandate, sulla strada
verso i sobborghi industriali della capitale. Vestito da civile, con le
sacche del cavallo piene di stampati clandestini che chiamavano allo
sciopero generale.
Voci non confermate parlavano di una insurrezione, a bordo della nave
Aurora.
Correvano sottoterra, le voci, portate dal vento e dai fantasmi.
Marinai bolscevichi avevano preso possesso della nave da guerra e
gettato a mare o fucilato gli ufficiali che avevano ordinato alle
guardie di aprire il fuoco sugli insorti. Dicevano, le voci dei
fantasmi, che le guardie avessero rivoltato le armi verso chi li aveva
armati aiutando così gli insorti.
Lo catturarono a meno di mezz’ora di cavallo dalla fabbrica che comunque
era entrata in sciopero anche senza i suoi stampati. Senza aspettarlo.
Una piccola pattuglia mista di fuggitivi, sei Ulani e cinque Cosacchi.
Allo sbando e in attesa di rapinare ignari viaggiatori, probabilmente.
Preparano con una corda di canapa il cappio che appesero al noce che
cresceva in mezzo al campo. A riconoscerlo fu l’ufficiale che comandava
gli Ulani, e a nulla servì il suo negare di essere se stesso quando
scoprirono gli stampati del soviet nelle sacche.
Portarono il cavallo, dopo averlo legato per i polsi dietro la schiena,
e a nulla valse il suo tentativo di scappare e anche quello di battersi.
Infilarono il suo collo nell’asola di corda e iniziarono a ridere.
Puzzavano di alcool, probabilmente avevano cercato con l’alcool di
coprire l’odore della paura per quello che nella città e in tutto il
paese, nelle fabbriche e persino nelle caserme stava succedendo.
Fu uno dei cosacchi a tagliare la corda mentre già lui iniziava a
scalciare l’aria dopo che l’ufficiale Ulano aveva colpito il cavallo
facendolo scappare e lasciandolo appeso all’albero. E fu come un
segnale. A vincere la paura, per gli altri cosacchi.
Lui cadde al suolo, ferendosi alla schiena e iniziò a tossire, vomitò
bava e sangue.
Cercò di respirare, di riempire nuovamente polmoni e petto di aria. La
corda ancora stretta gli rese difficile il riuscirci, sentì il costato e
i polmoni dolergli in modo fortissimo quando finalmente si riaprirono e
riempirono il suo petto di aria, ancora, finalmente. Aveva una larga
macchia, fradicia, di urina sui pantaloni di fustagno, segno dell’inizio
del soffocamento.
I ribelli cosacchi ebbero ragione in fretta dei loro compagni rimasti
fedeli all’ufficiale Ulano e degli Ulani stessi. Lo sollevarono dal
suolo, sciolsero finalmente il cappio che aveva segnato e lacerato,
scavando pelle e carne, il collo dell’uomo, la cui camicia si riempì
all’istante e segnò di sangue.
Poi lui disse dove portarlo.
Lei urlò. Subito dopo, senza nemmeno accorgersene, pianse.
Lo strinse a sé e lui nemmeno ebbe il coraggio di dirle del male che
sentì nella forza di quell’abbraccio sul corpo pieno di lividi, per la
caduta e il principio di soffocamento, e gli spasimi al costato che
aveva avuto, violentissimi.
Lo tradì il gemito che gli sfuggì, e lei lo carezzò scusandosi, dandosi
della stupida, baciandolo con una dolcezza così delicata, quasi avesse
capito quanto lui in quel moneto fosse fragile e temesse anche con un
bacio di poterlo rompere.
Il medico la sera stessa pulì e disinfettò le ferite del collo.
Ne cucì le lacerazioni, unì i lembi della carne e della pelle strappati
dalla corda, disse che sarebbe rimasta una cicatrice molto visibile e
molto netta. E che sarebbe stata tonda , un collana rossa porpora di
pelle irregolare, mal celabile anche sotto il colletto persino della
camicia più alta e stretta. Una specie di segno a vita di quell’appendimento.
Fu difficile per lei nella città insorta e nella vittoria bolscevica
trovare Jacob, l’orafo che le aveva venduto sia le posate d’argento col
monogramma che i monili in oro e argento, realizzat appositamente per
lei, negli anni precedenti.
Nella bottega lui preparò così un nuovo gioiello.
Un grande anello di argento, in lega tale da non temere ossido. Una
mescola alchemica disse sorridendo con aria complice alla giovane donna.
Andarono insieme, lei a fargli un dono e lui a riceverlo.
Il mese dopo, quando l’oggetto fu pronto.
Tondo da avvolgere tutto il collo, preziosamente inciso, con un
fermaglio e alto abbastanza da nascondere cicatrice e segni.
La fascia di metallo era bellissima, piatta e liscia dove avrebbe
sfiorato la sua pelle. Proteggendolo e celando la grande cicatrice che
lo deturpava e faceva volgere turbato e imbarazzato lo sguardo a chi gli
stesse parlando di fronte, viso a viso, umiliandolo nel vederne
rifuggirne la vista ogni volta. Era cava all’interno, la fascia.
Poi si faceva leggermente tonda ai bordi della striscia, alta circa due
centimetri e piatta, e si trasformava in triangolo, col vertice a
correre sollevato dalla base, di poco, tutto intorno al collo, come un
monile, celando quasi perfettamente ogni traccia deturpata e rossa.
All’interno della fascia, dove avrebbe battuto sulla pelle, e sulle
tracce della ferita, lei aveva fatto incidere il suo nome, facendo
copiare da un foglio esattamente la sua firma.
Lui si emozionò quando lei, preso il monile dalle mani dell’orafo glielo
porse e gli mostrò la firma.
“Così mi avrai sempre con te quando la indossi, lo saprai tu, e solo io
e te conosceremo la ferita che tu porti e io nascondo e proteggo” e lui
sentì nella voce della donna un’emozione incrinarla, così simile alla
propria.
Poi, inatteso, lui fece una richiesta all’orafo.
Di chiudere in modo indissolubile, saldandolo, il cerchio ricevuto in
dono da lei e che ora si era portato e messo al collo. Trasformarlo da
semplice monile in segno che non sarebbe stato possibile togliere o
celare se non tagliandolo.
In pegno, e in simbolo, ma questo non lo disse. Non all’orafo che non
era problema suo saperlo, né a lei che non aveva bisogno alcuno le
venisse detto per saperlo e capirlo.
L’orafo ebbe solo un attimo di esitazione e di imbarazzo, poi gli disse
che avrebbe dovuto stare fermo per evitare il rischio che lui lo
bruciasse saldando il fermaglio in modo permanente. E che sarebbe
costato 30 marchi tedeschi, aggiuntivi, che lui non voleva nemmeno
sentirne parlare dei rubli, dopo che i bolscevichi avevano distrutto il
paese, per la nuova modifica al suo lavoro.
L’uomo e la donna si guardarono negli occhi, mentre l’orafo ignaro
offendeva gli insorti e il nuovo governo dei Soviet, incerti se reagire
e come. Poi risero.
L’orafo Jacob saldò la collana trasformandola.
Lei cercò con le dita, sottili, infilandole nello spazio stretto, tra
collo e collana, la sua firma, incisa, e la lesse sottovoce, scorrendola
coi polpastrelli. Un attimo solo, prima di accostare il volto di lui al
suo, guidandolo a sé, con le dita tra collo e cerchio.
Proprio solo un istante prima. Di baciarlo.
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