Potrebbe essere la storia di un sogno. O il delirio di una notte che
l’uomo aveva bevuto troppo con gli amici.
Si addormentò sul divano, nella notte che apre il giorno alla primavera.
Loro erano andati via. Da tempo. E lui ostinatamente rifiutava il sonno.
O almeno così credeva. A che ora crollò non lo seppe nemmeno il giorno
dopo. L’ultima volta che guardò l’orologio digitale sulla mensola della
libreria scattavano i minuti, o forse su solo una impressione. Le 23 e
33 divennero le 23.34. Forse fu su quel 34 appena scoccato che crollò.
Dormì. L’alcool che circolava nelle vene si fece anestesia. Torbato e
Metaxa non si sposano bene.
All’inizio nemmeno si accorse di dormire. Sfido chiunque ad accorgersi
del punto di confine.
Eppure c’è, ci deve essere, perché o sei sveglio o dormi. O pensi o
sogni.
Oppure no?
A lui era anche già successo anni prima, forse la colpa era proprio del
divano.
O cambiava quel divano o cambiava lui, ma questa, forse, è un’altra
storia ancora.
Ma fu così, anche la notte tra il 20 e il 21, quando inizia primavera e
sei ubriaco non solo di alcol.
Il divano era più corto di lui, alla testa e ai piedi era duro, sotto
l’imbottitura urlava il legno. Lo conosceva. Faticò a prendere la
posizione, si rannicchiò, si stese, accavallò le gambe, le distese. Poi.
Poi fu.
Sentì quei nodi. Un polso, l’altro. Poi un piede. Sentì la mano
allargargli le cosce e poi prendere possesso dell’altro piede. La mano
scendere tra culo e cazzo. Si mosse nel sonno, cozzò contro il legno del
telaio. Era legato.
Aperto, oscenamente nudo.
Sentì la mano. Scivolargli dalla gola lungo il ventre. Voleva aprire gli
occhi ma non lo fece. Sentì la corsa dentro i nervi, la sentì smuovergli
i muscoli del ventre, serragli prima lo stomaco poi l’intestino. Si
contrasse. Si inarcò nel piccolo divano, quasi fosse una crociera. La
testa gli girava, forse era l’alcol, in ogni caso non era in grado di
porsi domanda alcuna. Dormiva.
Nessuno si accorse che gemeva, era solo nella sala. Sentì le mani
risalire, serrargli i capezzoli, prima piano e poi con forza. Dita
forti, magre e sottili, le unghie le sentiva, appena un po’ appuntite, e
perfettamente lisce ai bordi. Le immaginò nere.
Sentì la stretta crescere e il suo corpo sollevarsi come se quelle mani
fossero una calamita. Le sentì salire, lasciando una scia di calore, e
la fame di un contatto, senza che un qualsiasi contatto la potesse
lenire. Le sentì entrargli in gola. Prima piano, quasi per caso. Poi
senza freno, limite o pudore. Leccò le dita. Sapevano di tabacco,
dell’odore del suo sesso e di quello di lei.
Le succhiò fino in fondo alla sua gola. Aveva fame, se ne accorse solo
allora. Quando furono a fine corsa ebbe come un conato, ma non le
respinse nemmeno allora. Aveva bevuto troppo, si disse, quasi uscendo
dal sonno e risvegliandosi con quell’urto che saliva dalla gola. Che ore
fossero non è dato saperlo, ma dalla finestra sulla strada, dal pavé che
di giorno urlava, ad ogni macchina che lo batteva, non saliva alcun
rumore. Era notte fonda. Oppure era solo lui che nel sonno non sentiva
suono alcuno.
Poi un’auto, due, la pietra sotto le ruote. Quasi si svegliò.
Cercò di muoversi infastidito dal rumore, non voleva essere tirato fuori
dal suo sonno, cercò di girarsi sul lato, accomodarsi meglio. Ma si
accorse che non ci riusciva. Era legato. Fu allora che sentì la mano.
Dapprima una carezza, morbida, lenta. Poi cambiare voce alle sue dita.
Sul viso, aperta, piatta, secca. Una volta, due, tre e poi di nuovo a
correre a bagnarsi oltre le labbra, nella gola, violandogliela. Non si
svegliò nemmeno allora. Le dita le tremavano, le sentiva.
Le dita a volte conoscono un loro orgasmo.
Al mattino, l’uomo credeva ai sogni e anche alla magia, non del tutto
però agli oroscopi, cercò una traccia, una qualunque. Che gli dicesse
che la donna non era stata un sogno, che era arrivata da chissà dove e
chissà dove era andata via. Trovò solo i cuscini del divano, a terra,
nessun laccio alle caviglie o ai polsi, nemmeno sotto il divano dove si
inginocchiò a vedere. Aveva qualche dolore, sì, ma quel divano era
scomodo davvero. Si rassegnò all’ipotesi del sogno e scartò quella della
magia. Andò al lavoro, con la testa che per l’alcool gli pesava ancora.
La donna al bancone del bar, sotto casa, che gli porse il caffè gli
sorrise come gli sorrideva ogni mattina. Capelli neri, corti, un bel
sorriso come sempre.
Nella tasca dei jeans lei aveva quattro lacci di cuoio neri. Infilati di
corsa, mentre sistemava le tazzine del caffè sulla macchina a scaldarsi,
prima che lui arrivasse e le chiedesse un croissant salato, come ogni
mattina. Sorrideva.
Avrebbe potuto riconoscere le unghie. Il tremito delle dita nel
porgergli la tazza.
Ma era di corsa e l’alcol nella testa ora lo devastava.
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