Mosca cieca
Lei non sapeva.
Non poteva sapere.
Non doveva sapere.
Ma soprattutto non voleva sapere.
Di chi fossero le mani. E di chi la bocca.
Chi fosse che la stava aprendo con le dita, come si allarga una ferita, con
calma e decisione, sul lettino prima della sutura. Chi avesse dilatato le labbra
fino a farne un orlo, prima di suturarla salendole a riempirle il ventre.
Chi le stesse tenendo i polsi saldi sopra la testa sul grande letto tondo nella
stanza buia. Tendendole i seni in quella posizione. Prigioniera.
Non sapeva di chi fossero le voci. Sottili, quasi sussurrate come se fossero
all’ombra di una chiesa.
“ tienila stretta ora”
“ lasciami avvicinare, voglio toccarla, io…”
Di chi fossero i fianchi che sentiva a sinistra e a destra posati, poi scostati,
poi ancora a sfiorarla o spingere, aderenti ai suoi che si scopre così sensibili
ad ogni alito di pelle, docili e imprevedibili come i sussulti del materasso
sotto. Né dove e con chi fosse Andrea.
Se una delle mani fosse la sua. Quelle sul seno, bizzose sui capezzoli, quasi
crudeli a volte, o una di quelle che sente salirle lungo il ventre.
O sua la bocca che dopo aver leccato un capezzolo con cura certosina ora tra i
denti lo stringeva. Con la lingua a schiacciarlo, comprimerlo, in punta. Calda e
dura. A spremere dal capezzolo il grido che le saliva dal fondo della gola.
Dall’entrata nella stanza buia, nemmeno dopo un’ora, ancora riusciva a
distinguere altro che ombre nere su uno sfondo di pece, un’oscurità così oscura
da far vivere in tutti gli altri sensi la cecità di un pomeriggio nuovo.
Al buio, drappeggiato da un doppio tendone di velluto che frena vista, udito,
nega i sensi più rassicuranti. Lì lei aveva perso senso, cognizione e
misura. Prospettive e pudore.
Chi?
La testa scivolava sulla domanda.
Ma soprattutto perché sentiva la sua testa andare via. Come se non avesse
dimensione alcuna la stanza e non vi fosse alcun tempo a scandire i minuti
nell’orologio lasciato nell’armadietto, chiuso nella borsa. Non vi fosse
soluzione di continuità alcuna tra mani bocche e corpi.
“Ti porto a giocare a moscacieca” le aveva detto Andrea la settimana
precedente. Ridendo.
Lei si era detta che era proprio matto. Sapendo che quella parola, matto, era
colma di calore, sapore, odore e desiderio, anche solo a pensarla, riferita a
lui.
“Mettiti come piace a me” aveva detto il matto mentre lei usciva dalla
doccia per vestirsi e uscire quel pomeriggio. Mettiti come piace a me, lei aveva
riso pensando a come un paio di calze intraviste, un reggiseno che spingesse a
fare capolino il seno o una gonna capricciosa che svolazzava un po’ troppo
quando lei allungava il passo, bastassero a dare a lui stimolo per eccitarsi
all’istante. Aveva scelto con cura, era un gioco questo a cui era avvezza, il
suo abbigliamento.
Bocche mani e corpi adesso. Con gli abiti riposti con cura nell’armadietto
all’ingresso.
Salive che la lasciavano strisciata di baci, e carezze infinite. Che le
scavavano i nervi, improvvise.
Morsi, corone di denti e strisce di saliva.
Che facevano rabbrividire ora il fianco, due lingue a lambirla salendo
contemporanee sotto, fino alle ascelle, con quel cazzo che la colmava. Qualcuno
stava leccandole il fianco con meticolosità bagnata e la dipingeva di calda e
umida saliva.
Sapeva che sotto la lingua l’uomo, o la donna, per quel che ne sapeva e che
sentiva quella lingua superava i limiti del sesso, poteva perfettamente cogliere
il rabbrividire della pelle, la pelledoca che anticipava, schiava fedele della
striscia bagnata che la percorreva.
E che alla luce sarebbe stata lucida e densa la scia che, al contatto con
l’aria, da calda, subito raggelava.
Il fiato che sentiva addosso, cacciato nell’ansimare da bocche sconosciute per
appartenenza e numero, e capriccio nel toccarla, era come una carezza di aria
calda, un getto di phon umido, insinuante.
Carezza avvolgente, frastagliata, ripetuta, moltiplicata e replicata da più
bocche, possessiva.
Sentiva il fiato sulla pelle prima ancora del posarsi delle labbra e della
lingua. Un anticipo estenuante.
Staccarsi e posarsi. Lambire. Darsi. Per poi scomparire, alito come vento
rubato, e ritrovarlo inatteso a lambirla un attimo dopo alla caviglia. Poi
all’interno della coscia.
“Non sarà necessario quel foulard che ha al collo per giocare a moscacieca
Martina.”
“Dipingerò di nero pece il mondo intorno, benderò tutto per lasciare a te la
voglia di forzare gli occhi aperti nell’impossibilità stupenda di vedere
attraverso essi”
“Fidati, vedrai il mondo con la pelle”
Poi erano saliti in auto, lei seduta un poco tesa – chissà cosa ha in mente
oggi il matto –
Lui, percependo gli interrogativi non espressi le aveva posato la mano
dolcemente sul ginocchio, facendo correre le unghie leggerissime sulle calze”.
Lei aveva sorriso alla carezza e l’auto era scivolata verso il loro
appuntamento.
Quattro mani che la sollevano, rivoltano senza fatica. Il cazzo, è entrato poi
uscito, quante volte lei ha perso né ha tenuto il conto,ora le è dentro, sempre
lo stesso o no, lei non lo può sapere, né lo vuole sapere. Risale senza alcun
preavviso.
In ginocchio sul letto ora. Le mani e le ginocchia a reggerla, offerta come un
animale.
Mani che le afferrano i capelli, legati da un sottile nastro di velluto nero in
quella piccola capricciosa coda che le da l’aria da ragazzina che Andrea ama
così tanto, e le sollevano la testa.
La fanno stare alta, quasi reclinata indietro. Devono essere le mani dell’uomo
che ora sta scivolando dalla fica al culo. Che scia di umori di Martina quella
piccola terra di nessuno, scivola come la punta di un pennello fradicio a
risalire quei centimetri sensibili e pulsanti dove lei tra due bersagli è
chiusa. Scivola lenta per poi puntarsi alla rosa stretta e serrata..
La testa è tirata indietro, come il capo di un cavallo tirato a fermarsi dal
morso, il collo quasi torto un po’ di lato. Testa ribelle che si fa doma,
protesa.
La gola offerta a quelle bocche che baciano, leccano succhiano le vene del
collo, quasi a cercarne il caldo del sangue che pulsa e gonfia e corre sotto la
gola, l’incavo delle spalle, la nuca.
L’attaccatura matura e larga dei suoi seni.
Stretti ora con forza, il palmo di due mani a nascondere sotto di sé i capezzoli
e le dita a raggiera. Sembrano mille dita ora. Una coppa.
Una punta calda, con quell’odore inconfondibile che ha la prima goccia affiorata
in anticipo solo per voglia, che sente posarsi a forzarle la bocca, che si fa
strada dilatandole le labbra –lei sta solo attenta a non ferire coi denti ma si
lascia prendere così, passiva - come se fossero bocca e labbra schiuse un sesso
rosso. Da penetrare con cura. Rubandone il rossetto nello scivolo, macchiandosi
di rosso.
La gola piena, quel movimento inatteso e a fondo che la fa quasi soffocare,
prima di poterlo governare con lingua e labbra.
E le mani, tante mani, infinite mani, inarrestabili mani.
Dolci e rudi, ferme e in risalita, calde alcune, nervose o morbide come lumache,
coi polpastrelli che sembrano cavi elettrici sulla pelle o con le unghie a
solcarle impercettibili i fianchi altre, a trasformarle su tutto il corpo ogni
centimetro di pelle in fica.
Martina suda.
Suda come se fosse agosto. E lei fosse al mare in una giornata di scirocco
dispettoso.
Suda con tutto il corpo, sente il sudore scivolarle, solleticandola
nell’imprevedibilità e irregolarità della lunga goccia che si condensa, accresce
scendendo e si dipana lungo i seni. Fino a fermarsi un attimo a lambirle e
carezzarle un capezzolo, prima di cadere sul copriletto.
La pelle pulsa come se fosse ogni centimetro del suo corpo fatto di umida e
gonfia, turgida, mucosa.
La testa vola via.
Il corpo suona. Mille melodie, scomposte, scoordinate e indipendenti, e riunite,
per prodigio, in un piacere solo, sotto la guida di un’intera orchestra.
Nella camera buia ora c’è odore forte.
Di corpi e di sudore. Di sesso caldo e sfregato, odore carico di sessi svuotati,
di umido animale e di calore.
Sul grande letto tondo nella stanza scura del privè.
Una quindicina di corpi si sono trovati e fusi in una macchina che pompa e corre
e scoppia e si carica. Un’ameba mutante di gambe e braccia, un grande brulicante
e pulsante cuore.
Pulsa e contrae se stesso. Ad ogni ansimare.
La macchina umana di Martina e Andrea ora si scompone. Un venerdì sera.
Giocando al buio a moscacieca.
Una perfetta. Fotofobica, macchina del piacere.