Pushkar

 

 

 

 

 

 

Scagliata a spegnersi nel lago.
Deserto che apre il ventre all’acqua.
Non senti rumore di passi nelle strade, polvere fine che sollevi e cade senza rumore.

Non gira un motore nella città del lago sacro.
I palazzi, le case a degradare e spegnersi in riflessi capovolti.
Donne con orecchini d’oro, sottili catenelle che imprigionano l’orecchio al naso

e sembrano promettere catene d’amore su qualche letto di legno in una stanza

con le pareti dipinte d’azzurro a colpi forti e disordinati di pennello.
La vedi.
E’ bella.
L’età non saprai mai dirla.
Il sari scende e modella di volute il fianco, forte, marcato di donna.
Esce un ombelico disegnato sul ventre d’ambra, curvo di femmina, morbido da immaginare al tatto e al bacio,

ricciolo di carne che si avvolge e si sprofonda e si fa a scomparire delicata ombra.
Pelle d’ambra che reclama baci come se fossero non voluti ma dovuti.
Anelli al piede.
Le dita sembrano gioielli loro stesse, lunghe, serrate dalla veretta d’oro, nel sandalo di cuoio scuro.
Immagini il seno sotto il tessuto, seno giovane ma già largo di donna, di donna cresciuta in fretta,

capezzoli scuri e larghi di chi nasce per avere molti figli, da generazioni pronto ad accogliere e cullare le labbra e la bocca.
La donna, il capo coperto, capelli nero notte ad uscire dal velo a ciocche,

cammina e nell’incrocio ha quel fissare d’occhi che seduce ogni viaggiatore.
Guarda con lo sguardo diritto come se ogni sguardo fosse dedicato e mai casuale.
Come se avesse occhi forgiati apposta e ancora caldi di incudine fuoco e martello

e fatti apposta solo per quello sguardo in quell’istante.
Sembra lo sguardo promesso di una giovane sposa.
Sembra sia la sposa promessa di ogni viaggio.
Sposa da 10 dollari. Promessa generale generica e generalizzata nella sua veste di seta viola.
La camicetta chiara, quasi una maglia per la pelle, sottile e chiara di bucato, intravista sotto il sari che drappeggia.
Bella, mentre cammina nella via sterrata, attraversa la città, al lato in ombra, protetta dalla luce come si protegge una stella.
Il fianco danza e il culo scivola sui passi.
L’occhio del viaggiatore si perde e trascina con se pensiero e testa.
L’uomo si ferma al chiosco dove vendono la frutta.
Tratta con poche parole rituali l’acquisto di un piccolo cesto in vimini sottile intrecciato e qualche piccola banana.
Il tempo dell’acquisto e la giovane donna è già scomparsa.
Risucchiata in una delle case tutte uguali della via.
L’uomo la cerca con lo sguardo, indugia scrutare dove la via si stringe e più nera e celata si fa l’ombra.
La via è deserta ora, nell’ora che precede il tramonto.
Il viaggiatore si incammina verso la sponda alta del lago, il terrapieno verso la città nuova che lui attraversa,

città non proprio, villaggio colorato con vernici pastello forti alle pareti,

ogni casa un colore a farsi anch’essa folla variopinta nella via ora deserta.
Arriva al terrapieno. La sponda alta e degradante un po’ scoscesa verso l’acqua

e da lì coglie con il volgere dello sguardo attorno il cerchio rilucente metallico a quell’ora del lago

e, riflesso in esso, a corona, il cerchio rovesciato delle vecchie case fronteggianti, là sull’altra sponda.
Siede sul terrapieno e mangia il primo frutto.
Accogliendo il sole che scende e comincia a permettere al sudore sotto la sua camicia di trovare finalmente requie.
Scende la sera a Pushkar sul lago.
Le ombre nelle vie della città nuova alle spalle si allungano inesorabili, partono dalla casa a sinistra della strada,

scivolano lente attraverso e risalgono lambendo e leccando il muro della casa a fronte.
Ma l’uomo ha occhi solo per il lago.
Che si anima di colori cangianti e della sua magia di ogni tramonto in ogni notte incipiente

di ogni giorno di ogni mese di ogni anno.
Così da sempre o da quando la memoria abbia testimonianza.
All’imbrunire, le ombre ormai si sono fatte un’ombra sola che ammanta tutto,

lenzuolo steso a ricoprire l’orizzonte e nel silenzio del tramonto i primi suoni.
I canti.
La gente.
Scende senza regola né prevedibile flusso.
Dalle case della città vecchia al lago.
Donne soprattutto. E uomini e bambini. Scenario di un teatro, macchie piccole e colorate in moto verso l’acqua.
E le voci e i canti sembrano nascere dall’acqua e non dalle loro gole.
L’uomo ripone la buccia della banana appena mangiata nel cesto di vimini intrecciato,

guardando il fiume umano che sfocia nel lago.
La buccia, l’uomo guarda solo il lago, cade fuori.
L’uomo sente allora, inattesa,sulla sua, una mano.
Ambrata e con le dita lunghe e affusolate, chiare sotto le unghie.
La mano ha la buccia e gliela porge perché vada nel cestino che l’uomo non aveva mirato.
Sente il contatto con la mano che porge e volge il viso.
Gli occhi sono belli. Castani chiari. La pelle d’ambra evidenzia l’oro della piccola catena.
Tra orecchio e naso.
Sembra si offra la catena e chieda di essere tenuta lievemente tra le dita, anellini gialli microscopici

e due anelli serrati chiusi e saldati alla narice e al lobo.
Sembra promessa di resa e di possesso offerto, tienimi e trattienimi, portami via…
La ragazza è in piedi ora, l’ombelico d’ombra ambrata all’altezza del viso dell’uomo seduto a terra.
Occhio di carne offerto agli occhi, poco distante dalle labbra e dalla bocca.
Il sari a fasciarle ed evidenziare il fianco di donna.
Il piede calzato, l’alluce stretto solo dall’anello in cuoio del sandalo e al penultimo dito

e a quello a fianco, una vera d’oro piccola, sottile piatta e lucente per la carezza della polvere e del tempo.
La ragazza sorride al viaggiatore.
Lo sguardo fisso nello sguardo, come se l’occhio toccasse, sfiorasse, fosse carezza insistita e non guardasse solo.
L’uomo si accorge, stupito, di aver lasciato cadere la buccia ma di non aver mai lasciato poi libera la mano della donna, dopo.
La mano non lascia la mano e la donna scivola la sua danza e si siede.
Siedono vicini ora, al buio della prima notte.
Il lago ha luci di lanterne che danzano sull’acqua.
Fiamme di torce che alzano luce e fumo nero.
Nenie e canzoni incomprensibili volteggiano a spirali,raggiungono a tratti anche quella sponda,

onde di voci smorzate a tratti nell’aria.
La folla in acqua celebra il suo rito della nascita e della morte, prega la vita in un lago incastonato per scommessa contro il sole e trionfo della notte nelle sabbie rosse del deserto.
L’uomo in bermuda cachi e la ragazza col sari viola celebrano un’ora dopo il rito di un amore consumato in poche ore.
In una stanza piccola, su un letto di legno che sa di sandalo e di muschio.
Come la pelle d’ambra.
La stanza ha pareti azzurro pastello con i segni del pennello che le ha dipinte con poco colore tirato a forza

a coprire il più possibile l’assito delle pareti.
Una ghirlanda di fiori appesa a un chiodo sopra la testa di lei mentre lui le scoppia dentro.
Le gambe sue abbarbicate ai fianchi a spremere fino in fondo ogni suo succo dentro.
Il petto largo, schiacciato sotto l’uomo, i capezzoli puntati sul suo petto, e il respiro fondo e accelerato.
Il petto della giovane donna a risalire nel respiro affannato e sollevare col suo moto il petto dell’uomo,

come un piccolo mantice sul fuoco.
Ad ogni respiro.
Poi, sempre più calmo e lento.
La notte fuori, dopo, si offre con odore di spezie spente nei camini e nei fornelli.
Sentore di serraglio e di cammelli, che arriva da dove la strada asfaltata cede il passo alla città villaggio.
L’eco di passi strascinati sulla sabbia della via, lontani nel buio ormai totale, da viandanti scuri allo scuro della notte senza luna.
Rumori in transito nel nulla di una città santa.
L’uomo, seduto al tavolino di un piccolo bar scalcinato e chiuso da ore, accende la sua nuova sigaretta.
Guarda senza guardarla la piccola brace rossa che pulsa.
Non ricorda già nemmeno il nome della donna.
Ma ha fissato saldo in petto, lo sente, un anello piccolo stretto al cuore.
E una piccola catenella d’oro che lo lega da lì al cervello.
Dormirà profondamente, il mattino dopo, prima del risveglio e della partenza per Delhi,

al risveglio dei carretti e delle voci prima dell’alba.
La polvere della strada e dei mercanti.
Che arrivano al mattino da non si dove.
Fermo nella sua conca, immobile da sempre, testimone di vita e di morte e di rinnovarsi di giorni, il lago.
E nel deserto, quasi terra di confine, lì, intorno, allargata sulle rive, dilavata a macchia, Pushkar.
Odore di spezie, masala cardamomo e zenzero, caravanserraglio e pelle ambrata laccata di sandalo e muschio.
Tintinnio di catenelle d’oro al soffio del respiro.


Dedicato ad una piccola catenella d'oro e alla donna che con essa si è legata.


 

 

 

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