Era la notte del sonno che non veniva.
Che gli ricordò un’altra notte senza sonno di sole poche notti prima.
Ma occorre un ordine, nel dire delle cose e delle notti, come si mette ordine ai pensieri, inevitabilmente prima di addormentarsi e poi nemmeno ci si accorge di aver preso sonno. Dopo. Quando, appunto si dorme. Sospesi senza sapere, o ricordare al mattino, a quale dei tanti pensieri.
La prima notte allora.
No, troppo semplice, se segui le cose semplici, il sonno poi magari non arriva. La seconda. Comincerai da lì.
Che se ti viene sonno poi almeno hai cominciato dalla fine e non hai lasciato nulla in sospeso. Non è un giallo dove esiste un mistero che si svela alla fine e guai se il finale manca, ma una storia. E una storia deve avere una fine, è questo che vuole chi legge, l’inizio non è così fondamentale se ci pensi bene. Lo è la fine.

Ti giri dentro il letto. Non è tardi, è prima della tua ora. Hai scritto, poco, ma hai scritto cose vere, nella giornata appena chiusa. Come quelle di cui hai parlato, prima e dopo, con le tue persone. Hai persino iniziato a discutere il progetto di emigrare, senza arte né parte, gli anni sulle spalle più pesanti di un cassone, con l’anima di un profugo, ma felice. Verso un altro paese.
Che poi un lavoro lo si trova, e lì le case è vero che c’è meno luce ma hanno tutte il giardino e il soggiorno a piano terra, e costano proprio poco. E ne avete sorriso insieme.
Perché sognare insieme e fare progetti fa stare bene.
Sì, i presupposti ci sarebbero tutti in teoria. Persino l’ora giusta. Per dormire.
Ma l’uomo no, si aggira per la casa.
Si è sciolto dal suo abbraccio, piano, con delicatezza, con cura gentile, ed è scivolato giù dal letto e ora gira per la casa. Le ha detto che non riesce a prendere sonno ed è vero. A lei è bastato e dicendogli di non fare tardi ha cominciato senza accorgersene a dormire.
E’ uscito dalla stanza ora. Sa già dove andrà ad approdare, ma gira.
E’ piccola, la casa, la si potrebbe raccontare in fretta, come in fretta la si gira, ma in quella casa ha racchiuso, e c’è stata, quasi metà di una lunga vita. E allora forse ha spazi che non sono poi così piccoli, angusti, ma si sono come dilatati e, forse, alcuni, sono solo troppo affollati. Di pensieri, emozioni, suoni, odori, di cose, così passate, da essere il suo presente, ora.
E’ una scatola cinese, di materia ed emozioni. Intanto, l’uomo fa la cosa che gli viene più congeniale, nel rumore delle auto sul pavé, poco lontano, poco più sotto, che corrono rare ma rumorose, fuori. E si fanno riconoscere trascinando veloci il suono delle ruote sulla pietra, attraverso la finestra chiusa, passando oltre la persiana.
Si siede alla scrivania.
Non rinvia con una tisana, sa che ogni pausa sarebbe solo una scappatoia per non scrivere ora. Accende il pc, che, se sapesse serbare un suo calore e una memoria viva, sarebbe ancora caldo delle sue mani, di poco più di un’ora prima. Apre word e inizia. A scrivere.

Delle due notti di insonnia.
Di un uomo che ha una vita intera di notti e sonni facili e felici ma per due notti non riesce a dormire.
Perché, questa, è la seconda delle due. La notte in cui, poco distante da dove siede, ha sciolto e riannodato nodi che stavano perdendosi per troppo poca cura. E ha cominciato nell’unico modo che doveva, a riannodarli. Che non è facile, non lo è davvero.
Quelli che ha riannodato li aveva snodati piano piano, ci aveva messo anni, perché lo stringevano troppo, io che lo conosco bene lo potrei proprio dire. Riannodandoli deve, lo spero e glielo griderei per dargli aiuto, fare in modo che lo stringano di meno. Si può imparare a fare nodi, questo è sicuro. A volte se hai fortuna e il coraggio di imparare te lo insegna la vita.
Serve se chi li fa li ha già dovuti sciogliere perché tagliavano. E stringevano a momenti fino a fare male.
Guarda gli oggetti intorno a sé mentre scrive. La montagna di carte. Ordinate, nel suo disordine preferito. Perfetto. Emblema di una vita.
Un telefonino in carica, posato sopra il foglio bianco in cima, come se prendesse il sole sulla neve.
Pastiglie per la gola sopra una ricevuta postale, tre agendine, troppe ma lui se non segna la lista della spesa della sua giornata si perde e non sempre ha qualcuno che lo aiuti a mettere ordine nella sua vita e lo possa sostenere.
Una piccola pigna portatagli da una montagna, in dono, piccole mollette di legno, ce ne sono con le coccinelle, con piccoli babbi natale, altre colorate pastello, altre nude nel colore naturale, a lato il monitor, attaccate a mordere l’orlo di una tazza piena di stilografiche di lacca e bachelite e di matite colorate. I suoi colori.
Lo portano loro a pensare, anche loro, le coccinelle e le matite, alla notte che, con questa che vive, sommandole, fa due.
Mentre scrive, la tensione, che era buona, ma pur tensione era, comincia a sciogliersi sotto le dita. Non sta male. Solo non ha sonno, non ora.
Se andasse alla porta della stanza poco lontana la sentirebbe respirare.
Addormentata, lei, ora. Respira bene. Prima aveva un sonno che giocava con l’aria leggero e regolare. Gli era piaciuto. Stava prendendo il sonno bene.
Bene.
Sì, sono le mollette, anche, e quei colori a disegnare un filo, una riga, tra le due notti. O forse in realtà si tratta di una notte sola. Durata molte molte ore.

La notte dell’insonnia, quella prima, l’aveva visto respirare male. Aveva lasciato il telefonino in carica sul lavandino senza stoviglia alcuna. Oltre i piedi del letto, sul lato opposto della stanza. Lei aveva chiuso le tende pesanti e nella stanza c’era il buio quasi totale. Il silenzio era così particolare.
Aveva scandito, quel silenzio, da una certa ora, quando lei si aveva preso sonno, le sue ore. Rompendosi improvviso, quando qualche auto non autorizzata entrava clandestina nel parco. Le cose inattese e non dovute fanno sempre più rumore, perché non hai modo di prepararti al loro arrivo credo.
L’uomo pensò la stessa cosa e pensò che era così anche l’amore. Sia quando arriva sia quando muore.
Fu alle quattro. O alle cinque e sedici.
Non lo ricorda bene. Dalle stanza vicine venivano sottili e indistinte le voci smorzate di un uomo e di una donna che parlavano non si capiva nemmeno di che cosa. Lui non ricorda altro che le voci e il pensiero del rumore dell’amore. Non le ore.
Doveva segnarsele, tutte le volte che si era alzato, lo saprebbe, quante, ora. A piedi nudi aveva attraversato più volte la stanza. Schiacciato il tasto laterale del telefonino, e guardato le ore.
Voleva essere lì e al tempo stesso non lo voleva. Deve essere per questo che il tempo, contagiato dalla sua indecisione, non si decideva nemmeno lui.
A passare.
Credo sia andato a controllare l’ora, per capire quanto tempo gli restava per dormire, almeno dieci volte in cinque o sei ore. Non la svegliava. Lei si muoveva, si era girata almeno sette volte sul lato sinistro. Non era coricata al lato del letto dalla cui parte lei di solito lei dormiva.
Ma era contro il muro della stanza che il letto da quella parte si appoggiava, e lui infilandosi lì si era sentito claustrofobico e in prigione. Così le aveva chiesto di scavalcarlo e, per quella notte, di cambiare lato. Era l’ultima notte, lo sapeva, lo sapevano tutti e due, ma questa cosa non l’aveva detta, chiedendole di scambiarsi lato. Non ce la faceva a dirla a se stesso nemmeno.
Si erano baciati durante quel trasloco ancora. Piano. Senza far rumore.
Due volte, nell’insonnia era andato in bagno, aveva acceso solo la luce dello specchio sopra il lavandino. Sulla mensola della finestra di tutte le coccinelle che c’erano solo poche ore prima erano rimaste solo quelle morte, come gli fece notare lei la mattina dopo. Prima di vederne due muoversi veloci sul vetro smerigliato, vive ancora.
Al pomeriggio, quando lui aveva preso possesso della stanza ce ne erano tantissime. Poche morte e molte vive. Profughe dell’estate, che avevano trovato rifugio nell’anta di legno un poco rovinata, o profezie di un nuovo sole. Gliele aveva fatte vedere quando era arrivata.
A lui ricordavano quelle mollettine. E poi, le disse - dicono che portino bene e guarda quante ce ne sono -
Doveva capirlo lì credo.
Che quelle non erano lì a quello scopo. Non per loro, almeno.
La notte quelle vive erano andate a dormire.

Lui a dormire ci aveva provato. Ma i pensieri si accatastavano nella testa e non era solo questione di cambiare lato. Sul cuscino.
Si girava e la catasta dentro la testa ricominciava a crescere sul nuovo lato e lui non dormiva. E’ difficile dirsi addio.
Perché dentro una parola così breve ci sono così tante cose che la casa dove l’uomo farà ritorno il giorno dopo, con tutte le sue cose, sembra al confronto un gioco da dilettanti. Eppure tutte quelle cose, da quell’addio di cinque lettere nemmeno pronunciate, scappavano fuori e si posavano come fogli in caduta libero nella sua testa, nei suoi pensieri. Si alzava dal letto quando la catasta era piena e non riusciva più ad accoglierne. Attraversava la stanza e guardava l’ora.
Tornava a letto aspettando di dormire ma arrivavano i fogli a depositarsi senza sosta uno sull’altro ancora.
Sperava che lei si svegliasse.
Fu tentato spesso di svegliarla lui.
Ma non avrebbe saputo a quel punto cosa dire, poi lei dormiva così bene che non ce la fece. Era una sua abitudine, e l’amavano tutti e due, che lui a volte la guardasse, non visto, dormire. Il sonno di lei cambiava e lui si riposava così meglio che a dormire. Nessuno l’aveva mai guardata dormire, gli aveva detto una volta, stupendosi, al suo aprire gli occhi, di averlo visto, sveglio, mentre lo faceva. E avevano sorriso tutti e due.

Non ha molta attinenza con l’insonnia il risveglio, la mattina.
Né il tempo dopo. Questa è la storia di un’insonnia a cavallo di due notti nemmeno contigue, alla fine. Di come a volte, come succede a me stasera e ho cercato di trovare rimedio scrivendola, non si riesca a dormire. Perché qualcosa finisce o perché qualcosa non è mai finita. Una storia per trovare il sonno e riuscire poi a dormire.
Scritta mentre due donne dormono un sonno lento e senza alcun rumore in case lontane.
Non si sono mai incontrate.
Se non negli occhi di un uomo. Che a volte forse non aveva sonno o forse solo voglia di guardarle, mentre dormivano, dormire.
 
 
 
 
 
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