La mattina che
Matteo salì le scale fuori c’era il sole e non c’era il vento.
Si era svegliato presto, aveva sulle labbra un ricordo.
Quello della sua lingua affondata nella sua bocca.
Al primo gradino ne sentì il sapore, netto, e lo scivolare della carne
sulla carne al chiuso delle due bocche. Ricorda che l’avrebbe anche
morsa, ma era così calda, gonfia di voglia e di vita e pulsante, e umida
di saliva che si accontentò di farci un po’ la lotta e fingere poi di
cedere accogliendola nella sua grotta. E ne uscì pazzo.
La mattina che Matteo andò al parco, e si sedettero, non pioveva ma
faceva freddo. Le tirò più volte i lembi del bavero della giacca, per
proteggerla dal gelo e al tempo stesso per toccarla.
Le pettinò infinite volte un ciuffo di capelli che era così ribelle da
scenderle sul volto, dal suo lato, mille volte, quasi a dirgli,
provocandolo, rimettimi a posto e nel farlo, uomo stupido, accarezzala.
Le consumò una guancia e ci uscì pazzo.
E’ al terzo gradino che ricorda questo.
E la voglia di baciarla.
La mattina che Matteo si perse in auto e litigò col navigatore e usò lei
sola come mappa, si aprì a metà l’inverno. Si spaccò, squarciò come in
un film di fantascienza, aprendo invece di un buco nero un buco
accecante e giallo.
Ricorda il sole fisso nei suoi occhi ad abbagliarlo, mentre guidava,
quasi fosse scesa la primavera a invadere di sé strade, paesi e boschi.
Ricorda gli occhi tenuti serrati, quasi chiusi sperando che fosse
indulgente anche la successiva curva quasi invisibile. Stretti come le
tende delle finestre esposte a sud, che reggere il sole negli occhi, e
dentro, sì, si esce pazzi.
Al quinto gradino chiuse gli occhi perché anche il ricordo lo costrinse
a farlo.
Fu quando lei iniziò a volare e ripetere il suo nome che veramente però
uscì pazzo. Con il giaccone gettato a terra e le scarpe scalciate al
centro della stanza.
Che fosse il suo nome quel sussurro ripetuto mentre lei godeva lui lo
sa, senza bisogno nemmeno di ascoltarlo. Si era mescolato col tremore
della pelle, con l’odore che saturava crescente la stanza. Quello caldo,
umido di giungla e fiori e acque nascoste, di quando il desiderio si fa
cera e scivola lungo le cosce. E poi il respiro che è nascosto, si è
rintanato dove la tocca, e allora va a cercarlo, esplorandone il ritmo
aprendola. Governandolo.
E lui, quando lo sente fermarsi o spezzarsi o accelerare come cercando
lo schianto, sì, ne esce pazzo.
Era il settimo o l’ottavo gradino quando pensò a questo?
Ricorda solo, davanti allo studio medico, sul pianerottolo, che deve
aver perso qualcosa in quei momenti e che è venuto qui per ritrovarlo.
Ed è per questo che gli hanno consigliato di suonare a questo campanello
come sta facendo adesso.
Si domanda se sia un caso che in strada, proprio a lato del citofono
dello studio, a lato dei citofoni, a meno di mezzo metro, sulla serranda
di un negozio, qualcuno abbia scritto con un gessetto bianco, we are all
crazy.
Ricorda lei pochi giorni prima, ridere dicendogli guardandolo negli
occhi che sì, lui era proprio l’uomo matto, e si volta. Non suona il
campanello del medico dei matti, e ripercorre contandoli, i gradini. Ne
salta uno, ogni passo, scende usando solo quelli dispari. Otto, sei,
quattro.
L'uomo matto.
Poi esce nella giornata, troppo bella per pensare ad altro. |