Fu tutta colpa di suo fratello.
E poi, dopo il fratello a scuola tutti.
Il massimo fu negli anni del liceo. Poi da soldato e quando fu ferroviere, non se ne liberò più.
Francesco.
Che per bocca di un fratello che imparava imparare a parlare, diventò per tutti, tutta la vita solo Cecco.
Anche in montagna. Quando salì coi ribelli una mattina all’alba rinacque così un nuovo Cecco. Detto l’Angiolieri, partigiano.
Non è che avesse così voglia di fare l’eroe in realtà.
Dopo un’intera vita a onorare il nomignolo con cui l’avevano chiamato, a essere sprezzante e ironico, quasi un buffone, su tutto ciò di sacro e serio gli si parasse avanti. Non puoi essere Cecco ed esser serio, si diceva e sull’assonanza con l’altro Cecco alla fine lui pure ci marciava. E poi a scansare gli oneri ridendo e provocando il riso gli veniva bene. Ed era così comodo in fondo.
“S’i fossi ricco pagherei i debiti e non chiederei rinvio…”
“S’i fossi santo non guarderei le donne altrui, Antonio e non avrei cercato poi proprio la tua…”
“S’i fossi saggio non mi befferei del pelato…”
Ma se il conte padre gli aveva rinviato il pignoramento della vigna di famiglia, l’ultima, la migliore del paese, e Antonio che nemmeno più amava così tanto Maria ridendo l’aveva in fretta perdonato, non così il figlio del conte, Andrea. Marcia su Roma, camicia nera. Il genere peggiore di italiano, per mancanza d’ironia, perché era ricco, viziato, ingordo, diceva ridendone Cecco al bar, prima di doversi nascondere in montagna..

    “No. Non va, lo so, hai ragione, Sandra” ride al telefono con lei dopo averle letto l’ennesimo incipit.
“Sì.Sembra un’opera lirica, altro che eros. Antonio e Maria che danno fuoco alla sua vigna, mentre Cecco viene preso dai tedeschi, consegnato loro dal figlio del conte, che gli vuole rubare la migliore vigna del paese”
“E Cecco il partigiano, detto l’Angiolieri, che si fa beffe per l’ultima volta del piccolo gerarca viziato mentre lo portano via col fumo della vigna che arde le narici, e il sangue rosso come il suo vino”
“Ma non potevi trovare un titolo meno mistico e un poco più umano questa volta almeno? Ora per punizione vieni qui da me subito” le dice.
Perché tra loro c’è una scommessa che si rinnovava da alcuni mesi: scrivono tutti e due, soprattutto di eros, amore e sesso e a turno si sfidano con temi impossibili. Scrivere 8.000 battute da situazioni che di erotico nulla o ben poco hanno. Chi vince, ogni volta, perché ha risolto il rebus creativo o perché l’altro ha dichiarato forfait, decide del loro prossimo weekend.
Così ora la attende, dopo la telefonata, col monitor e la storia del partigiano Cecco ancora lì davanti.
Lei arriva, la gonna bianca estiva, corta alle ginocchia e la camicetta, anch’essa bianca, con malizia aperta a lasciar scorgere il gioco scuro del seno già abbronzato.
Non le lascia nemmeno il tempo per un bacio.
“Ora vedi che ti fa Cecco, altro che, ragazzina viziata…” e la trascina verso una sedia della cucina, lì in campagna.
Legno il telaio e paglia il sedile.
Le chiude gli occhi col foulard firmato che dondola legato alla borsetta. Ugualmente firmata.
“Seduta qui e zitta adesso” le intima ridendo.
“Quante sono queste dita? ” ma non ne mostra in realtà. Lei, bendata, a metà tra il riso e una strana eccitazione quasi infantile che sente crescerle dentro e tradisce con la voce, azzarda. Tre?
Lui non si cura nemmeno di smentirla e, senza una parola, le passa alle spalle, dietro la sedia.
“S’io fossi vento ti flagellerei…” sibila caldo di respiro e voce fonda, avvicinandosi all’orecchio di lei. E le scopre bruscamente il seno tirando da dietro la camicetta coi bottoni a saltare dalle asole da soli.
Poi apre piano il rubinetto e si riempie un bicchiere. In silenzio.
“S’io fossi pioggia ti tempesterei…” e lei salta letteralmente sulla sedia al getto gelido dell’acqua contro il reggiseno. Le sfugge un breve urlo, per il freddo, e il bagnato, inattesi.
Ora la voce di Francesco si è fatta fonda e tesa. E il respiro di Sandra si è fatto visibilmente affannato.
“S’io fossi corda, io ti legherei…” si toglie la cravatta e le porta con un gesto deciso ma gentile i polsi dietro la schiena. E stringe, un secondo nodo di seta.
Guarda. Da dietro, dall’alto, il seno di Sandra gonfiarsi e riempirsi sotto il tessuto delle coppe e i capezzoli disegnare cuspidi di freddo, sotto il tessuto fradicio fattosi trasparente.
“S’io fossi un ladro, m’introdurrei nella tua casa di nascosto e ruberei…” da dietro le sfiora le labbra, le allarga, le apre come un sesso. Scivola lungo la fessura rossa calda e umida. Il fiato di lei scalda le dita, le labbra si asciugano. Diventano velluto, seccano e lei muove la lingua per bagnarle.
Trova le dita, le lecca.
Lui gliele scivola in bocca.
Le muove come un sesso. Lei ha il fiato rotto e asseconda con la testa il suo prenderla, istintivamente. Non riesce a deglutire e la saliva le scivola sul mento e poi sul collo.
“S’io fossi fuoco ti arderei, mio mondo..” le sfila i seni dalle coppe abbassandole e loro sembrano voler esplodere sotto la spinta di troppi elastici.
Guarda quei seni, la pelle scura del sole che lei non lesina loro sin dalla primavera. Si trattiene dal baciarli, dal giocare come ama con loro. I capezzoli tra le dita prima, quasi a saggiarne consistenza, volume, forza, a esasperarli quasi, per cingerli poi del nido delle labbra umide e calde. E del bacio della lingua. Sul piccolo uovo di carne dura e tesa.
Accende la candela rimasta sulla mensola sopra il vecchio lavandino dall’ultimo temporale, quando passarono la notte al buio, a guardare e cercare di prevedere come facevano da bambini i tracciati dei lampi in cielo per molte ore.
Sandra gira la testa, bendata. Forse ha sentito l’odore del fiammifero, ha i muscoli contratti ai lati del collo e del viso.
“S’io fossi fuoco…” mentre la prima goccia di fuoco cade, inattesa, non vista, sulla pelle disarmata del seno.
Sandra sobbalza sulla sedia, le esce un grido, che muta in gemito sul nascere, dalla gola. Brucia un istante solo, la goccia di cera, brucia più forse per la sorpresa che per il suo calore.
Poi quel calore che scema nella goccia parte. Sembra diffondersi nel corpo intero, nel ventre, nella cosce sedute, persino in viso e sulla schiena.
“S’io fossi fuoco…” ripete altre tre, quattro volte Cecco. E ogni volta una nuova perla bianca solidifica dopo aver rubato un salto del respiro, un gemito, una contrazione spasmodica di muscoli e di cuore. Tra una goccia e l’altra Sandra sembra attendere, come se avesse bevuto acqua e sale dopo ogni nuovo sorso aumentasse la sua sete.
Le sfiora il seno con le dita. Gioca con le gocce che si sono fatte dure. “S’io fossi….”
Stringe piano i capezzoli tra le dita ora. Lei accoglie la carezza rude inarcando la sua schiena.
“S’io fossi vino, …s’io fossi divino…io sarei il Divin Marchese, altro che vino!” e ride. Sguaiatamente felice, come sanno fare solo un bambino, o un uomo ubriaco d’amore e felice.
Stringendo di più i polpastrelli la carne di lei sembra farsi gomma e lui le ruba un unico urlo sordo. Lei sembra trattenerlo, quasi avesse paura liberandolo di sentire le dita abbandonare i seni.
Lui libera la morsa. Li carezza, scende col volto sul suo, la bacia e le ruba il respiro con quel bacio che a lei bendata ancora deve sembrare infinito. La bacia fin quando sente che l’aria dentro di lei è finita e scostandosi solo un poco le rende allora il respiro.
Poi le carezza il viso. Le scioglie i polsi, che lei si carezza piano. Poi il viso dalla benda.
Versa da bere. Da una bottiglia scura. Per tutti e due.
“Ho vinto io vero?” ride “Sì ho vinto io. Sono il tuo De Sade, altro che solamente il Cecco. Lui sarebbe diventato per te forse solo vino, io sono arrivato a diventare persino IL divino”
Poi vedono entrambi l’etichetta. La cantina. Chianti riserva, Marchese Frescaroli.
“E no! Un altro Marchese non vale, a te basto io!” e ridono, si baciano, sono felici.
Il tema che lui darà a lei alla prossima sfida sarà “ Newton e la sua mela”.
Vedremo.
 
 
 
 
 
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