XVI   Bisanzio e l'ipotesi di Galata

 

(o ipotesi della porta azzurra)

                                  

 

                     

 

           

Dell’uomo e della donna sono arrivati oggi altri documenti.
Un pacco da recuperare al fermo posta.
Con la complicità dell’impiegata del piccolo ufficio il narratore si è recato, in una mattina che sapeva di sole autunnale e la curiosità, nel cuore, di un bambino davanti ai pacchetti di un natale, a recuperare tre involti in carta marrone da pacchi, chiusi con nastro adesivo, a rinforzarne angoli e chiusura.
Ha guardato i francobolli e timbri postali assaporandone la consistenza e il piccolo rumore tra le mani.
Con la forbice a tagliare poi, con cura e attenzione, a lato ogni pacchetto per rivelarne il contenuto.
In ogni francobollo, considera il narratore, probabilmente si nascondono mille storie. Altre.
I francobolli, sono parecchi e di poco valore, incollati alcuni ancora uniti tra loro, dente a dente, hanno non solo colori ma addirittura odori.
Come le macchie e i segni su un vecchio tappeto.

L’associazione di idee, col tappeto, viene, a chi scrive dei due del fiume, solo dopo.
A onor del vero.
Sfogliando appunti, lettere e vecchie foto.
Ingiallite e seppia, per beffa del tempo e non per ricercato e voluto effetto.
Una foto dei due seduti su un tappeto.
Del tappeto nella piccola dimensione della foto, nella prospettiva e nella fuga a svanire sul pavimento, nel vasto ambiente circostante, si perdono oltre ai colori un po’ ingialliti anche i disegni.
Ma lo si vede vecchio, antico.
Dentro quella che un tempo fu chiesa e poi moschea a fasi alternate.
I due sono seduti lì, sono piccoli anche i visi nello scenario ampio di Aya Sofia.
Si immaginano folle di piedi a camminare, sedere, inginocchiarsi prima di loro su quei tappeti.
Le macchie dell’emulsione della foto sembrano quasi anch’esse macchie della trama e dell’ordito.

Sappiamo da queste foto e dal contenuto dei tre pacchi in carta marrone che i due sono a Bisanzio.
Istanbul.
Costantinopoli.
Che la città per loro, che non hanno tempo e non hanno tempi, ha simbolicamente contemporaneamente quei tre nomi. Di differenti epoche, di differenti spazi temporali.
Immaginiamo anche che a loro non importi, lì, nemmeno scegliere uno dei nomi.
Che il senso del tempo trovi conferma e negazione anche in questo piccolo particolare.

Sono sbarcati dall’Aurora in una giornata di sole.
Il mare calmo dopo la manovra e l’ormeggio.
Forte odore di mare intorno, sotto, lungo il molo, le bitte grigie e le corde arrotolate, marinai di mille popoli e nazioni e sciamare come in una via del centro, reduci da un imbarco con le sacche alle spalle o pronti a far ritorno sulla loro nave.
Lev e i compagni, l’abbraccio e i baci.
Quel senso del lasciarsi e del conservare.
Dentro, anche il sapore del caffè di quel mattino.
L’uomo e la donna, lei regala a Lev il berretto di Corto, glielo calza in testa mentre gli appoggia un bacio, perché quell’uomo dalla lingua strana e dagli occhi stupiti è veramente e senza presunzione, oggi, per i suoi compagni, un capitano.

Sono sbarcati e camminando sul ponte, annusano la città e penetrano i suoi odori.
Trovano, a detta di un appunto scarabocchiato su una mappa sgualcita della zona di Galata, ospitalità in un piccolo albergo, o meglio una pensione, gestita da un uomo alto, nero di capelli, un po’cupo in viso.
Taciturno.
Ospita, lì, una famiglia di armeni, madre padre e due figli dagli occhi neri, e un mercante di non si sa che mercanzia, che esce presto al mattino e torna solo, con paso lento, a sera inoltrata.
Nella stanza a piano terra, loro.
La stanza ha una piccola porta azzurra, in legno, verniciata a mano.
Una larga finestra bordata di ferro, coi profili metallici intorno alle lastre, azzurri dello stesso azzurro anch’essi.
Nella stanza, c’è una foto di quel locale rettangolare nel secondo pacchetto, ma si vede ancora meno il dettaglio che in quella scattata nella moschea, poche suppellettili.
Un letto di metallo, vecchio con la testata a riccioli e volute, e un copriletto che odora di mercato di paese, coi suoi colori rubati ai campi in estate.
Lenzuola di cotone stirate, un po’ grigie di anni, e ripetuti lavaggi sulla pietra, pulite e leggermente apprettate.
Asciugate nel cortile dell’albergo al sole.
Lì penzola sempre, ogni giorno, il nuovo bucato.
L’albergo è povero, e ogni giorno l’uomo alto e taciturno o una ragazza giovane, con lo sguardo acceso spesso nascosto se la incroci, stendono lenzuola, teli, tovaglie e asciugamani per i pochi cambi del domani.
La ragazza, i due non hanno capito, a quel che si deduce da una lettera di lei a Corto, se sia la figlia dell’uomo che tace o cos’altro.
Lei scherza nella lettera all’amico veneziano sugli sguardi dell’uomo che con lei viaggia quando in cortile o sulle corte scale incrocia la ragazza. Racconto a Corto come lei allora lo prenda in giro, scherzi con lui su quelle complicità piccole, quel suo giocare con gli occhi grigi in quegli incroci.
Di come la ragazza nasconda quasi il rossore a volte, e lui ogni volta sia disarmantemente un poco compiaciuto come un bambino dopo aver rubato biscotti o marmellata.
Lei poi lo pizzica, cerca di farlo contorcere con le dita a solleticarlo, lo rincorre come se fosse un gioco e volesse rimproverarlo o punirlo o come dice, ridendo, fargliela pagare.
Racconta a Corto di questi loro giochi.

Riposano sul letto il giorno appena arrivati.
Impiantati nella stanza con la finestra a balconata.
Lei scivola sotto il lenzuolo e pigra spinge coi piedi a sollevarlo.
A tenderlo mentre si inarca e si stira, poi si rannicchia su un lato.
L’uomo la affianca alle spalle, le bacia la nuca.
Afferra i seni con le mani sempre troppo impazienti.
Lei spinge le reni.
Solleva le gambe al seno, e lo lascia scivolare.
L’uomo si fa mantello e copre, avvolge e accoglie lei e la sua voglia.
Si svegliano così qualche ora dopo.
Nella città che canta con le voci della preghiera.
Rimbalzano da torre a torre, da ogni minareto.
Le voci si rincorrono come l’abbaiare dei cani svegliati nella notte nella valle.
Si cercano, si svegliano, si fondono, si fanno confuso rimbombo di campane che rimbalza attraverso le vie.
Lei inarca la schiena e aderisce al suo petto, al pube, alle cosce, col retro delle sue.
Corre sulla pelle a contatto, un brivido di corrente, come se fosse elettricità, quel prolungato e morbido attrito.

Seduta nel letto lei pela, buttandone le bucce su un vecchio giornale inglese, dimenticato sul cassettone, ben piegato, arance e mandarini.
La donna che ha comprato frutta per la sete e per il piacere del profumo nascosto nel pacchetto stretto.
Lei scopre il tesoro e il suo colore e lo divide in spicchi, scivolandone il sugo lento sui polsi.
La stanza si colma dell’odore dell’olio delle bucce.
Schizza nell’occhio a lui, che si schernisce e scherma con la mano, e poi l’afferra per i polsi, la rovescia simulando la lotta sul giornale, l’acre della scorza, schiacciandola piegata tra le dita. Nel letto pieno di lembi arancio, avvolti dall’odore aspro e dolce, lui la bacia.
A labbra morbide e calde.
Mischiando nelle bocche il sapore di sole arancio.
Poi porta le mani di lei al viso, tenendole prigioniere nelle sue, e annusa le mani, e si satura ancora dell’odore degli agrumi rubato alla sua pelle.

Usciranno, dice un appunto scritto sulla fascetta che serrava proprio quel giornale, l’uomo che viveva in quella stanza probabilmente era abbonato alla stampa in arrivo con le navi dal suo paese, a sera quasi inoltrata.
A riempirsi di odori dell’oriente.
Nella città che è ponte.

Possiamo immaginarli camminare a scendere le vie verso il mare.
Mentre dai carretti vengono tolte le ultime mercanzie.
I bordi della strada sporchi di carte e di ogni cosa la città abbia accumulato lì, nello spigolo tra strada e marciapiede nella sua giornata affollata e ora in fase di chiusura.
La donna stretta sotto la spalla, il passo di quattro gambe ritmato, unico, veloce e sicuro.
Senza rumore.
Perché nelle lettere, nei documenti e nelle foto un po’ sbiadite il rumore non si sente.
Perché il rumore non si narra.
Perché il rumore non appartiene nemmeno al loro tempo.

Camminano così verso una cena fatta di sapori forti.
Di raki che fa storcere la faccia e urla nella bocca, forte di alcool e di sapore di uva acerba.
Un tavolo all’angolo della via.
Un piccolo freddo, con la tovaglia e i due bicchieri vuoti, al cessare dell’ultimo calore, lasciato lì, dopo la giornata, dal sole.
Risaliranno presto alla stanza.
L’ultima foto che è contenuta nel primo pacco ce li raffigura seduti su quel letto.
A sfogliare curiosi quel giornale.

Di quel giornale, una pagina intera e una mezza, strappata per tagliarne via probabilmente con le mani una foto, sono incluse nel secondo involto, per cui si sa anche qualcosa.
E’ inglese.
Di parecchi anni prima dell’epoca narrata in questa storia.
Arriva da un porto secondario, spedito da lì, col timbro della nave, illeggibile, che fungeva probabilmente da postale.
Parla della dichiarazione di indipendenza di una colonia inglese, parecchi anni prima.
In prima pagina, con foto di uomini vestiti di bianco e altri in divisa da ufficiale e di due personaggi grassi e imponenti con in capo dei turbanti.
L’uomo e la donna si addormentano così, su quelle pagine sparse sul lenzuolo.
Accartocciate e un poco crocchianti sotto il loro girarsi e avvolgersi nel sonno.
In fondo un letto di parole.

Il giorno dopo è un’altra storia.
Ancora.
Il narratore apre adesso, posando la penna, il terzo involucro marrone.
Chi legge, abbia pazienza.
Si prenda e regali e si regali tempo.
Si liberi, dal tempo, come i due nel loro viaggio fanno, e come sa liberarsene, ora, grazie anche a loro, anche chi scrive.
E stende sulla tavola foto.
Appunti e lettere.
Cronache, lontane solo per chi ha paura delle vicinanze.

(a suivre)