VI   Ipotesi uno. Il Ponterosso  
 

 

 



Il secondo foglio custodito dall'anziano dottore nella cassa di teck navale,

pesante per resistere al tempo e non scivolare nella tempesta,

gioiello in legno che da anni immemorabili nessuno aveva aperto, parla di mare

e di una città quasi di fronte.
Ma le notizie sono poche.
Più che la migrazione dei due avventurosi amanti pare il diario di un viaggio di ricerca.
La storia comincia pressappoco con queste parole.

L'uomo e la donna fecero provviste.
Di baci e abbracci prima di affrontare il mare.
Come se fosse un viaggio senza fine e dai pericoli insidiosi, quasi ad accumulare,

bruciare in fretta per paura delle onde e di un possibile naufragio in alto mare.
L'isola in fondo aveva retto bene la piccola corrente dei rami laterali,

l'onda portante ma lunga e regolare del fiume largo,

il dedalo del labirinto di canali, dove l'acqua già non si poteva più bere

e preannunciava il mare.
Aveva retto, alla notte più lunga che memoria ricordi,

la transumanza e la fuga di un amore.
Ma avrebbe retto l'Adriatico e le correnti?

L'onda portata nelle notti più fredde al largo e i venti?
Avrebbe fatto cambusa abbastanza il sacco di pane, la forma tonda

e con la buccia secca di formaggio stagionato e buono,

la piccola cantina comprata guadagnando in sei giornate abbastanza

per aver vino per le notti più fredde?
Erano quei piccoli inconfessati timori anche a farli amare ripetutamente.
Perché l'avventura aveva e nei romanzi ha ancora uno strano sapore.
Di sfida perfino alla ragione.
E loro, lì, all'ombra del nocciolo la ragione la perdevano abbastanza spesso e volentieri.
A volte nelle notti, lui tornava con la paga di giornata

e lei da goffi tentativi di pesca verso riva.
L'isola ondeggiava all'ormeggio di un albero tanto generoso

da aver gettato negli anni un ramo a sporgere a filo d'acqua, in un'ansa della costa.
L'albero, il ramo era così il pontile e il ponte,

lo stenditoio dei bucati di quattro stracci in croce.

Erano spesso nudi comunque lì finche veniva notte.
Capovolgendo persino la logica dei vestiti. Nudi di giorno e vestiti a strati,

stretti a farsi camino con il fiato il freddo dell'autunno a fine sponda.
E se avevano voglia di farsi animale strano,

gatto con due dorsi e quattro zampe, lo facevano nella notte vestiti.
Lui la prendeva schiacciandole la schiena con il ventre,

il pantalone blu entrambi un po' abbassato e penetrava lei

dopo aver scostato la mutanda con le dita.
Era il sesso più frenetico e affannato della loro giornata.

A combattere l'umido della notte sull'acqua col fuoco di quei colpi.
Poi, col calore prodotto, il viso rosso nonostante il freddo dell'ottobre ormai avanzato,

il fiato fatto nebbia calda, il sonno.
E il freddo era lontano.
In fondo a queste loro giornate in una mattina di vento, quasi fosse consapevole

del loro inutile attardarsi fu l'isola, narra lo scritto, a prendere per loro decisione e vento.
Loro stavano scherzando, inventariando il vino, immaginando il sapore

e litigando per gioco su quale e quando bere una bottiglia.
 

L'isola prese il largo.
Senza clamore.
E' un'isola gentile in fondo.
Un paradosso spaziale e temporale regalato dalla sorte ai due amanti.
Videro, nudi sulla riva ,correre prima paesi e poi città lungo la costa.
A volte passava una nave, un peschereccio o alto in cielo un aereo a strisciare di bianco.
Attraccarono all'alba.
La loro barca di sasso e sabbia si ancorò da sola sulla sponda.
Seppero dopo di essere alti sulla costa.
Dove il mare si chiude su se stesso, gira di un mezzo giro e cambia sponda.
Era la città del vento.
Li salutò fischiando.
Fece rabbrividire d'onda il pelo dell'acqua e i volti.
Non sempre le carezze sono calde. E quella era la carezza di Trieste.
Comprarono un vestito qualsivoglia in un negozio vecchio.
Nascosto dietro Ponterosso.
Un greco trapiantato fu così gentile da fingersi burbero barando sul prezzo.
Pagarono così con l'ultimo risparmio un abito che ne valeva almeno il doppio.
Le cronache dicono che né il vecchio né il negozio in realtà

fossero conosciuti da nessuno nella città giuliana in quei giorni ventosi.
Che tanti anni prima, sì, qualcuno ricorda, c'era Joyce

che per quelle strade ancora camminava e dicono lui li facesse spesa.

Completo di flanella con gilet grigio a sei bottoni.

Il cappello calcato saldo in testa per non rincorrerlo nel vento e far ridere le donne lì al mercato.
E che al posto della casa vecchia del piccolo negozio e dei tessuti li ora ci fosse,

modernissima una banca.
Ma le cronache si sa non sempre scrivono le storie.
Quelle restano scritte altrove. Come i passi.
La strada li vede salire abbracciati a cercare una camera o un ostello.
Dell'acqua calda a lavare via l'umido e il freddo dalle ossa.
Un loro primo letto.
Il primo dopo tante notti e abbracci e sesso consumati

a disegnare un volo di gambe e di braccia e ali sulla sabbia.
La strada tagliava la città di sbieco.
Strada di caffé tostato sospeso dal vento, fragranza nera alle narici.
Da ogni porta il rumore della ruota calda e del caffé dentro

ad avvolgersi unto e scottato su se stesso,

mulino di chicchi e di fragranza esotica e domestica al tempo stesso,

in cerca del colore più perfetto.
Torrefazioni in molti negozi costruiti intorno alla macchina in azione.
Bazar di odori alle porte socchiuse o a volte aperta.
"Il mio caffé è più buono, entra..." sembrano dire alle narici le correnti invisibili sospese in danza.
Una dopo l'altra ogni porta ha la sua lusinga.
Un caffé e un altro ancora, con gli spiccioli trovati in una tasca.
Il loro bacio ha un buon sapore mentre iniziano la salita al colle.
Il palato sa di Africa profonda, la gola di Americhe lontane e sprofondate nella giungla.
La lingua è una saetta nera e calda. Sa di isole lontane e di donna nera.
Mentre la bacia lui le succhia ogni sapore dalla lingua.
Con cura. Senza fretta. Succhiandola e tenendola stretta.
Lavandola con la sua.
Accudendola in bocca come se fosse in una culla.
Lei sta lì, abbandonata alla carezza, a farsi bella, lucente di saliva e fresca di grotta.
Salgono così con l'eco di lingua e di caffé in bocca.
La locanda ho un nome che non può permettere alcun tentennamento.
Da Libero.
E loro che sono liberi davvero in quella loro corsa contro il vento

che rallenta il passo e la salita, spingono la porta.
Li accoglie una stanza.
Odore di patate al lardo, vino poco raffinato e fumo che ha fatto nero

e venato oltremodo il legno alle pareti.
Tavoli e panche.
Alle pareti vecchi giornali.
Libero li accoglie sorridendo.
Ne ha visti a migliaia di amanti infilarsi li spinti dal vento.
Offre loro un tavolo speciale.
Dirà loro dopo che era il tavolo "suo" da sempre.
Quando saliva sul colle col pacco di giornali sotto il braccio.

E un legaccio con carta e libri.
Il cappello calzato fino alle orecchie a preservarlo dal diventare uccello

e scapparsene nel vento fino al mare ai piedi di Trieste,

dove il molo accoglieva in pieno centro navi.
La piazza aveva candele a tutti i lati.
Festoni alle finestre dei palazzi antichi e seriosi,

commendatori figli di antichi pirati,

mercanti dell'Impero, greci di Bisanzio,

prostitute fatte dame di corte o di imprenditori mercantili.
La nave arrivava lì direttamente.
Nella sala buona.
Carica di festoni e di luci.
Divise fatte nuove per la marcia trionfale sopra l'acqua.
Scivolava maestosa sino a terra.
Dalla nave scendevano primi i ricchi. Poi i passeggeri di quarta

e dopo in cerca di puttane istriane e taverne i marinai arrivati li da tante terre.
La piazza aveva folle di gente.
A cordone quadro.
Parenti in attesa, dipendenti venuti ad accogliere il mercante dal viaggio ai confini della terra,

semplici curiosi, tanti a immaginare li, nel porto l'avventura, la ricchezza,

il mare aperto e guardare quegli uomini

e quelle donne, loro sì così diverse dopo il viaggio dalle loro moglie e dalle loro amanti.
Il tavolo è nella seconda saletta.
Ci sono solo loro.
"E' il tavolo fisso di Joyce, sapete…"

Libero sembra dire che lo è ancora.
Loro siedono compunti allora.
Assaggiano il vino e sbirciano, blasfemi e brilli,

se Joyce avesse mai col temperino scritto sul legno magari "Mary ti amo" o "Elisabetta troia".
Perché sanno che Joyce lì beveva come loro.
E come loro, lì, lui non aveva fili.
Si baciano lì dove lui alla notte anche scriveva.
Scrivono con le mani, cercandosi sotto il tavolo, la storia di una donna,

una mano e un'erezione.
Libero non vede.
Ma guarda caso, dopo un piatto fumante di stufato e le patate,

offre loro la vecchia stanza al primo piano.
"Se mi fate cucina entro domattina ve la regalo. Ma una notte sola chiaro? "
A loro sembra strano anche quel letto.
E la trapunta.
Pesante e alta.
Lo spiffero di fessura dalla finestra che si chiude male.
La luce, lampadina a risparmio estremo, saranno 25 candele se va bene.
Ma lei è bella lì in quella luce calda e gialla.
Come una statua d'oro morbido antico.
E lui persino bello con la pelle scura

sino a sembrare moro in quella poca luce.
Usano il materasso, il primo per il gioco delle loro reni

e le molle che si fanno frusta e cigolano sotto come un'altalena.
Lui spinge e quasi pompa rete e materasso.
Lei affonda.
Nell'affondare, il materasso sembra sabbia mobile e non crine, lui le scappa fuori.

Lei ride…
"Torna a casa pesciolino..." e lo riporta con la mano golosa al posto giusto.
Perché lì stia bene, si sprema di ogni goccia. Pianga felice.
E lui festeggia lì,

su quel materasso che ha più onde del mare che hanno traversato,

il compleanno.
Della loro fuga.
Non era il compleanno di nessuno in fondo.
Certo non quel giorno.
Lei ha le gambe alte, sollevate.
Si fa forchetta, le gambe aperte a dare strada al colpo dei fianchi,

all'affondare e al ritrarsi per poi schiacciarsi ancora dentro

come a cercare in fretta con irruenza un nascondiglio.
Gli serra le gambe alla schiena e ne regola tempo e movimento ora.
E poi lo strozza.
Le gambe col muscolo che sembra ambra e marmo. Scolpite alla piccola luce,

muscolo teso e gambe che cinturano la schiena

e l'obbligano a fermarsi contraendosi in fondo.
Le sale dentro lo schizzo e l'onda.

Lui si inarca, come se il corpo tutto se facesse freccia,

potesse farsi strada dentro sulla spinta e prenderla e riempirla tutta salendo a seguire il cazzo.
Lei accoglie serrando l'attracco la nave e si fa piazza.
Accende luci. Mette festoni alla finestra. Stringe nel porto la nave che si svuota.
 

Scendono dopo.

Vestiti di maglione e mutande a fare e rassettare la cucina.
Mangiano un pezzo di torta di mele avanzata sul vassoio.
Puliscono tutto come se fosse un gioco, nel locale vuoto a notte che è quasi alba.
Sul tavolo dove hanno cenato, raccolgono un cappello.
Sformato.
Inglese.
Allargato dall'uso ripetuto all'ossessione di venire troppo calcato e calzato sulla testa.
Lo appendono al gancio lì, vicino al giornale messo sotto vetro.
Il giornale ha una data del 1908. Un titolo e un disegno.
Joyce e Svevo seduti a un tavolo di legno.
L'articolo è firmato Libero e poi non so cosa.
Beffa del tempo, dei nomi ricorrenti se sono nomi belli e di un cappello vecchio di panno inglese.

La storia narrata finisce qui.
L'ipotesi di Ponterosso almeno
Il foglio non era completo.
A lato, vergati con mano diversa alcuni appunti.

Riferimenti di un lettore precedente e attento forse più alla storia

e alla letture di quanto lo fossi io leggendo.
Là, in quell'anno a casa Svevo, a viva voce, in un salotto,

Joyce legge a Svevo e a sua moglie Livia l'ultimo racconto dei Dubliners, intitolato " i Morti".
L'emozione della donna fu così alta e forte che scese a raccogliere dei fiori,

ne fece un mazzo e lo diede in dono allo scrittore irlandese.
Sono le meraviglie delle cose lette a voce…
Io ora capovolgo qui il tutto, prima di affrontare, dopo,

gli altri appunti e manoscritti delle vicissitudini di viaggio dei due amanti

e faccio io un dono.
Di questi appunti ricostruiti in fretta,

passione per l'amore e poca fedeltà letteraria.
Regalo loro.

A chi mi ha regalato, prima, fiori, parlando insieme di Trieste,

dell'Impero e di un viaggio indietro nel tempo. O forse avanti.
Il regalo è solo una piccolissima storia su un vecchio materasso.
Ma a Trieste Libero credo viva ancora.
Lo conosco davvero persino io che non sono Svevo.
Ha una taverna a suo nome.
E davvero lì si son seduti, loro,

con fogli libri e giornali accartocciati sotto braccio,

in quegli anni di un secolo esatto passato.
Allora Libero non c'era ancora,

lui è arrivato dopo il padre che gli donò quel nome

e quel pezzo di storia scritta nel legno scuro di fumo e vino.
Libero mi parlò una notte intera dei suoi sogni.
La bonifica di una palude,

perché le contadine friulane soffrono di cancro all'utero più delle altre,

di come lui salverebbe con un suo progetto (io l'ho visto) Venezia dal mare che la mangia..
Di questo e molto altro.
Dieci giorni dopo per rapina, Libero che aveva quasi settantacinque anni fu accoltellato,

andò in coma e sopravvisse, come i libri che giravano lì nell'aria, persino a questo.
Il Corriere della Sera gli dedicò la terza pagina intera…

Ci sono altri fogli, altri appunti, altre ipotesi a Saragoza sulla fuga degli amanti.
Altro azzardo di destini riservati a loro.
Credo verranno scritti anch'essi
Ma oggi era Ponterosso, mi hanno parlato di vento e la testa è andata allora proprio a questi fogli.
E a Libero che ha un nome da bandiera e sta bene dove batte il vento e si accalora il cuore.
L' Osteria è lì.
Sulla salita ventosa.
Ma l'indirizzo non lo condivido adesso, al limite posso portare io lì chi lo vuole.
E' una città che veramente amo come se fosse una donna.
L'indirizzo di Libero?
E' lì al piano sotto di un vecchio materasso.
Che ha crine un poco secco e un letto di fiume fatto di molle.
Un trampolino per amanti.

 

 

(a suivre)