XII    Vanghe Dancale e Scorpioni

del Deserto

Ipotesi di Corto

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Prima o poi quest'ipotesi andava affrontata.
Perché ci sono strade anche nei fiumi, percorsi sotterranei che nessuno vede, precedenti all'erosione principale, tracce geologiche, strati impermeabili e sprofondi di grotte.
Di questa ipotesi ben pochi documenti.
Che Corto fosse lì in quei giorni abbiamo parecchie tracce.
Nella casa alla Giudecca dove abitava un disegnatore ci sono anche schizzi, abbozzi di ritratti, carboncini sfumati. E alcune date che risultano anche inesorabilmente coincidenti.
Poi di Corto parla lui a lei in alcune lettere e missive e lei a lui, ma solo per raccontargli di Corto e di Morgana, della storia irrisolta e dilazionata di un incontro ai limiti della leggenda.

Azzardando alcune ipotesi possiamo supporre con buona probabilità di avere ragione e che Corto visse in quella casa sopra il fondaco commerciale delle spezie d'Oriente con la donna del fiume per tutto o quasi il periodo delle guerra contro gli ottomani in Albania, almeno per i mesi in cui lui e Skander tennero in scacco eserciti interi con piogge di frecce dalle rocce, agguati alla fonte, a centro valle, e imboscate nelle radure ai margini dei boschi.

Ma dei mesi loro lì ben poca traccia.
Mesi in cui il cielo, lì sulle montagne pioveva nero di frecce e bagnava di rosso il terreno e a Venezia al mattino nei canali saltavano, cadendo senza geometria, le gocce.
La ricostruzione inevitabilmente sarà carente.
La sera dell'incontro con Corto fu subito chiaro che si creò nel piccolo gruppo una particolare tensione, una corrente, un canale labirintico di emozione, speciale.
Narrano, le carte, di racconti.
Corto che affabulava e rigirava in danza storie di Corpi Speciali persi nel deserto, di un viaggio in Transiberiana. Anche.
A lei senz'altro il viaggio piacque, aveva sapore di fiume e non di treno, tutta quell’avventura.
Erano belli anche gli ufficiali del convoglio nel racconto.
e l’uomo del fiume al tempo stesso si beava dei racconti dell’amico nuovo e dello sguardo di lei, che aveva preso il treno.
Fu così che Corto accompagnò un mattino, ma era l’alba e lei dormiva, sia l’uomo del fiume che Skander alla barca che li avrebbe traghettati poi al porto.

Da cui salparono solo molte ore dopo, a causa di una perquisizione fatta sulla nave, loro clandestini quanto meno per motivi cronologici logici e di spazio temporale, nascosti nella stiva, tra casse di cereali arrivati dalla pianura dove corre il fiume e armi nascoste in scatole di fiori destinati ai mercati istriani.
Lei dormiva, avevano fatto l’amore quella notte, l’uomo e la donna, lì su un sacco di tea, nell’odore di agrumi, venuto dalle Indie.
Un lento moto d’onda, accenni di tempesta e poi ritorno di marea a salire, sciogliersi e riunirsi, una danza di braccia e gambe intrecciate a legare il tempo e i pensieri.
In silenzio e questo fu la cosa forse strana.
Non volevano forse semplicemente parlare di partenze, di tempi indefiniti, nel loro correre sdraiati, quasi non mettere nemmeno le parole a delimitare il tempo e quel sonno dopo che li trovava ancora uniti.
Il sacco, dice la storia ricostruita, fu così buon giaciglio, era profumato di tea e bucce di agrumi, di tela non cotta, ammorbidita da anni di uso e trasporto su e giù dalle navi, tirato e stretto da mani forti in troppi porti, che al mattino lui riuscì a scivolare, infilarsi i pantaloni e una maglia, lasciandola ancora acciambellata come era poco prima tra le sue braccia.
Le ginocchia rialzate verso il seno un poco, stesa sul lato e il calore di lui, ancora incollato e morbido alle spalle.
La donna conservata e sagomata nel suo cucchiaio umano.
Lasciò un suo vecchio indumento di lana solo per coprirla, lo stese senza quasi fare toccare pelle e lana, che non avesse freddo nelle prime ore del mattino, quelle dove il giorno all’arrivo sottrae anche l’ultimo calore alla notte che va via.
Lei indossò poi per tutta la giornata quell’indumento, girando per il fondaco chiuso così, mezza svestita, calda al seno e fresca alle gambe.
A piedi nudi, come faceva sempre nelle mattine di festa.
La lana un po’ ruvida alla pelle, carezza secca e poi calda e insistita sui capezzoli ad ogni movimento.
Quasi ruvida di mano dopo la fatica.
A ricordare mani.

Di Corto e della donna non c’e’ molta documentazione.
Accenni in lettere, note, qualche biglietto scritto a promemoria.
Lui mai le chiese peraltro e mai ci fu a questa ragione una corrispondenza così esplicita e chiara, a loro non serviva né valeva, su quel periodo veneziano.
Di Corto che quel mattino presumibilmente la abbracciò, era così sconvolgente lei, in quel sapore di abbandono, lo sguardo a metà del guado, la baciò e probabilmente fece con lei l’amore.
Ma era solo un modo, così suppone il narratore, in fondo, di stringere e accarezzare, di sciogliere un po’ di ombre legate alla partenza, di non lasciarle quasi percepire che stava scivolando via, già in quelle prime ore, ogni calore di quell’uomo ormai lontano, da quella maglia di lana.
Che quella maglia, poi, avrebbe perso lentamente anche il suo odore, svanito quello del corpo di lui così, nella stanza piena di essenze, sciolto dal caldo del corpo di lei, coperto, evaporato quasi.
E non avrebbe fatto più, il maglione, da abbraccio simulato e da pressione calda e conosciuta sulla pelle.
In una lettera lei dirà all’uomo in Albania di Corto.
Della sua dolcezza visionaria nel sognare.
Che affascinava entrambi.
Del suo prendersi cura di lei quasi con puntiglio, e di tutte le piccole attenzioni quasi involontarie ad ogni momento di tristezza mal celata magari o pensiero che non avesse sole.
Che lui capì, leggendo la lettera, non è dato di sapere.
Si sa, o si intuisce quanto meno, a causa di altre lettere che lui scrisse, senza che lei nemmeno lo sapesse, a Corto.
Per raccomandare che mai la lasciasse intristire, che le fosse vicino nelle ore in cui magari ci si sente soli, quando la giornata chiude alle attività e si apre ai riti.
E le ombre magari hanno anche un peso.
Che Corto poi rispose, rassicurando lui, amico, “..oggi lei era particolarmente felice, ha avuto visite da un mercante da Spalato e concluso un buon affare. Siamo poi andati ai Magazzini del Sale e lì vicino a mangiare…E’ bella sai, e lo è di più quando sorride…”
L’unico stralcio sopravvissuto ad una lettera di Corto all’uomo, ma che dice tanto.

Significativo comunque ricorre il riferimento al sorriso.
Nelle scarse immagini ritrovate, ricorre sempre.
L’ipotesi è duplice allora, o fu fatta una selezione delle immagini o inevitabilmente la donna del fiume stava, senza soffrire, in qualche modo bene e riuscisse a gestire le giornate in modo sereno come lui voleva.

Corto partì da Venezia tre giorni prima che l’uomo tornasse dal castello di montagna.
Probabilmente fu un caso.
Lasciò alla donna un quaderno di pensieri, alcuni disegni fatti durante i viaggi africani.
E, appeso lì.
Alla parete.
Un cappello, il suo di sempre da cui mai si separava.

Due ipotesi allora. La dimenticanza, assai improbabile.
Oppure un dire, lui pure, a lei e a loro, che non era un addio.
Non si lascia così, per dimenticanza, una cosa così cara, appesa come se dieci minuti dopo si rientrasse e la si riprendesse per l’uso.
Una terza ipotesi è che fosse solo un regalo.
A loro.
Loro, crede il narratore, lo interpretassero poi davvero in questo modo.
La prova è nella foto cronologicamente successiva.
Alla loro ripartenza da Venezia, l’uomo del fiume gioca col cappello e lo calza in testa alla donna. Lei ride.
Capello calzato un po’ di lato, calato sulla testa fino alle orecchie…”ma che testa enorme il nostro amico…”
Di Corto e lei, lui mai chiese, in ogni modo, di questo siamo certi.
Non ce n’è documentazione.
Era probabilmente così felice di averla ritrovata, le stessa di mesi prima, e di ritrovare anche, col profumo di lei ormai impregnato, un suo maglione….
Uscirono la sera del ritorno al fondaco a mangiare in una piccola trattoria in un campo piccolo e nascosto lì vicino, tre tavoli fuori, vecchi di vino e legno scuro.
Mangiarono con gli occhi e con la bocca.
Lì e dopo.
E dopo essersi mangiati con voglia, stetterò lì ad aspettare.
Lei si addormentò
Le gambe un poco sollevate verso il seno.
Sul lato.
Affondata in lui che la cingeva.
La schiena adagiata sul ritmo del respiro.
Il petto suo, che per lei si fece morbido letto.
Alla mattina fecero l’amore e aprirono il fondaco alla luce.

Partirono da Venezia cinque giorni dopo, dopo aver venduto a un ebreo greco tutto l’inventario e ogni mercanzia.
Dai documenti ritrovati, bolle, note di conto,e quant’altro non fecero precisamente un ottimo affare.
Il mercante sapeva che erano irrequieti, che lì si erano fermati anche troppo.
Che vivevano la vita solo in corsa, che erano quelli del fiume e non della laguna.
Ne profittò, sicuro nel mercanteggiare perché vedeva mentre negoziava gli occhi della donna.
I loro occhi erano comunque già altrove.
L’ebreo di Salonicco fece un ottimo affare. Loro, in fondo, pure.
Presero un battello la giornata stessa.
Con piccolo bagaglio come sempre.
Lei correndo verso il molo, rideva.
Tenendosi calcato a forza con le mani il berretto di Corto sulla testa, che non volasse via e non cadesse.
Nella foto sono sul battello, al porto. Infatti.
Si vede lui che le forza e calca il berretto da capitano fino alle orecchie, il viso di lei che ride e fa una smorfia buffa.
Sotto di loro il fianco della nave e, scritto in grigio acciaio un nome.
Aurora.
Perché altro non poteva essere il nome del battello loro. La nave dell’assalto al sole.
Sul battello marinai russi e polacchi.
A terra pacchi di giornali.
E alcuni uomini con occhi quasi deliranti a parlare, protetti dalle ombre, ad altri di un sogno più grande di loro.

Ma questa è un’altra storia.
Di cui ancora le tracce non sono così ben marcate.
E un salto indietro temporale in questa narrazione, qui, già è avvenuto.
Inevitabile se si lavora su documenti senza data e ordine fattuale.
Per cui un balzo indietro, qui nella narrazione, a quando l’uomo era ancora in Albania, e quindi Corto e la donna e poi ancora avanti alla partenza loro dalla città, parecchio tempo dopo.
Avanti e indietro, come il ritmo di marea.
Ma non sottrae alla narrazione, alla ricostruzione il passo di granchio, a volte anche laterale.
La traccia sono loro e hanno diritto a correre esattamente col passo delle impronte, saltano anche bene, che si lascino nella corsa, (prima la punta o prima il tallone ?), e non col passo ineluttabile e un po’ pauroso a volte della ragione.
Finisce così, allora, con un cappello calzato strano, anche l’”Ipotesi di Corto”.
In nave c’era vento e ogni marinaio, in varia lingua chiamò, per gioco, lei “Capitano”.


(a suivre)