Gwen è sulla spiaggia alla marina vecchia.
Cammina a filo d'acqua.
Se l'onda arriva Gwen non scosta il passo.
Lascia che l'acqua le lambisca la caviglia, risalga un poco sulla gamba.
Lecchi il polpaccio e si faccia carezza.
     
  Gwen lascia impronte marcate, ha passo deciso anche se non ha meta. Qualche impronta.. le più vicine a dove mare e sabbia mischiano le loro vite ininterrotte, dura pochi secondi appena.  
 

Altre restano ad aspettare la prima mareggiata.
O il vento che viene dall'isola là di fronte. L'isola che ha le nubi per cappello. Il vulcano.

Dicono che di là nelle notti più buie, quando la luna si nega e tutti qui si rinserrano in casa a luci spente, di là dicono.. arrivino le barche. Quelle lunghe, che scivolano silenziose e basse e buie e nessuno mai ha visto nè osato cercare al lume di una torcia.
Gwen calca il suo piede adesso sulla striscia lunga che dal mare, all'inizio anch'essa cancellata dal ritmo di risacca, sale fino ai primi ciuffi d'erba della duna.

   
 
  Gwen incrocia il piede con la scia della chiglia della barca tirata in secca.
Gwen ha un sottile brivido che la scuote al realizzare dove il piede si è posato.
Rinserra il pareo che le cinge i fianchi, corre attraverso il corpo e lascia un seno nudo a farsi carezzare dal vento, macchiato da un capezzolo bruno e duro per quella carezza d'aria marina, serra il pareo come se fosse una corazza in cuoio e ferro. stringe impercettibilmente le spalle come a sincerarsi dell'integrità del corpo suo e della sua forza.
Rabbrividisce un attimo solo e riprende il suo passo.
l'acqua sciaborda un poco e lecca ancora la caviglia nel suo moto.
Così incontro Gwen una mattina. io. Seduto sul tronco, relitto di burrasca, lisciato e smerigliato dal moto della sabbia e delle onde. Guardavo il mare. Gwen è arrivata senza rumore alcuno.
Solo l'ombra a proiettarsi sui miei piedi e gli occhi poi fissi a scrutare i miei.

 
  Gli occhi sprofondano nel pozzo infinitamente scuro dell’iride, e si perdono per un tempo indefinito tra l’attaccatura delle ciglia, rimanendo intrappolati in una fitta rete ricurva. Poi lo sguardo si posa sulle ali dei gabbiani che rincorrono le onde a pelo d’acqua. Il palmo della mano protegge le sfumature del sole caldissimo su una pelle che ha già visto molti giorni di calore. L’ombra del suo corpo regala un attimo di sollievo ai suoi piedi così provati dopo quella tempesta.
Gli occhi risprofondano nell’iride, e si rinfrescano nella loro ombra.
Le labbra si muovono piano, la voce calma raggiunge il timpano.

- Sta per piovere ancora. Vieni con me, questo posto non è sicuro -

Il vento alza le sue folate una ad una, sempre più pungenti. L’odore salmastro del mare punge le narici e inebria i pensieri, i capelli giocano a rincorrersi ad ogni brezza più decisa. Il piede lascia ancora orme precise sotto di se, il corpo avanza senza rumore alcuno. L’alba rischiara ad est un bagliore sinistro, il pareo danza sulle curve su cui poi si appoggia leggero e geloso, nessun indugio. Nessuna attesa.
Guen va verso il suo rifugio, aspettando senza voltarsi, il suo straniero….
 
 
L’uomo cammina e, come se temesse di poter essere seguito, calca i suoi passi esatti nell’orma lasciata dalla donna.
Mano mano che si allontanano dalla riva, la sabbia, sempre più asciutta, sfalda il bordo dell’impronta duplice lasciata e ne fa scompare profilo e margine di impronta.
Alla fine dell’impronta resta solo un leggero avvallamento,.. lo scivolamento della sabbia sulla pendice della duna.
L’uomo segue le impronte e scopre, poi, il suo sguardo seguire, mano mano che la strada si più sicura, l’onda dei fianchi della donna.
Il muscolo che scappa dal pareo ad ogni passo.
Si staglia.


La donna ha passo rapido, un ritmo da guerriero o da ladro nella notte quasi, nel suo incedere sicuro leggero e desto anche dove la salita arresta un poco il passo, là dove la duna si fa più erta.
L’uomo segue la donna.
La curva del suo fianco. Carezzata ad ogni mossa dai suoi occhi.
Il guizzo del muscolo alla coscia che si fa lampo e poi si oscura all’ombra del pareo se l’altra gamba sopravvanza.
Non una parola.
Nemmeno una a verificare che ci sia intesa di linguaggio.
Nessuna intesa sul percorso.
Nessuna sulla meta.
 
  La spiaggia ormai è là sotto. Avanti a loro i primi alberi, radi, poi al progredire dello sguardo la foresta.
Arriva solo l’eco del ritorno ritmato dell’onda al bagnasciuga. Lontano. Sempre più sfuocato.
L’uomo suda e arranca, è stanco. La donna guizza sempre più sicura su un sentiero non tracciato che si intuisce a lei ben noto come se ad ogni passo fosse più vicina a casa.
L’uomo forza il passo, la piaga che ha ai suoi piedi, la sete che lo secca e gli taglia la lingua solcandola di arso.
Segue quei fianchi.
La coscia alla luce del lampo.
I capelli scossi di lei nel salto oltre la duna.



           
Scusa se ti ho parlato di qualcosa che tra noi non c'entra, ma se l'ho fatto è solo perchè tu, maestro di parole, hai risvegliato in me, bagliori, lampi di immagini lontane ma vive.... con te mi sembra di aprire una pagina nuova, il vecchio libro con la copertina di pelle un po' lisa, si riapre facendo scivolare la polvere, la mia polvere.... forse.... si ricomincia a veleggiare sulle ali della fantasia che non conosce mare dove finire il proprio vagabondare....

           
Io infatti ti ho letta. lo volevo.
 
 

 

 
  Qui, ora... e dove Beijaflor vive. Il colibrì.
Seguendo la scia che il serpente ha lasciato sulla sabbia.
Un'onda di percorso.. poi lo slittamento della duna, dove la pendenza era più forte...
Scivola quasi di piatto, si distende a fare resistenza.. poi fermo si ricarica come molla vivente e spinge, spira dopo spira, ancora verso l'alto.
Riprende l'onda solo un poco più spostato dalla discesa imprevista, nel percorso.
cerca piccoli anfratti nella sabbia qui un poco piu compatta, leggere interruzioni nel ritmo di pendenza per farne punto saldo, rallenta solo poco il movimento, giusto quello che basta a trovare la forza di una nuova spinta, caricandola sul nuovo appoggio.
E scorre e poi sale, si fa lento come una danza.
Lambisce i tuoi piedi come lambivano i tuoi piedi prima l'acqua e la risacca.
Lo vedo salire avvolgendoti il polpaccio e poi la coscia, in alto.
Non stringe, avvolge solo quel poco che basta a fare salda la spirale e dare slancio.
Sale.
Avvolge lasciando una striscia di brivido, di ventre freddo, sotto lo scorrere lento.
La testa alta, scostata appena all'interno della coscia, come un calzare vivente, alto, che avvolge ora tutta la gamba. La testa che ne è fibbia. La coda ancora a terra.
La testa nel taglio del pareo, protesa in avanti.
Sei in piedi, ferma.
Mi guardate entrambi.
L'occhio suo sottile e obliquo sembra che sorrida con una luce tutta sua. Ammicca come se fosse complice della donna.
Tu non ti muovi.
Col tuo compagno avvolto attendi.
Salgo l'ultima balza della duna un po' a fatica. Lo sguardo fisso.
Fino ad avere la sua testa, dondola lentamente fino a sembrare quasi ferma, davanti, gli occhi fissi nei miei.
Attendo.

 

(alemar & faber)