... Un’eco lontana raggiunge il timpano, con la mano riparo gli occhi dal bagliore del sole. Qualcuno lo sta cercando, qualcuno è in pena per lui…
Lo straniero non da segni di risveglio, è ancora sprofondato nel suo sonno senza sogni, solo ombre forse, a tirargli su l’angolo della bocca, in una smorfia quasi sorridente. Il petto sale e scende poco percettibile, dovrò lasciarlo solo per il resto della giornata. Devo tornare, Nhaa mi sta aspettando, è dalla seconda notte del plenilunio, che non mi vede, ed io ora, ho bisogno di lui….

Respiro forte l’aria del mattino, l’afa ha già appoggiato l’umidità alla mia pelle, troppo cotta dal sole per soffrirne ancora…
Mi avvio per il sentiero, di fronte alla capanna, un breve tratto di palme, durian, papaya manghi e banani, mi dividono dalla sabbia corallina della spiaggia, più a sud.

 

  Un geco canta in cerca di compagnia, poco lontano qualcuno sbuccia noci di cocco e ne brucia i gusci, l’odore e il leggero fumo azzurrognolo, gironzola tra gli alberi più alti.
Risalendo la spiaggia, solo poche barche di pescatori, arenate e vuote. I più sono già tornati, mentre qualcuno, a piedi nudi sulla barriera corallina che in quest'ora del giorno, riemerge per la bassa marea, pesca.
Oggi è un buon giorno, la stagione delle piogge è terminata, il nuovo anno occidentale porta con se, aria di novità…
Il mare lambisce le mie caviglie ad ogni passo, e il piede lascia la sua impronta, senza sprofondare.
Amo quest’isola anche per questo.
L’odore della cucina di Wan mi raggiunge, il profumo del riso indica la direzione alle mie narici prima ancora di riprendere la strada che si insinua misteriosa dentro la foresta. La sua capanna è l’ultima, quella più in alto, quella da dove l’occhio arriva fino al mare in una cornice di vegetazione.
La scala è lunga e in salita, un iguana scappa al rumore dei miei passi.
La veranda deserta, mostra segni del suo passaggio.
Ma lui non c’è.
Un calore strano abbraccia il mio stomaco, avrei voluto incontrarlo ora. Entro, leggera e felpata, nel suo guscio, e mi abbandono sul suo rialzo in tek, dove lui dorme sopra un sottile materasso.
Lo aspetterò qui.
 

 

E la mente vaga libera come è libera questa gente, ricordo il mio arrivo su questa spiaggia, dopo tanto camminare per il mondo. Dovevo fermarmi per un giorno solo, dovevo ripartire con la barca della sera. Avevo pensato che potevo prendere quella del mattino seguente.. e invece… molte albe sono passate da quel giorno, tante fino a confonderne le origini…. Forse non sono mai arrivata: forse, ero già qui. Da sempre.

Una mano mi sfiora il piede, riapro gli occhi e mi guardo intorno, incontro il suo sguardo e mi ci perdo… sembra diverso ogni volta. La sua pelle ambrata, il suo naso dritto e piccolo, le labbra quasi sottili, e i suoi occhi vagamente orientali. Si, per essere un Thai è bello. Più alto della media, con il corpo asciutto, proporzionato, leggermente muscoloso. Jeans consumati, petto nudo.

 

  ‘Da quanto tempo sei qui? Ti aspettavo molti giorni fa’.
‘Lo so. Devi venire a casa mia. Ho trovato un uomo sulla spiaggia, il giorno dopo il plenilunio, deve essere arrivato con la tempesta. L’ho curato con la pianta della cima, aveva un piede quasi in cancrena, deve aver camminato a lungo. Era svenuto, e l’ho portato a casa. Devi venire’.
‘E’ un farang’?
‘Si’.
‘Allora non vengo. Basti tu’.
‘Ho bisogno del tuo aiuto, non posso farlo da sola’!
‘Se è arrivato lui, ne arriveranno altri, e questo posto diventerà ciò che sai’.
‘Lo lasceresti morire’?
‘Si. E’ già morto. Vattene, se sei venuta solo per lui’.

Nhaa non era cattivo, e non avrebbe mai lasciato morire un uomo, neppure se fosse stato un farang. Ogni tanto mi ricordava che neppure io ero pura, ma solo mezzo sangue. Era geloso, geloso della sua terra, e di come voleva si conservasse: diversa, diversa da tutto ciò che la gente sapeva della Thailandia, che in questo fazzoletto galleggiante veniva ancora chiamata Siam. Era orgoglioso, come tutti i Thai, il privilegio di non aver subito colonizzazioni li rendeva superiori, almeno ai loro occhi. Io ero l’eccezione che confermava la regola: metà farang, metà thai.
Amavo Nhaa, e lui amava me. Tutto qui.

Si era avvicinato alla porta per guardare l’orizzonte, che tra i rami e le foglie della vegetazione, regalava frammenti di mare. In silenzio, coi piedi nudi e freddi, gli ero arrivata di spalle, appoggiando la mia fronte alla sua schiena, le mie mani leggere carezzavano i sui suoi fianchi; costeggiando la linea della sua vita, arrivavo agli addominali bassi, dove le mie mani non affondavano. Mai.
“Facciamo l’amore”.
Glielo chiedevo a bassa voce, perché capisse quanto lo volevo.
Il tono delle sue risposte era sempre diverso da quelle delle mie domande. Lui non mi rispondeva, lui mi prendeva. Nel posto dove si trovava, come un animale maschio che prende e copre la sua femmina. Doveva solo mordere la calotta del mio collo, a quel punto non ci sarebbe stata più alcuna differenza.
Mi aveva presa così anche quel giorno, senza parlarmi, senza rispondermi. Facendomi ruotare mi aveva appoggiata alla finestra che dava sui durian, e scostando pareo e slippino assieme, mi aveva penetrata così, come piaceva a lui. Era sempre un gemito poco soffocato il primo, a Nhaa non piacevano le donne che gridavano, e sbattendo sonoramente la sua pancia contro i miei glutei, finiva poco dopo per accasciarsi sulla mia schiena, ansimando sottovoce. Poi si scostava, e si asciugava con un lembo del pareo. Sulla mia coscia scendeva un rivolo biancastro e opalescente. Il suo sperma baciava la mia carne, che rimaneva spesso calda e insoddisfatta. Non avevo quasi mai orgasmi con Nhaa, e per questo la voglia di farmi prendere da lui non finiva mai. Mi piaceva però la sensazione che provavo, quella di assoluta appartenenza. Lui aveva firmato col suo seme i confini del mio corpo e della mia anima. Tornavo ogni volta a farmi prendere da lui, e sempre me ne andavo quasi insoddisfatta, con la voglia di andare avanti, di fare pochi passi e tornare ancora a dargli il mio corpo, per usarlo e darmi il tormento dell’insoddisfazione… Così’ capitava nei miei viaggi di andata o ritorno dalla sua capanna, di sedermi ai piedi di una palma, e di masturbarmi a piene mani, pensando a lui, e al piacere che fisicamente proveniva dalle mie mani, mentalmente dal suo appartenergli.

Non mi pulivo mai dai suoi umori, li lasciavo dove si trovavano fino a quando arrivavo alla spiaggia e di lì al mare, perché lo sfregamento delle cosce tra sperma e sudore, mi procurava la sensazione di caldo e bruciore.

“Sei stata con lui”?
“Nhaa, non è neppure cosciente, non ha ancora riaperto gli occhi. Non so se vivrà, per questo ti sto chiedendo di aiutarlo, da sola lo sai, non posso fare molto”.
“E perché dovrei”?
“Perché te lo chiedo”.
…….
“Verrò domani”.
“Non so se ci sarà un domani, per lo straniero”.
“Ho detto che verrò domani. Se muore prima, brucia il suo cadavere”.
 
  Con un balzo era saltato fuori dalla veranda, verso il sentiero di Wan. La sua risposta non ammetteva repliche.
Lo guardavo mentre si allontanava, di spalle, il sole baciava la pelle ambrata e imperlata di sudore leggero.
Non era molto, ma era già qualcosa. Se il farang sopravviveva alla notte, aveva buone possibilità di vivere, perché Nhaa lo avrebbe salvato.
 
           

 

(alemar)