|
La doppia
punizione
capitolo nono
Il sonno impudico e la bellezza
|
|
|
|
Mentre si muove verso le sue
stanze, col passo lento di quando ha pensieri, troppi, a
rovinargli nella testa, nel pomeriggio di buon sole, il Senatore
guarda oltre la tenda aperta nella stanza di Rebecca.
La donna dormiva, nuda, solo leggermente coperta dal velo
sottile di una tenda della zanzariera che avvolgeva il letto ed
era sollevata durante il giorno, a favorire l’aria e il suo
circolo a dare sollievo alla calura della pelle.
Dormiva come era usa dormire lei, sul fianco, quando per
prendere sonno dopo i loro giochi lei lo cercava. Per aderirgli
alla pelle.
Impudica come una bambina non usa che la pelle sulla pelle e
allarga le narici al loro odore che si fonde, inarcando la
schiena a cercare morbidezza e sonno.
E prendeva, confortata dalla mescola calda e dolce delle carni,
presto sonno. Quando lui le permetteva il sonno nel suo letto e
restava poi sveglio ad osservarla.
Piccoli scatti delle dita come i gatti, nel suo sonno, a tradire
i pensieri che probabilmente le scivolavano e si rincorrevano in
lei, nel sonno, dentro.
Agitando emozioni celate anche nel sonno suo, probabilmente, e
lei muovendo le dita in microscopici scatti come li hanno i
bimbi. O i gatti.
Si fermò, il Senatore, guardandola ed entrò nella stanza dove la
ragazza dormiva. Guardò nel sonno la purezza dell’impudicizia
assoluta di quel corpo.
Dell’essere suo senza difesa, che conosceva e aveva scelto in
lei come ragione del possesso, di lei che si offriva, a volte
fino ad essere incurante del ferirsi. Nel donarsi all’uomo che
la prendeva e stringeva.
Gli piaceva quell'assenza di ogni forma di malizia che non fosse
quella del gioco imparato da ragazza, il non conoscere Rebecca
la malizia della cortigiana, quella che sa di vecchio e di
mestiere accorto. Non di energia selvaggia e sesso.
La guardò mentre dormiva, il volto steso da ogni pensiero del
suo giorno, e la trovò davvero bella.
E, come sempre, quasi si commosse a vederla non visto. Il
pensiero di come fosse pulita, la piccola schiava impudica e
ribelle.
Di come fosse fresca e pura la sua pelle nel caldo pomeriggio di
primavera incipiente. Poi scacciò i suoi stessi pensieri,
ridendo della sua inattesa tenerezza e dandosi, ridendo a
rincuorarsi, del debole e del vecchio.
E, in silenzio, perché anche lui aveva sonno, si ritirò nelle
sue stanze. Senza che lei, pensò muovendosi quasi scivolando
lungo le stanze, nemmeno si svegliasse.
Si addormentò pensando a lei che dormiva.
Sorridendo come bambini entrambi.
Senza saperlo l'uno dell'altra, e in quel sorridere senza
bisogno nemmeno per sentirlo di vedersi.
Dormì.
E sognò di sognare e raccontarsi un sogno. Irreale, perché anche
parlandone al tempio, quando andava al risveglio a cercare chi
dei suoi frammenti di sogni sapesse farne premonizione e monito,
invano mai era memore realmente. Perchè dei sogni suoi aveva
poca o nulla memoria al giorno dopo, già pochi attimi dopo il
risveglio.
Gli sembravano perfetti. Completamente tondi, senza spigoli o
salti di logica. Appena desto.
Poi cominciavano a sfuocarsi, dapprima in modo impercettibile
quasi, poi a perdere contorni vividi e netti inesorabilmente.
Poi a diventare illogici.
Evaporavano man mano che si destava del tutto alla logica e alla
veglia la sua mente.
Semplicemente.
Inesorabilmente.
E da giorni e mesi, nel crollo immanente che sentiva del suo
mondo e della città che amava e odiava nel segreto del suo
petto, i sogni suoi si erano fatti difficili, già quando ancora
gli sembravano, ancora quasi dormiente, tutti tondi e perfetti.
A volte portava con sé nei sogni pensieri e ansie, cure pesanti
che doveva adempiere.
Affanni.
Oltre all’affanno di Aminah e a quello naturale ormai degli
anni.
Perché più le sorti di Roma volgevano all’incertezza più
crescevano i complotti, le falsità, gli accordi vili a
salvaguardare privilegi e ricchezze. Le trame tessevano
ragnatele di bava e vischio in cui anche gli amici si perdevano
e strisciavano essi stessi.
E poi si sa, andava ripetendo a se stesso per cercare di
rincuorarsi, che da sempre il Senato era sede persino in
circostanze ben più favorevoli di tali serpi e tali mostri da
fare delle storie antiche del cieco cantore greco, favole lievi
per ragazzi. E lui a entrare lì, salite le maestose scale di
marmo tuscio, giorno dopo giorno aveva sempre maggior nausea.
Si addormentò così quella notte, lasciata la carezza depositata
sul corpo della schiava dai suoi occhi, col pensiero del corpo
di Rebecca. Che si mescolava all’immagine di Aminah, del suo
corpo, di lei che si allontanava nella via.
Con lui, spettatore quasi attonito, nel sogno si era visto,
fermo sul selciato di una via che non conosceva, né riconosceva
nemmeno in sogno.
Nel suo scivolare nella notte del suo incubo ad apprendere
nuovamente ciò che poche ore prima gli era stato detto
veramente.
Attonito aveva ascoltato poche ore prima il racconto del
complotto, del tentativo di uccidere Terzio Sabino.ad opera di
due ignoti assalitori, in riva al fiume. Dove Terzio si era
recato con la moglie infedele di un senatore.
Di cui tutti sussurravano un nome che nessuno osava ad alta voce
profferire.
Che assai probabilmente Terzio amava e possedeva lì, come
sussurravano mille gole profonde, incurante del rischio di
essere visti da pastori o pescatori, solo per spregio al di lei
consorte. O per il gusto insano di esser visto nei suoi
amplessi.
Per quella mescola inestricabile di storie private e necessità
pubbliche aveva appreso che la cena a cui aveva preparato se
stesso e Rebecca, nella casa di Terzio, durante la quale
progettava di riprendere nemmeno lui sapeva come Aminah, era
stata così vietata con atto pubblico del Senato.
E rinviata per ragioni di salute pubblica, a data indefinita.
Quasi fosse della città un atto non privato ma pubblico il
baccanale in cui ricchi e nobili si stavano apprestando a
trasformarla. In nome di un pericolo reale, o ritenuto tale.
Che dietro il coltello dei due mercenari si celasse non solo un
marito in cerca di vendetta ma il tentativo, per l’importanza
pubblica dei commensali e di Terzio in primo luogo, di
sovvertire l’ordine e impossessarsi del governo, agitando il
degrado morale e la dissolutezza degli uomini al governo, fu
decretato che fosse sospesa la festa e che i miliziani delle
truppe imperiali vigilassero all’osservanza dell’ordinanza.
Necessità di mostrare morale e muscoli al popolo, in cerca di
una popolarità etica da troppo e troppo compromessa.
Ed è nel mezzo della mescola, che nel sonno ha una logica
irreprensibile che non riuscirebbe mai a ritrovare nel
concatenarsi dei pensieri poi da sveglio, che sul suo sesso si
cingono, inattese e all’inizio impercettibili, le labbra.
Il velo di saliva che lo bagna e ancora non lo sveglia.
L’anello rosso della bocca sotto la vena della testa a
succhiarne il sangue e farla desta.
La saliva fatta copiosa e la carezza della lingua.
Che avvolge e lecca.
Il moto della testa. Inarca il corpo, ora, lui nel dormiveglia.
E lei si arresta.
Poi inesorabile lei, che continua la carezza, sfiora il suo culo
con le dita, l’ano che si serra. Sotto quella carezza lo agita e
lo fa mare in tempesta.
Ora lui è desto e si presta e offre cosciente alla carezza.
Guarda il moto del capo di Rebecca che fa della bocca di lei
un’estasi perfetta. Esce impietoso il primo fiotto dalla punta,
e lei ancora non è ferma.
Nel moto della bocca padrona del suo orgasmo, quasi contrasta
pompandone la corsa, i fiotti del suo sperma. Lo spreme e
svuota, lui vorrebbe quasi fermarla, lasciarsi scivolare sulle
sue stesse onde. Ma lascia che sia lei a fermare bocca, lingua e
testa, quando è conscia di aver svuotato con violenza anche
l’ultima sua goccia..
Che apra la bocca e lasci colare dalle labbra socchiuse, come un
bacio, sul suo ventre il suo stesso seme caldo. A scivolargli
lungo il fianco.
Gli stringa i fianchi, posi la testa sul suo ventre, i capelli
sparsi, felice della gioia che gli ha offerto.
Non parlano.
E’ giorno fuori dalla finestra.
Quando lui uscirà lei si starà lavando con l’acqua riscaldata
nel catino. Lui andrà in cerca di due uomini e un coltello. Li
troverà, ne è certo. Nella caduta di una civiltà la città è
diventata un nido di serpi e mostri.
Tali da fare delle storie antiche del cieco cantore greco,
favole lievi per ragazzi.
Le trame tessono ragnatele di bava e vischio in cui anche gli
amici si perdono e strisciano, sì, avrebbe trovato, ne era certo
ciò di cui era alla ricerca.
Due uomini che avrebbero liberato da Gaia e da suo padre Aminah,
riuscendo là dove avevano fallito con un altro. Due uomini in
fuga che avrebbero avuto probabilmente anche un prezzo onesto,
visto che di qualcuno che offrisse loro fuga e salvezza avevano
bisogno adesso. Guardando il sonno innocente di Rebecca, si
stupì.
Di come quel giorno dei suoi sogni avesse una immagine e una
memoria così nitida e perfetta.
|
|
|
|
|
 |
pagina 9
|
 |
|
|