|
La doppia
punizione
capitolo ottavo
Rebecca e le lettere
|
|
|
|
Quando comperai Rebecca, ricordo
ancora il giorno della scelta, anche perché, benché ci fosse
un’offerta assai scarna quel giorno, e si sarebbe fatto in
fretta a valutare ogni schiava in vendita, non valutai né
soppesai nemmeno altre scelte.
Mi colpì subito.
Non solo per la bellezza.
L’aria selvatica, l’odore del suo corpo sudato che superava la
distanza tra l’assito su cui era tenuta dalla catena e me, lì
sotto, a terra.
Il corpo nudo, sporco di terra e polvere, lo sguardo di animale
prigioniero con cui sembrava quasi voler sfidare lei la piccola
folla volgare e vociante, che davanti alla pedana di legno su
cui era esibita la merce, si accalcava. Sembrò ai miei occhi una
nobile guerriera, non una serva.
Decisi subito l’acquisto. E feci avvicinare Armida al mercante
per evitare di dovermi piegare al gioco dei rilanci e delle
trattative, coi suoi complici mescolati tra la piccola folla al
solo scopo di fare lievitare il prezzo a dismisura.
Non che ve ne fosse bisogno, di artificiosi e laidi inganni al
rialzo: il mercante ben mi conosceva e, considerandomi un
cliente poco disposto a dare mostra dei suoi acquisti o farsi
vedere troppo a lungo in quella situazione, sovrastimando
oltretutto evidentemente, come fa chi vive di invidia, le mie
ricchezze, mi chiese un prezzo che in altre situazioni avrei
addirittura reputato offensivo.
Ma tale era la rabbia per la lontananza di Aminah, e tale e
tanto il desiderio di azzerare in qualche modo la mia stolta
generosità con Gaia e il padre di lei, che al ritorno di Armida
a me con lo smisurato prezzo, incurante della riprovazione
nascosta in modo inefficace dalla vecchia e saggia serva, feci
un cenno del capo al mercante.
Accettando senza mercanteggiare un prezzo a cui avrei comprato
tre schiave meno belle o un valente gladiatore, da mettere in
campo per dare lustro alla mia nomea in tutta la città per mesi
e mesi. O anni.
Mi allontanai, lasciando ad Armida la piccola sacca di monete
d’oro che avevo portato sotto la tunica per lo scopo, e
delegando a lei le incombenze dello scambio dell’oro con la
schiava.
Mi accompagnarono, fin dove riuscii ad udirle, le proteste e il
brontolio degli altri acquirenti che si erano visti sfilare,
senza avere nemmeno avuto modo di fare offerta alcuna, la carta
più bella dal già misero mazzo esibito sull’assito. Risi.
Pensando a come la mia popolarità, dopo gli ultimi discorsi miei
in Senato e le mie ultimissime prese di posizione in materia di
pene e tasse, certo non avrebbe avuto bisogno di questo
ulteriore aiuto per sprofondare ancora un poco verso l’abisso.
Armida poi, come ho già avuto modo di dire, si prese cura
subito, a casa, di Rebecca, a cui il nome da me fu donato, e la
rese presentabile, pulita, profumata.
Ebbe ragione dei capelli che si rivelarono splendidi, una volta
tagliati in modo regolare, lavati, liberati da grumi di terra e
fango, e profumati e resi morbidi da resine e olii dall’aroma
caldo e mielato. Ne limò le unghie, che aveva belle e forti ma
rotte e troppo lunghe per vivere tra i civili.
Ne sbiancò con una radice di liquirizia e argilla i denti.
Passò pomice di mare sui suoi piedi, sui calli delle mani, sui
gomiti, ne levigò ogni ansa o promontorio in cui il lavoro e la
vita selvatica, da lei condotta tra i barbari suoi famigli,
avessero dimenticato come debba essere morbido e atto al piacere
dello sguardo e delle mani il corpo di una donna, soprattutto di
una schiava.
Quando Armida condusse a me Rebecca ero intento a scrivere una
missiva da inviare al proconsole in Sicilia. Vicino a me stava
in piedi Alfio Decano, il servo.
Il più abile a montare un cavallo tra quelli che vivono nella
mia casa, quello che spesso per questa sua perizia, e la fiducia
meritata col suo passato di legionario, cura da anni le
incombenze di fiducia e tempestività che riguardano i miei
scambi epistolari.
Rebecca guardò stupita i segni strani che tracciavo, e fu la
prima volta che colsi nel suo sguardo qualcosa che non fosse
sfida e odio.
Era evidente che la sua gente non conosceva la scrittura, così
mi venne idea e voglia di fare un gioco.
Chiamai Armida vicina e le dissi di chiedere a Rebecca il nome
di suo padre, e del suo fratello maggiore, se mai ne avesse uno.
Di farseli dire sottovoce di modo che fosse chiaro alla giovane
che io non potessi sentire alcun suono e conoscerli in alcun
modo. Armida ci mise qualche minuto a farsi capire dalla
schiava.
Poi la ragazza chinò il capo verso l’orecchio della vecchia
donna di casa e sussurrò - e numi, era bellissima, e sembrava
una bambina in quel suo stare immediatamente al piccolo gioco
che non capiva ma aveva intuito essere tale – all’orecchio di
Armida qualche cosa.
Chiamai Armida, che aveva le rughe del viso rinforzate e
accentuate dal sorriso, gli occhi intelligenti che le ridevano,
quasi fino ad azzerarne l’età e farla ritornare giovane e bella,
alla tavola e le porsi di che scrivere. Le chiesi di scrivere i
due nomi o quanto meno le lettere corrispondenti al loro suono.
Armida, con scrittura un poco incerta, tracciò due nomi,
scrivendoli come si sarebbero scritti se fossero stati latini,
erano un miscuglio di lettere che nella nostra scrittura non
avevano significato, ma permettevano di essere riprodotti come
suono.
Le feci cenno di portare assai vicina Rebecca, che non aveva
allentato un attimo solo lo sguardo da ciò che la mia vecchia
schiava aveva compiuto sul foglio spianato. Lo sguardo di
Rebecca valeva tutto il gioco.
Ma fu quando presi in mano il foglio scritto da Armida e dopo
una pausa esagerata e assai teatrale, le lessi i nomi del padre
e del fratello, senza nemmeno io sapere io però, in verità, cosa
leggevo, che gli occhi di Rebecca si aprirono come fiori.
Grandissimi e di una bellezza infantile e sconvolgente.
Indimenticabile lo stupore che vi colsi, non li avevo
abbandonati un attimo solo coi miei.
Stupore e poi quasi paura. O quanto meno reverenza.
Io risi e risero Armida e Alfio Decano.
Rebecca ci guardò in modo interrogativo, con un misto di
emozioni che trasparivano impudiche, indifese e nude dal suo bel
viso.
Fu così che Rebecca conobbe la magia. Della scrittura.
La sua intelligenza, e le pazienti e difficili spiegazioni in
una lingua che lei padroneggiava assai poco, le fecero capire
che quell’esclamazione, che tradotta in latino avrebbe
significato “Dio”, con cui mi aveva chiamato, quando aveva
sentito dalla mia voce i nomi dei suoi parenti che mai mi aveva
detto, era quanto meno esagerata.
Il giorno dopo Armida, con pazienza che le conosco da una vita,
su richiesta mia, anticipata da Rebecca stessa, aveva cominciato
le sue piccole lezioni di scrittura.
Ed è per questo che non posso non stringere e baciare, divertito
ed emozionato, Rebecca ora.
Ha sfilato la veste, è nuda.
E bellissima, una statua di carne temperata da una vita sana e
senza vizio o ozio alcuno. Ha i capelli acconciati e legati in
una piccola palla scura, due bacchette di avorio tengono salda
l’acconciatura e offrono nudi collo e nuca.
Sul seno ha dei segni, incerti. Sulle coppe, sopra i capezzoli
scuri e grinzosi che così tanto amano possedere le mie labbra,
le mie mani, le mie dita e i miei denti.
Su ambo i seni, nel loro gonfiarsi di donna, asimmetrico,
imperfetto eppure riconoscibile senza dubbio alcuno spicca il
mio nome.
Scritto da lei, davanti allo specchio, alla rovescia, con mano
resa ancor meno sicura dal capovolgersi dell’immagine. Riflessa,
dal foglietto scritto da Armida e che lei serba appallottolato
nella mano, stretta lungo il fianco dalla tensione. Si lascia
guardare, gli occhi le si abbassano, la mano che regge il
modello da cui ha copiato lettera per lettera è bianca dalla
forza e agitazione con cui lo serra. Quasi avesse paura che la
scritta di Armida avesse potuto tradirla se l’avesse lasciata
libera di respirarle dentro il palmo.
Mi sono voltato. A lato.
Dopo aver sorriso.
Perché non è bello e dignitoso che una schiava veda una lacrima
lucida. Tentennare incerta se evaporare negandosi, o liberarsi
del tutto e scivolare.
Negli occhi del padrone, di un uomo della mia età e del mio
ruolo.
Un Senatore dell’Impero.
Mi resta il dubbio, nel suo leccarmi gli occhi mentre la prendo,
e la sovrasto, il sesso piantato nel suo accogliente ventre.
Fermo, attendendo che lei cominci ad agitarsi, sinuosa e
ansimante, per svuotarmi e goderne, facendomi godere del suo
stringermi ritmato dalle onde sue, lì dentro.
Mi ha leccato gli occhi.
Avrà trovato il sale della lacrima che ho negato ai suoi,
girandomi.
La scritta sul suo seno si è stinta contro il mio petto,
sfregandolo. Lo vedo adesso, resta una macchia appena più scura
della sua stessa carne, non più che il calco di lettere
imperfette.
Lo vedo sollevandomi da lei, inarcato sulle reni, affondando in
lei fin dove riesco, mentre inizio a riempirle di seme caldo il
ventre.
|
|
|
|
|
 |
pagina 8
|
 |
|
|