La doppia punizione
capitolo secondo

La duplice punizione

     
  Ed è tornando a casa dal Senato che ho modo di vederle lì.
Lei ancora nuda come l’avevo lasciata uscendone presto il mattino. Era rientrata a un’ora in cui credo la luce del giorno nuovo aveva fatto già comparsa, non mi ero destato completamente al suo arrivo.
E si era infilata, incurante dell’odore della sua notte lontana, al mio fianco, impudica come una statua, ma così calda che non avevo potuto nel sonno fare a meno, in modo naturale di stringerla a me.
Lungo la strada del rientro avevo comperato agrumi di Baetica, e posai l’acquisto a colmare di fragranza la stanza. Per coprire l’odore di sesso che vi aleggiava in modo quasi sfrontato e forte.
Nuda sul letto lei giaceva col capo posato sul grembo di Amina, la schiava cirenaica, la sua favorita, quella che la sera prima su mia richiesta si era presa cura di lei e l’aveva apparecchiata per essere ceduta in dono. Stava narrandole la notte appena trascorsa e nel narrare giocava con due dita, indice e medio sulle labbra del sesso di Amina, così vicino al suo volto che sono stato certo potesse sentirne l’afrore eccitato, gonfio, lucido, che ne potevo scorgere persino io, da lontano.
Schiudeva il taglio, come se fosse un gioco di bambina, intingeva il dito sino a farlo avvolgere e svanire, lo ritraeva lucido, poi ancora, raccontandole lo ricuciva, labbra di una ferita aperta, sotto il tocco delle dita.
E il racconto doveva, oltre al gioco malizioso e un po’ infantile di scrivere sul corpo di Amina così del suo piacere, avere densi e cospicui contenuti perché Amina emetteva a rantoli ravvicinati all’approssimarsi rapido del suo piacere.
Provai all’istante una fitta al costato, carezzai gli agrumi, colmandomi del loro aroma le dita, che portai al viso alla ricerca dell’odore di lontani agrumeti, e, facendo notare solo allora il mio ingresso nella stanza, ordinai ad Amina di alzarsi in piedi.
Non avrei mai potuto battere lei, segnarne il corpo, lasciare righe dolenti a sanare il mio compiacimento per l’obbedienza e al tempo stesso il mio dolore. E fu Amina a offrirmi di che saziare la mia sete.
Legai i polsi di Amina con la striscia di cuoio che uso per cingermi la toga e appesi il capo alla colonna di legno chiaro che regge a un lato il velo sopra il letto.
Ne ammirai la forma nuda, il seno che passò dalla prossimità del piacere alla convulsione del respiro ben sapendo ciò che avrei inflitto alle sue reni. Poi avvitai le due viti siracusane, applicazione della vite di Archimede, senza fine, serrandoli i capezzoli che si offrivano, le braccia alte sopra il capo, lei appesa, eretti, congestionati dall’eccitazione e tesi. Strinsi finchè non la sentii gemere e piegare sulle gambe, come una gomena di nave in porto, quando entra l’eco della burrasca oltre il frontemare. E l’ormeggio sembra cedere. E cantano i legni e le gomene
Lei sul letto era sdraiata, le gambe larghe e il sesso glabro luccicante e nudo ora ospitava su se stessa il gioco delle dita.
Presi il cuoio intrecciato a nido stretto, terminante a punta, rigido, cattivo nella concia, dello staffile corto che usavo nelle uscite col tiro a due.
E incominciai a colpire.
Leggendo i numeri del mio infliggere righe, le natiche prima e poi la schiena ,sulle labbra di lei sdraiata, oscena, che non potevo e avevo cuore di punire. Sul letto, ad ogni colpo sulle carni di Amina, ad ogni suo grido soffocato, sembrava fosse lei a sentirne il morso caldo sulle reni.
Colpii dieci volte, il polso diventato quasi pregno di vita sua, e Amina ora nemmeno quasi si reggeva più in piedi, già dopo la settima aveva affidato solo al cuoio legato ai polsi la sua stazione, cedendo sui polpacci.
Lei nel letto era sconvolta e sconvolgente, nuda, le ginocchia alzate, la mano, prima una poi due affondata nel suo sesso continuava a godere. Sapevo quanto avrebbe desiderato pagare così, lei e non la schiava preferita, di avere avuto col giovane Roganziano, la notte prima tanto piacere.
Sapevo quanto la eccitava la rabbia crudele con cui stavo facendo affiorare il sangue sulla schiena di Amina.
Che era misura del mio amore, e del mio patire.
Amina ad ogni colpo aveva avuto un grido, e ad ogni colpo, mescolato in gola fiele e miele, lei ad ogni colpo aveva affondato, guardandomi con quel suo volto di bambina, le dita a darsi, spingendo con violenza i polsi al pube, piacere.
Lasciai la stanza, ero turbato almeno quanto lei. Amina era appesa, senza energie, per quello che sapevo di lei, aveva mescolato certamente orgasmo e dolore, come era solita riuscire. Dei colpi le restava nele gambe molli ora solo un interminabile, continuo tremore.
La schiena e le reni erano gonfie di righe dall’anima vermiglia. Cedute le caviglie sembrava sollevata quasi dal suolo, agitata da un piccolo vento, e senza energia per risalire.
Lei scese nuda dal letto. Spettinata.
I seni alti con le punte accese e tese.
Portò Amina a giacere, carezzò in punta di dita i segni che avrebbero dovuto essere suoi.
Passò la lingua a cercarne il sale del sudore e il dolce vischio del sangue dove la pelle era ceduta al dolore.
Poi prese creme e unguenti di Cilicia, e con mano dolce, carezzandola la cominciò a pulire e accudire.
In strada incontrai Sabinillo e Aristone e cominciammo a discutere del principio vitale da cui prendono forma le piante, gli animali, e gli esseri umani.
Alla ricerca di un perché alla vita, che continuava.
 
 
     

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