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La doppia
punizione
capitolo terzo
Della giustizia e
dell'ingiustizia
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E torna, per la seconda volta la
febbre, in pochi mesi, a violarmi. Corpo e sogni.
E con la febbre scivolo di nuovo, per mano al sudore gelido del
corpo troppo caldo nella notte, in quella casa.
La vita era proseguita, senza scossoni apparenti. I pochi
tumulti popolari dovuti alla nuova tassa su grano e macinato
introdotta per finanziare, su nostra decisione in Senato, le
spedizioni dell’imperatore Gallieno contro i barbari che
spingevano da nord e da est sui confini dell’Impero erano stati
repressi nel sangue. Per dieci giorni e dieci notti non era
stato salubre e sicuro uscire dalle vie del centro e
avventurarsi soli nelle zone di mercato e di opificio.
Poi, come era salita, l’onda della protesta disperata, era
scemata, aveva ragione Aristone dire che il popolo non ha
memoria, quando ha solo fame.
In quei dieci giorni, forse succube di una ritorno di febbri di
palude, che mi porto dietro da un viaggio in Apulia fatto quando
ero proconsole da giovane, e forse influenzato dalla decisione
cinica che anch’io avevo votato, in nome di un bene superiore,
presi una seconda decisione. Che misi in atto in forma che
dimenticherò presto, spero di riuscirci, pur non essendo uomo
del popolo, né quanto meno affamato.
Una decisione vile.
Il ricordo di lei dopo l’incontro con il giovane Roganziano mi
tormentava.
Non mi dava pace.
Non avrei mai potuto accusarla di quel suo svergognato piacere,
di cui io solo ero stato artefice e ruffiano. Né tanto meno di
quell’odore di sperma e sudore che avevo trovato sul suo corpo,
nel suo letto, sul suo sesso così appagato. Nemmeno la punizione
inflitta ad Aminah davanti a lei, la prima così violenta da me
mai inflitta ad una schiava, aveva dato pace al ribollire dentro
di me di una forma per me finora sconosciuta di furore. Così
decisi.
Con la complicità che da sempre io stesso volevo con lei,
lasciai sulle mense e nella nostra stanza del vino. Nuovo, rosso
di sangue vivo, e odoroso di botte resinosa.
Sapendo che lei non avrebbe resistito, al chiuso delle mura,
sentendosi protetta dal mio amore. A farne uso e abuso.
E lei non tardò a commettere l’errore.
Tornai a casa dal Senato, stanco e anche avvilito, dalle notizie
che i messaggeri riportavano dal confine. Scontri saltuari con i
Goti, si erano risolti in modo non sempre favorevole alle nostre
corti. A fronte dei nostri attacchi tribù di Sciti, Peucini,
Greuthungi, Ostrogoti, Tervingi, Visi e Gepidi, nonché Celti ed
Eruli, con brama di vendetta irruppero in territorio romano
saccheggiando molti distretti
Parecchi nostri soldati, reclutati da tempo troppo recente tra
le genti galliche avevano anche disertato e, forti delle loro
conoscenze delle cose romane, e ella nostra arte militare,
avevano aiutato i nostri nemici a superare il limes in più
punti.
Ero avvilito, dell’inutilità apparente della legge crudele e
impopolare fatta votare e votata e rincasai alle prime ombre
della sera.
Trovai Aminah, entrando nelle stanze della notte. Mi venne
incontro e lo fece con aria così maliziosa che capii che il mio
stratagemma aveva funzionato e che lei stava adoperandosi per
proteggere la sua padrona. Seducendomi.
Aminah mi porse un telo umido di vapore perché detergessi il
viso rilassandolo, e nel farlo mostrò la curva impudica del seno
nella veste aperta sul avanti. Il seno e capezzoli così scuri,
sempre contratti, come se avesse brividi incancellabili, di
natura.
Fui tentato di prenderla.
La piccola schiava era ben padrona delle sue arti di seduzione,
ma avevo il mio piano da realizzare.
Scostai la giovane donna e trovai nel letto lei, nuda. L’orcio
del vino di Illiria quasi vuoto ai piedi del letto.
Ordinai ad Aminah di andare, rivestendosi velocemente, a
chiamare Castrizio Firmo. O Sabinillo o se li trovava a casa
entrambi. Lei obbedì, credo di malavoglia, intuendo cosa volessi
fare.
Quando giunsero a casa feci loro vedere lo scempio di quel corpo
così amato, nudo, il respiro pesante e odoroso di vino, osceno,
della donna per cui loro sapevano io ero letteralmente
impazzito. Mi furono bravi testimoni.
Avrei avuto diritto di vita su di lei, volendolo, perché le
leggi da sempre vietano l’uso del vino alle donne accasate o
vergini di famiglia, concedendolo solo alle meretrici o alla
donne pubbliche nel postribolo e nelle orge. Tolsi così la mano
dal suo capo, quella che allo sponsale si pone in segno di
protezione, sostituendosi al padre e la cacciai.
Non dopo aver pagato lauto compenso al padre di lei, di nascosto
da tutti, per essere certo che l’avrebbe accolta nuovamente in
casa non facendole mancare nulla. La scelta era darle morte o
renderla a chi me l’aveva ceduta in sposa, coi diritti di padre
su di lei. Mi assicurai con una quantità inusitata di sesterzi
in oro che lui la riprendesse allora.
Parti per Capua due giorni dopo, portandosi con sé Aminah, che
le avevo donato io stesso a suo tempo come schiava.
In quei due giorni le chiesi di non uscire mai dalle sue stanze,
e tenni io Aminah con me nelle mie. E feci solo con lei l’amore.
Mi affezionai ad Aminah, più in quei due giorni che in
precedenza quando era solo la schiava della donna che amavo.
Provai emozioni nuove davanti al corpo quasi acerbo, alla sua
capacità di esprimere libidine animale e perdizione selvaggia
con lo sguardo ancora di bambina.
La presi in ogni modo la rabbia e la successiva passione mi
suggerirono di fare. La frustai più volte, senza ragionevole
motivo, solo per sfogare qualcosa di indefinito che mi ribolliva
dentro, e infissi aghi nel suo seno, usai i fermagli delle sua
veste a tale scopo, solo per vedere lacrime di sangue imperlarsi
sulla sua pelle, oltre a quelle di sale agli occhi, che leccai
goloso.
Lei non ebbe un solo attimo in cui cercò riparo.
O cercò di sottrarsi a nulla in modo reale.
Quasi sfidandomi. Si lamentò, sì lo fece. Pianse e implorò.
Ma quando poi salivo su di lei a prenderla, sazio del crescente
suo dolore incassato, aveva quello sguardo privo di sconfitta,
quasi di sfida, di chi aveva vinto per davvero. Ed è in quello
sguardo che trovò strada il mio sentire.
Che ogni volta che le diedi dolore, e fu un crescendo,
nell’amore che dopo mi serviva a ridare pace al cuore, io ero un
passo oltre, suo. Ancora. La vidi bella come mai l’avevo forse
vista prima.
Coi segni delle mani, della frusta, delle candele portate dal
tempio, quelle di cera orientale, profumate di spezie, le più
preziose. Sul corpo.
E fu quando il padre venne a prendere la donna che avevo
ripudiato, e incassare la ricompensa per la generosità comprata,
e con lei anche Aminah che mi resi conto di aver fatto qualcosa
che mi avrebbe poi nel tempo tormentato. Lei non si voltò salita
sul carro, sopra le casse dei suoi abiti e monili che tutti,
senza eccezione acuna le avevo permesso i portarsi via.
Aminah sì. Seduta a cassetta, col padre della sua padrona a
fianco, si voltò una volta sola.
Io riconobbi all’istante quel sorriso di sfida e di paradossale
e incongruente protezione che solo nell’amore aveva.
Visto tutte le volte, nei due giorni precedenti, in cui lei
accoglieva serrandomi le cosce alle reni, il mio morire e
spegnermi in lei, esausto, soddisfatto ed appagato. Squassato
dall’ultima violenta spinta delle reni mie, stretto nella sua
fica nuda.
Comprai il giorno dopo, dopo faticosa ricerca, perché gli
insuccessi militari alla frontiera non rifornivano la capitale
di nuovi schiavi come un tempo succedeva, una schiava nuova, che
si prendesse cura della mia stanza e del mio piacere e
alleviasse le mie ire e i miei pensieri.
La scelsi tra le giovani di un villaggio razziato respingendo
gli alemanni a nord oltre il limes che avevano varcato pochi
giorni prima. Odorava di animale selvatico, quasi di fiera, nel
sudore del viaggio in catene. La pelle era chiarissima.
L’odore era acre come quello del sesso delle vergini vestali nel
trionfo della loro primavera.
La pelle chiarissima, cosparsa di piccole macchie scure, come
spesso è quella delle donne delle tribù del nord del nostro
impero.
Come quella di Aminah.
Le diedi un nome, perché il suo era impronunciabile, nella
lingua cacofonica e sgraziata del suo paese, e poi a me nemmeno
piaceva. Mandai un messaggio il primo al padre della donna che
avevo cacciato da casa mia, con un servo a cavallo. Ci mise due
giorni ad andare e due a tornare.
Lo punii della lentezza e della mia troppo lunga attesa, senza
ascoltarne la ragione.
Portò le notizie che avevo chiesto. Lei stava bene, il padre ne
aveva cura.
Sul vendermi Aminah al momento non ne voleva però parlare.
Chiamai Rebecca, il nome l’avevo scelto dalla libro sacro dei
cristiani, in spregio a loro. Chiamai Rebecca, la nuova schiava
e per la prima volta, letto, accartocciato con stizza, e
bruciato il messaggio di risposta nel braciere, la frustai.
Per cercare nei suoi occhi nuova sfida.
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