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La doppia
punizione
capitolo quarto
Il dono di un anello d'oro
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Le giornate continuavano a
correre lente nella disfatta incipiente di un impero.
Le notizie dai mille fronti aperti lungo i confini di un mondo,
che dimostrava tutta la sua folle e ingovernabile estensione
quasi all’improvviso, rimbalzavano nei capannelli che intorno ai
Fori e al Senato andavano aggregandosi e disaggregandosi nel
corso apparentemente sempre uguale delle settimane.
Furono programmate, per decisione del Senato, corse di bighe e
giochi di atleti, per celebrare i fasti di qualcosa che
cominciava a gemere vistosamente sotto le pressioni interne ed
esterne, quasi che il governo della città volesse esorcizzare,
agli occhi ancora increduli del popolo, presagi neri. Il
senatore votò a favore dei giochi, come quasi tutti, tranne due
tribuni che avevano riscoperto furori quasi da pre-impero nella
loro oratoria allarmata e moralizzatrice.
Non furono ovviamente ascoltati e, nell’occasione dei giochi, fu
indetto, a maggior lustro e onore dell’Impero, anche un grande
mercato, della durata di quasi una settimana, da tenersi fuori
le mura. Con merci, cibi, lane e tessuti. Giocolieri, acrobati e
saltimbanchi giunti da ogni città del Lazio e dalle regioni
vicine.
Rebecca in quelle settimane che intercorsero tra il suo acquisto
e i giorni dei giochi di primavera, cominciò ad avere e scoprire
nuove cure, prima a lei sconosciute, del suo corpo e del suo
vestire. L’anziana schiava che si era presa cura a suo tempo
della crescita di Aminah, rinnovò le sue arti, una volta ancora,
su richiesta del senatore. Insegnandole a colorare il viso, e
camminare con una grazia di danza leggera e felina che presto,
per le sue forme e la sua predisposizione, le divenne persino
naturale.
Le insegnò come comportarsi in presenza del padrone, che lei
sola, schiava da sempre lì, poteva, unica nella casa, in virtù
dei servigi fedeli e della debolezza di cuore del senatore di
fronte alle sue ormai vaste rughe, chiamare semplicemente il
senatore e non il padrone.
Insegnò a Rebecca la cura del suo corpo, l’igiene che a lei
mancava nella vita precedente. L’arte di sedurre abbassando
occhi, sguardo e viso.
Si divertì vedendo la giovane schiava giocare con i suoi saponi
odorosi al miele di artemisia. Le insegnò a camminare calzando
calzari, avendo cura dei suoi piedi che liberò in breve, con
pietra pomice, bagni caldi e erbe sapientemente mescolate, delle
callosità che l’uso del camminare sempre scalza le avevano
causato sin da bambina.
Le insegnò a non coprirsi se l’abito la scopriva, seno o cosce o
ambo le cose, davanti al padrone o ai suoi ospiti, se non dietro
sua richiesta, di un breve e secco gesto della mano. Fece poca,
pochissima fatica, perché la ragazza selvaggia non aveva
pressoché senso del pudore o del celare il suo corpo. Anzi
sembrava scegliere ogni movimento per restare esposta e nuda,
senza dare però a vedere la malizia sottile con cui li
sceglieva, quei gesti che facevano scivolare la tunica dalle
spalle. O aprirsi, così realisticamente accidentalmente, il
laccio che la cingeva in vita.
Poi le insegnò a colorare di terre rosse i capezzoli, per
renderli più evidenti, sanguigni, scuri e offerti allo sguardo e
ai desideri. Si prese cura del pelo del suo sesso che era
incolto e gli dette forma aggraziata, radendolo al punto che non
perdesse morbidezza, non fosse di attrito e fastidio sul sesso
del padrone, ma fosse rado e corto a sufficienza da piacere. Non
fu difficile perché il pelo di lei era così chiaro e, sebbene
incolto, rado e morbido di suo, che dopo pochissimi tentativi di
forbici e rasoio ebbe felicemente ragione del vello chiaro. La
vecchia Armida insegnò poi a Rebecca l’arte e i modi del
servire.
Quando il padrone aveva ospiti, da chi cominciare a mescere il
vino, quanto e come. Come tenere gli occhi bassi. Cosa che alla
ragazza veniva poco naturale e che suscitò più volte le ire del
senatore, che quando erano in pubblico avrebbe desiderato un
comportamento più dimesso, sottomesso e rispettoso. E non quel
suo modo quasi sfrontato di guardare, curiosa come una bambina a
cui tutto il mondo fosse nuovo, uomini, donne e cose.
Armida, su richiesta del senatore chiamò il fabbro che si
prendeva cura dei cavalli e del carro quando zoccoli o ruote
erano da ferrare.
Dette al fabbro, che era maniscalco pure, e dentista, quattro
sesterzi d’oro vecchio. Da fondere e forgiare.
Ridurre a filo tondo, piegare su se stesso come un piccolo
serpente d’oro, avvolto su due spire.
Poi, mentre Armida teneva le braccia di Rebecca bloccate, i
piedi della giovane schiava ancorati e legati alle gambe del
sedile, con un ferro sterile rovente, il fabbro forò un labbro
del sesso della schiava. Avevano fatto bere vino a Rebecca, per
la prima volta, di modo che l’ebbrezza certa l’avrebbe aiutata a
contenere il dolore. In bocca aveva un ramo di salice
scorticato, un piccolo bastone chiaro in cui poter affondare i
denti senza spezzarli se li serrava troppo per il dolore.
L’odore della carne e del fuoco morse le narici del fabbro e di
Armida con violenza. Il ferro caldo passò veloce, con la punta
rossa sottile nelle carni di Rebecca sigillandole, al suo stesso
affondarci veloce, all’istante col calore. Poi, dopo aver messo
crema di propoli e olio di lino sulla ferita cullandone il
dolore con le dita, Armida asciugò il sudore copioso che
imperlava la fronte della ragazza, colandone misto a lacrime sul
viso, gocciolandole sui seni. Il maniscalco fece scivolare il
piccolo serpente d’oro, le sue due spirali nel piccolo foro
viola, gonfio al punto di sembrare carne chiusa ancora. Poi ne
serrò con le pinze piatte le due spirali chiudendole in modo
definitivo.
Solo dopo tre giorni il senatore potè giocare con l’anello e
stuzzicare il labbro infibulato con legittimo piacere. Le cure
della vecchia schiava avevano accelerato la cicatrizzazione
dell’ottimo lavoro del fabbro e l’anello luccicava, splendido,
docile a ruotare sotto le dita del padrone, lucidato a dovere
sulla carne ritornata rosa chiara che lo tratteneva a vita.
Il senatore colse con piacere lo sguardo basso di Rebecca quando
la mandò a chiamare. Le sollevò il viso dopo aver constatato la
bellezza del sesso curato e del monile che trattenne tra le dita
tirandola a sé. In modo di avere gli occhi della schiava di
fronte ai suoi.
E furono lo sguardo di orgoglio e di fierezza, e il coraggio che
vi lesse a dare fuoco all’istante al suo sesso e al suo cuore.
Fu la prima notte che la tenne nel suo letto, dopo i giochi
d’amore, anche a dormire.
Uscì che lei ancora nuda, avvolta malamente nella pelle che
usava lui come copertura, dormiva. La guardò a lungo,
vestendosi, prima di uscire. Il culo nudo, lo spacco di mela che
amava così tanto violare, le reni sottili che salivano come anse
di anfora alla schiena. La pelle coperta di microscopiche
macchie scure, pioggia di efelidi di chi reagisce arrossendo a
piccoli punti e non facendosi ambra e velluto ai baci del sole.
Uscito sorridendo, andò a vedere come procedevano i preparativi
dei giochi e del gran mercato.
E a mandare un messo, dal padre della sua sposa ripudiata. Per
invitare lui, lei, e la schiava che si era portata via da Roma.
Per i giochi, il mercato e una cena che aveva chiesto a Terzio
Sabino di organizzare nella sua casa di campagna, fuori le mura.
Con cibi, danze e musiche.
Poi comprò dei tessuti assai belli, trapuntati in filo d’oro
puro, giunti dalla Grecia. Perché Armida ordinasse alla sarta di
via Salaria, per Rebecca una tunica nuova.
Porpora, da indossare in quella occasione.
Toccò il tessuto, la greca in oro che ne percorreva l’orlo tutto
a lato, e immaginò il gioco di quell’oro con l’oro dell’anello
celato sotto la tunica, quando avrebbe ordinato a Rebecca di
scostarla, aprendola sul sesso, davanti agli ospiti di Terzio
Sabino.
Per essere dentro di sé orgogliosa e lasciarsi ammirare.
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