|
La doppia
punizione
capitolo quinto
Rebecca e i giochi
|
|
|
|
I giochi tanto attesi si svolsero
in un tripudio di folla.
Giunsero in città migliaia di persone, dimentiche per qualche
giorno almeno di ansie e preoccupazioni. Quasi volessero tutti
non pensare alla crescente mancanza di grano e di olio nei loro
magazzini, la città si riempì già giorni prima di genti vestite
in fogge strane, curiose e perennemente in movimento, tra
piazze, mercati, templi.
Venditori di mille mercanzie, ladri, borseggiatori e prostitute
affluirono in città, esaltati dalla possibilità di facili
vendite, e affari di dubbia onestà, favoriti dalla confusione
generale. Che nell’ebbrezza di quelle giornate sarebbero certo
avvenute, facili e veloci, le loro acrobazie di commerci leciti
o meno, quando divertirsi era quasi un obbligo inebriante per un
popolo che stava vivendo fin troppo dure prove.
Al terzo giorno, dopo gli scontri con le fiere, e gli spettacoli
di lottatori, finalmente le corse con le bighe, che erano da
sempre lo spettacolo preferito da buona parte del pubblico,
animarono scommesse, risse e tensioni. Ovunque si improvvisavano
capannelli, intorno a uomini che offrivano attirando i viandanti
con aria di proporre loro il migliore affare della loro vita, di
puntare sui propri favoriti. Con quote prefissate, che non
puntare era quasi dare un calcio alla fortuna, in caso di
vincita di Flavio il Tracio, o del Cisalpino. Che tutti davano
nella corsa coi tiri a tre cavalli come i favoriti.
I giochi avevano una durata prevista di sette giorni e si
sarebbero conclusi a breve, con una grande cerimonia al tempio
di Giove. Mi recai con Rebecca, che mai aveva visto i ludi, ad
assistere alle gare, proprio nella giornata delle corse.
Cominciavano al mattino, un’ora dopo l’alba, e lei, bella come
il sole nella giornata dalle ombre così stagliate al suolo, tra
i mormorii di chi mi conosceva - e vistosamente non credo
apprezzasse il mio accompagnarmi in occasioni così mondane in
compagnia della mia schiava - prese posto a me vicina.
La disapprovazione che sentii circondarci nelle persone che
credevo e consideravo almeno vicine, se non anche amiche, mi
domandai se avesse origine nell’inopportunità sociale di questa
mia ostentazione o nell’invidia che si manifestava negli sguardi
nemmeno così dissimulati. Potei cogliere gli occhi di Aristone e
di Leandro, e di Mario il tebano, perdersi sulla morbidezza del
tessuto che malamente poco la copriva, poi scivolare sulle curve
orgogliose dei suoi seni, tesi a colmare e appuntire il tessuto.
E sul gioco delle cosce, che, al suo sedersi rimanevano
oscenamente nude, almeno un attimo solo.
Rebecca si emozionò come una bambina, rise alle esibizioni goffe
e volutamente catastrofiche degli attori e cascatori che si
simularono atleti, per burla, e nella conca di pietra e marmo,
riecheggiò più e più volte, oltre alla sua, la più corale delle
risate.
I ludi funzionavano, pensai, erano una buona cura e un buon
vaccino, e l’idea di aver offerto svago alla città era stata
un’idea vincente, una volta tanto, dopo tanti provvedimenti
impopolari. Fu alla corsa dei tiri a tre, la più spettacolare
che si ruppe improvviso, in un solo grido, l’incanto.
Come per caso. Le bighe in gara erano più strette, e i tre
cavalli, appaiati quasi, che ne trainavano ciascuna, rendevano
così incredibile il sorpassarsi dei cocchi. Quasi un’idra di
teste e code infuriata, e schiuma alle bocche e alle nari, un
demone di polvere e sudore, ad ogni lor stringersi forzando il
passo al momento di curvare, stretti.
Sei i corridori.
Tutto il pubblico era in piedi e Rebecca era agitatissima, lei
per prima. Mi confidò di avere visto corse di cavalli al suo
villaggio, tra i migliori guerrieri, e che il migliore era
quello cui era stata promessa in sposa dal padre sino da
bambina. E che i nostri soldati avevano ucciso lui e tutti i più
validi guerrieri quando lei fu presa prigioniera. Nel dirlo si
scostò da me. D’istinto.
Presi il suo polso e con l’altra mano le serrai il fianco con
forza, riportandola al posto suo.
La sua resistenza fu breve e solo un attimo dopo aderiva ancora
così forte col suo corpo al mio, da colmarmi del profumo del suo
corpo, delle spezie con cui era stata lavata e dalla fragranza
di giovane femmina del suo sudore, le narici. Ancora.
Alla seconda curva, in piena velocità, stringendosi tra loro i
cocchi, avvenne l’urto. L’impatto che si trasformò all’istante
in urlo della folla. Ferita.
Sentii Rebecca contrarsi e quasi urlare coi fianchi allo
spettacolo improvviso.
Forse si incastrarono le ruote dei carri troppo vicini in curva.
O uno dei cavalli del Tracio perse la presa al suolo, e scivolò,
trascinando nella sua caduta gli altri e quelli del carro troppo
accostato a loro. Fatto sta che fu polvere e groviglio e rumore
di legnami spezzati, urla e nitriti come se tutti i cavalli
venissero sgozzati in un colpo solo. In un sacrificio
collettivo.
Gli altri carri continuarono la corsa, scansando l’ostacolo che
si dibatteva e agitava senza capo, corpo o coda, ridotto solo
groviglio frenetico e indistinto, nella nuvola di terra
sollevata.
Corsero inservienti dalle stalle e dai loro ostelli, alcuni
dietro il luogo dell’incidente, per far arrestare al ritorno
dopo il giro le altre bighe, altri a soccorrere uomini e cavalli
in quella catasta che sussultava. E pulsava.
Finirono sgozzandoli sul luogo tre cavalli che erano azzoppati,
per abbreviare le loro sofferenze. Ruppero a colpi di ascia
frenetici ciò che restava delle bighe, per liberare i guidatori.
Trascinarono via i rottami, coi corpi dei tre cavalli uccisi, e
quello del cavallo morto nell’impatto da solo.
Una scia di sangue si allargò a lato del fiore di legna e carne.
Poi estrassero e dapprima trascinarono per i piedi, di gran
fretta e furia, poi sollevarono quasi con devozione, i corpi del
Tracio e di un altro corridore. La folla ammutolì, un attimo
solo, poi trasformò il grido dell’impatto in crescente e
ribollente brusio.
Vidi due donne piangere. Vicine a noi. E molti occhi farsi
lucidi e arrossare.
Il Tracio era un eroe.
Amato e benvoluto, quasi un simbolo dei giochi cittadini.
Gli tributarono onori e mezza città andò a vederne il corpo
ripulito, ornato, profumato, esposto fuori dal Senato, già dalla
sera stessa, per tre giorni, prima della cremazione. I giochi
cessarono, per editto straordinario senatoriale.
In tutta la città per giorni interi si sentì solo parlare della
corsa, dell’incidente, di quel groviglio blasfemo di corpi
equini e umani e schegge di calesse. Qualcuno disse che il
Tracio nel tentativo di frenare ed evitare l’impatto si fosse
erto come un gigante, puntando i piedi, gonfiando fino a farli
scoppiare i muscoli delle sue braccia e avesse spezzato con la
sua forza le due briglie di duro cuoio che teneva in mano.
Fu quella notte.
Che Rebecca stringendosi a me pianse. Mi confessò di odiare me e
il nostro popolo.
Di non riuscire a dimenticare il suo villaggio, le genti morte
nell’assalto delle nostre legioni. Il fiume, e i giorni passati
al ritmo rassicurante delle sue stagioni, da bambina.
Che non avrebbe mai potuto essere come le altre schiave, e
dimenticare. Dapprima mi colpì il petto coi pugni serrati, senza
farmi alcun male né causarmi alcun dolore.
Sdraiata a fianco a me nel letto. Poi cominciò il suo pianto
infinito, quasi avesse un fiume da lasciare uscire troppo a
lungo trattenuto. Sussultava nei singhiozzi, nuda, contro i miei
vestiti. Le ginocchia strette alte verso il seno, come un feto.
Bagnò di lacrime la mia tonaca facendo diventare, dove la
bagnava, il lino bianco, scuro.
E più diceva che ci odiava, più si stringeva. Le mani strette a
pugno afferrava e teneva il mio abito, quasi aggrappandosi per
non cadere, precipitare nelle sue paure.
Mi spogliai, pur faticando per liberarmi in modo dolce dalla sua
presa. Non osai io proferire parola alcuna. La carezzai. Fino a
che le si calmò il sussultare dei fianchi, del ventre e del
seno.
Poi la baciai. A lungo, finchè fu lei a schiudersi, scorrendo
con le gambe sul lenzuolo, e in silenzio a chiedermi di entrare.
A darle pace.
Senza parola alcuna, gli occhi suoi così rossi per le lacrime e
così dolci da averne io paura.
Entrai nel suo ventre come se fosse stata la prima volta che lo
prendevo e lo possedevo e io fossi dentro di lei il primo.
Sfiorai il piccolo anello d’oro con il glande, lo sentii freddo
e mi eccitò oltre misura, poi proseguii.
Mi mossi piano, con sicurezza e calma, per non perdere un attimo
solo del suo calore che si scioglieva. E mi avvolgeva il sesso.
Quando lei cominciò ad ansimare, ma solo allora, ascoltandole il
respiro con rinnovato e nuovo stupore, quando la bambina
cominciò a diventare femmina e poi animale caldo, cominciai ad
accelerare io.
Non mi importò in quel momento dei suoi pugni battuti con rabbia
disperata contro il mio petto mentre mi odiava con le parole.
Ero felice del suo ventre che mi amava. Strinse le cosce ai mie
fianchi mentre godeva, e io ne fui felice.
Il giorno dopo, per chiudere con onore anticipatamente i giochi
e dare pace al dolore popolare, stanziammo in senato una
donazione alle vedove e agli orfani delle guerre di frontiera
contro i barbari degli ultimi mesi. E ordinammo che Fidone, le
cui sculture tutti amavano in città, scolpisse una grande statua
equestre, almeno una volta e mezza le sue misure quando era
vivo, del Tracio. Da mettere, con grande festa e profusione di
musiche e fiori, sulla piazza del mercato in occasione delle
Idi.
Uscii di casa, per recarmi in Senato e partecipare alla delibera
e alla discussione, che Rebecca dormiva ancora.
Un servo mi avvisò mentre uscivo e assaporavo l’aria fresca e
pulita del mattino, che alla cena di Terzio Sabino sarebbero
venuti la mia sposa ripudiata con suo padre e che avrebbero
portato con loro come desideravo fortissimo in cuor mio anche
Aminah.
Sorrisi, inarcando le reni stanche per la lunga notte d’amore.
Rebecca, nella notte, aveva avuto ragione delle mie reni e del
mio corpo che cominciava a sentirsi antico coi suoi appetiti di
ragazza. Risi, passando dal sorriso al riso. Perché si
preannunciava proprio una bellissima giornata.
E non mi davo cura o preoccupazione che alcuna nube mai avrebbe
potuto guastarmi la giornata.
In tutta Roma io, forse io solo, almeno, ero felice.
|
|
|
|
|
 |
pagina 5
|
 |
|
|