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La doppia
punizione
capitolo sesto
Del possesso e del riscatto
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Mancavano ormai solo tre giorni
alla grande festa per la cena a casa di Terzio Sabino. A cui
tutta la nobiltà e i maggiori notabili, contribuenti e uomini di
legge e di cultura e di città avrebbero partecipato con grande
spolvero di ricchezze e lussi.
Si erano già celebrate, due giorni prima, con una partecipazione
di folle assai superiore anche alle attese le esequie del Tracio.
Per una notte intera, a funerali avvenuti e commemorazione
affettuata, sciami di cittadini avevano percorso la città con
grida e canti di osteria, ebbri per le libagioni eccessive che
avevano accompagnato l’intera giornata della sepoltura.
Il Tracio si era convertito alla religione dei cristiani solo
qualche anno prima di morire nell’arena e aveva preferito la
sepoltura alla cremazione dei suoi avi. Ma del silenzio e del
rispetto che tali esequie avrebbero richiesto anche nel lutto
successivo il popolo non aveva avuto alcun riguardo.
Il popolo ha un lutto tutto suo particolare, quasi un esorcismo
a volte, per coprire di oscenità e trivio il suo dolore,
azzerarlo quasi gridando alla vita in ogni sua forma, anche le
più invereconde, e la morte dell’eroe così popolare non si era
sottratta nelle sue conseguenze a questo uso pagano.
Il terzo giorno prima della cena, lei, quella che mi fu sposa e
fedele e che io avevo ripudiato solo pochi mesi prima, in un
modo che cercavo ancora di non ricordare, giunse in città,
accompagnata dal padre e, ovviamente, non fosse altro che in
spregio e sottile vendetta su di me, da Aminah.
Erano stati invitati da Sabino, per l’importanza dei commerci
del padre di lei, Militone.
Trovarono ospitalità nella casa romana di Paolo Latino, intimo
amico di Militone sin dall’epoca in cui avevano avviato entrambi
i loro primi commerci coloniali, sostenendosi a vicenda
nell’affittanza delle navi e nel trasporto delle merci e degli
schiavi. Paolo Latino ora era uno dei mercanti più apprezzati e
riveriti, e in parte anche temuti, della capitale. Era fuori
città da oltre un mese, e di lui si sospettava stesse facendo
affari con le tribù ribelli a nord dell’Impero, ma nessuno aveva
mai né esibito, né tanto meno cercato le prove che lo potessero
fare accusare davanti alla legge ed al Senato.
Mezza città aveva avuto favori, o commerci spesso illeciti con
lui, e nessuno mai aveva osato mettersi in contrasto con il suo
potere, vuoi per gratitudine, vuoi nella speranza di favori
promessi e ancora da mantenere, vuoi per la paura che,
trascinato nel fango, potesse trascinare a sua volta i suoi
detrattori e delatori, di cui magari custodiva illeciti segreti.
Andai in visita al padre della mia non più sposa nel pomeriggio,
lasciando loro il tempo di prendere possesso della casa,
riassettarsi dopo il viaggio in carro sulle strade sconnesse e
polverose e avere modo di presentarsi a me in modo acconcio e
appropriato tenuto conto del mio rango e del mio ruolo nel
Senato.
Mi introdusse nella casa un servo che non conoscevo.
Trovai nell’ampia sala, seduti come se fossero nella loro
propria casa e non solamente ospiti, quella che fu mia moglie e
suo padre. Aminah era seduta al suolo, ai piedi della sua
signora.
Sia Gaia, la mia sposa rinnegata che suo padre, Militone
colsero, perché se lo attendevano credo, il mio correre con lo
sguardo subito sul corpo della loro schiava. Mentre mi ritrovavo
a fissarla, accorgendomi che loro avevano subito colto la fuga
verso di lei dei miei occhi, mi detti dello stolto, dello scemo,
dell’idiota.
Era evidente che loro si aspettavano questa mia istantanea
reazione alla vista di lei, e non a caso li scorsi fissarmi
attenti, quasi divertiti, rubandomi lo sguardo che debbo aver
avuto quasi commosso e perso nel vederla lì accosciata seminuda
nella corta veste.
Ed era evidente che ora il prezzo dell’eventuale riscatto di
Aminah che mi sarei dovuto trovare a sostenere sarebbe
enormemente lievitato, dopo questa mia conferma nemmeno
minimamente mal mascherata di interesse, l’unico interesse in
realtà che mi avesse spinto in visita a loro.
I convenevoli furono assai veloci, domande sulla vita loro al
paese, a lei se avesse bisogno di nulla di ciò che aveva
lasciato magari eventualmente nella mia casa, lasciandola. A
lui, sui suoi commerci di cui in tutta sincerità avevo quasi
ribrezzo. Si accompagnava spesso a due ricchi giudei, noti per
la pratica dell’usura, che mai la legge era riuscita a far
andare sotto giudizio. Loro lo finanziavano occasionalmente
nelle spedizioni a volte, coi soldi estorti per il prestito a
cittadini, in difficoltà o indigenza a causa delle vicissitudini
non positive che attraversano molte famiglie romane nei giorni
che vivevamo tutti.
Espedite che furono queste convenienze e formalità di buona
educazione e dopo averli resi edotti assai velocemente circa le
ultime sedute del senato e la fine tragica dei giochi, argomento
di pettegolezzo che sembrò interessare loro assai più della
crisi dello stato, non senza imbarazzo azzardai la richiesta che
avevo a pulsarmi in petto e che stavano aspettando di udire
certamente, dopo aver rimosso il velo dei convenevoli di rito.
“Mio caro Militone, ancora non so come ringraziarti
dell’ospitalità con cui hai riaccolto nella tua casa Gaia”
esordii, ruffiano e falso, ben conscio dell’enormità del prezzo
a lui pagato, e da lui estortomi, perché io non fossi obbligato
a metterla a morte o abbandonarla in una strada dopo la sua
ubriacatura. Cosa che pur nella mia volontà di liberarmene mai
avrei saputo affrontare serenamente.
Poi non so nemmeno ridire qui adesso quali furono le mie parole.
Come affrontai e formulai la richiesta che avevo in cuore, né
quanto ci mise la mia voce a tradire quanto la volessi e quanto
mi desse dolore il solo pensare alla possibilità di un loro
rifiuto.
Non so più come affrontai e introdussi la questione. E so
d’altro canto che ogni mia argomentazione, benché pensata,
ripensata, quasi sezionata nella mente e a volte anche ad alta
voce, girando da solo nervoso nelle mie stanze nell’attesa di
quell’incontro anche il giorno prima, debba essere loro sembrata
patetica, quasi ridicola e pretestuosa. Lo so per l’ironia che
colsi nei loro sguardi e che nemmeno si premurarono di celare,
il gusto laido di una vendetta che offrivo, senza prezzo da
pagare per incassarla, a loro, quasi su un vassoio cesellato in
oro.
Ma so che poco mi importò sentirmi quasi nudo e indifeso, aperto
a qualsiasi ferita avessero voluto la sorte o i numi infliggere
ai miei desideri. Maledii in cuor mio la mia stupidità quando
avevo lasciato a lei Aminah in dote e in dono. E maledii Aminah
stessa, per il ridicolo in cui mi sentivo quasi affogare,
durante il loro umiliante silenzio che seguì alla mia richiesta.
Che Militone, bastardo da par suo, si concesse anche il lusso
dell’attesa prima di parlare, sapendo che così sarei impazzito
di tensione.
Chiesero un giorno di tempo, per decidere se da Aminah Gaia
avrebbe potuto separarsi. E per comunicarmi l’eventuale prezzo
del riscatto che però, in ogni caso, avrebbe avuto una clausola
precisa e irrinunciabile per loro, se me l’avessero mai
rivenduta.
Che io mi impegnassi sui miei Lari a non affrancarla mai,
nemmeno in punto di morte, mia o sua, dalla schiavitù. Che mai
potesse diventare donna libera e che il suo ruolo nella mia
casa, implicitamente era su questo che mi volevano obbligare,
mai sarebbe stato quello della concubina o, ancor più, della
sposa. Che fosse a vita, davanti alla città e ai cittadini
liberi, schiava tra le mie schiave.
“..che poi mi è giunta voce di una tua nuova schiava assai
bella, che hai battezzato Rebecca, dicono, perché non ce la
proponi in baratto in aggiunta al prezzo se ti dovessimo
richiedere accontentandoti il riscatto…” soggiunse quasi
ridendomi in faccia Militone, sfoderando l’occhio più lubrico e
viscido che mai gli avessi conosciuto. Poi davvero scoppiò, e
senza alcun riguardo per la mia veste di senatore, rise.
Mentre chiedevo Aminah, arrampicandomi su fili e argomentazioni
di ragioni sempre più fragili e sottili perché mai avrei ammesso
davanti a loro la vera ragione, ben chiara del mio chiedere,
insistere e accettare l’umiliazione di quella situazione, Gaia,
in evidente spregio, o forse solo per vizio e libidine acquisita
in modo ancora maggiore in quegli ultimi mesi, non smise un
attimo solo di giocare coi capelli di lei lì accosciata ai suoi
piedi. Di stuzzicarla muovendoli nudi lungo la coscia,
carezzandola lubrica, scostandone la veste. Nè di arricciare i
capelli della schiava sulle sue dita facendone anelli castani a
cingersi l’indice o il medio o l’anulare.
Al moto dei suoi piedi la veste di Aminah risaliva a volte.
Lasciandole mude le cosce fino al sesso.
E scoprii in Aminah, che in quei momenti con gli occhi
abbandonava i miei, e i suoi li abbassava con rossore, e si
riconduceva la veste a posto sulle cosce nude, dopo che il piede
di Gaia aveva giocato a stuzzicare, qualcosa di nuovo. Una
strana e inedita in lei sorta di pudore.
Che mi afferrò il respiro. Azzerandolo.
Provai rabbia per Gaia che la esibiva e celebrava il suo
possesso quasi umiliando me ed Aminah in un gesto solo.
E provai un moto di tenerezza infinita per lei invece. E il suo
nuovo fragile pudore.
Pudore di me, di come i gesti di Gaia, sulle cosce, o sui
capelli o con mano che a volte le poneva aperta, più in segno di
possesso che di affetto sulla gola e poi a scivolarle sul seno
sotto la veste, potessero ferirmi, nel vederla umiliata. Ora, in
quello che dall’inizio era stato senza problema alcuno il suo
ruolo di schiava nella nostra vita.
Decisi che in qualsiasi modo l’avrei riportata a casa.
Lasciata la casa di Paolo Latino, congedatomi da loro quasi in
fretta e furia, che un secondo solo ancora non sarei resistito
oltre trattenendomi, ero abbastanza agitato E ripensavo a ciò
che avevo detto, o dimenticato nell’agitazione di dire.
E tutto mi sembrava di averlo davvero gestito nel modo peggiore.
Fu dopo un centinaio di passi veloci e lunghi, che il rumore di
passi affrettati dalla corsa alle mie spalle sul selciato
sconnesso mi obbligò a voltarmi.
Sudata, spettinata, la veste scossa dalla corsa così veloce,
ebbi di fronte lei, Aminah.
Nemmeno ebbi tempo di chiedermi o chiederle come avesse fatto ad
uscire indisturbata e non vista dalla casa, che senz’altro non
era né col consenso di Gaia né con quello di Militone che era
giunta fino a me adesso. Si lasciò stringere e ne ritrovai
all’istante l’odore, le pelle, il sudore, l’alito caldo a
riscaldarmi la veste dove aveva affondato il viso. Perle di
lacrime bagnarono la mia tunica bianca.
Si lasciò stringere affondando nell’abbraccio, e la sentii
tremare.
La strinsi, e nello stringerla, nel misto di tenerezza e
desiderio violento che mi colse e si mescolò senza ragione,
sentii il mio sesso reclamarla, chiuso tra me e lei abbracciati,
ventre a ventre.
Il ventre suo a quel mio risveglio spudorato, spingere, ingordo
come lo conoscevo in lei.
Fu lì, in quel momento, certo che a costo di assoldare sicari io
l’avrei riavuta, che lei e Rebecca per la prima volta si videro.
Rebecca che rientrava dal mercato coi fiori per adornare la mia
casa stretti in grosso fascio tra le braccia, ebbe un attimo di
rabbia nello sguardo.
Prima che al mio fissarle gli occhi lei stessa li abbassasse e
quasi spegnesse la luce nei suoi. La chiamai. Venne vicina.
Le dissi che Aminah, lei la percorse con lo sguardo nascondendo
ogni emozione, sarebbe ritornata nella mia casa. Le dissi che di
lì a massimo due giorni Aminah sarebbe ritornata, anche se,
dicendolo, io per primo non sapevo come sarei riuscito e se mai
sarei riuscito, e la informai che da quel giorno avrebbe diviso
stanza e incombenze con lei.
Le vidi guardarsi, apparentemente senza espressione alcuna che
tradisse ora la benché minima emozione in nessuna delle due.
Poi sciolsi dalle mie braccia Aminah, che corse verso casa per
non fare scoprire la sua fuga. La seguii con lo sguardo finche
scomparve in fondo alla stretta via. Svoltando dietro un muro.
Quando girai lo sguardo indietro, anche Rebecca ormai era
andata. Con i suoi acquisti profumati verso casa.
Mi ritrovai da solo nella strada.
Pensai a quanto sarebbe stata lunga la mia giornata, in attesa
della risposta di quei due alla mia richiesta. Pregai che la
loro avidità incontenibile mi fosse questa volta almeno buona
alleata.
E immaginai la cena da Terzio Sabino, ridendo dei pettegolezzi
che quella sera, se tutto fosse andato come desideravo io, avrei
ingenerato nei commensali.
La Roma più ricca, potente, oscena lasciva e dissoluta e, nella
sua decadenza, più volgare.
Riunita a celebrare usanze e fasti che io sentivo con malinconia
d’animo destinati a scomparire e declinare, anche se ormai
ridotti solo a pantomima.
Senza nemmeno dover chiudere gli occhi per immaginare sentii.
Il mormorio di voci.
Il volgere degli sguardi di tutti, al nostro ingresso, a cercare
conferma visiva e inconfutabile ai pettegolezzi da serva degli
uomini più potenti della capitale.
Quando, seguito da Rebecca e da Aminah, vestite non da schiave
ma con l’eleganza, la ricchezza di tessuti e ori, e lo stile che
mai avrebbero avuto le loro ricche e viziose dame, o le loro
puttane arabe prezzolate e odorose di resine orientali, io avrei
fatto, sorridente, il mio ingresso nella sala.
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