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La doppia
punizione
capitolo settimo
Lalingua e il sale
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Tornato a casa, mi rifugiai
velocemente nelle mie stanze.
Non avevo nessuna voglia di incontrare i servi e fui davvero
lieto che nessuno di loro mi si parasse davanti nel percorso
dall’atrio alle stanze. Li avrei cacciati in malo modo se solo
li avessi incontrati o avessero chiesto la più banale delle
domande.
Per prima cosa lavai il viso.
Avevo camminato velocemente e in modo nervoso, e nella calura
dell’estate che si avvicinava feroce, dando ai marmi dei palazzi
luce di ghiaccio, ero sudato. Fradicio.
Gettai la tunica per terra e versai acqua nella bacinella di
rame che uso per le abluzioni.
Di solito era Armida a prendersi cura di questa incombenza. La
vecchia schiava usava tessuti di lino e spugne dei mari d’Ellade
per detergere stanchezza e sudore dal mio corpo e dal mio viso.
Ma non avevo voglia di vedere nemmeno lei, la più fidata, lei
che da sempre era ospite nella mia casa, al mio servizio.
Così presi cura da solo, cosa a cui non ero più avvezzo da
tempo, di me stesso.
E mi versai da solo acqua, con un mestolo, lungo la schiena, sul
petto. E godetti del refrigerio dell’acqua fresca spillata
dall’orcio di terracotta che ne teneva la temperatura sempre
gradevole anche nelle giornata più calde dell’estate.
Poi immersi nuovamente più volte le mani e portai quanta più
acqua fui capace, nella loro conca tracimante, al viso. Mi
asciugai con un telo di lino e indossai una tunica vecchia,
quella che più di tutte mi era cara e che amavo, carica di
ricordi di giornate e di battaglie interminabili al Senato,
ormai troppo lisa, purtroppo, per essere portata senza essere
additato per indigente nella vita pubblica.
Ma che io amavo per la sua vita e le sue ferite in trama e
ordito, inflitte da un’esistenza lunga e consumata.
Ero non più accaldato, dopo il beneficio dell’acqua sulle carni,
ma ancora dentro di me ancora bollivo.
Per la risposta di Militone, il vile.
Nemmeno atteso che terminasse l’intera giornata successiva al
nostro incontro per dare risposta alle mie richieste. L’aveva
fatto nel modo più vigliacco, mandando un ambasciatore, un servo
di Paolo Latino che gli era stato lasciato, per le incombenze
della casa, insieme alla casa stessa nel suo soggiorno romano.
Conoscevo bene il servo e, vedendolo arrivare, mi aspettai che
mi portasse una missiva, con prezzo del riscatto e condizioni, o
quanto meno a voce mi portasse la risposta che attendevo, magari
rinviando ad un successivo incontro con Militone e Gaia la
definizione finale della transazione.
Invece no.
L’unica comunicazione che doveva portarmi era stata una nuova
convocazione a casa dei due. Senza alcun accenno a ciò che
attendevo di sapere, con indiscutibile e trasparente ansia.
Per questo arrivai alla casa di Paolo Latino assai agitato.
Camminai veloce e teso nei pensieri, e all’entrata mi accorsi
che le mie vesti erano zuppe di sudore, sulla schiena e ai
fianchi, incollate alla pelle, sotto le braccia. Avevo i muscoli
delle braccia così tesi, seppure inconsciamente, da provarne
dolore.
Il servo latore della convocazione mi aveva seguito quasi a
fatica. Era anziano, dal passo malfermo sulle strade della
città, sempre meno curate e ormai sconnesse dal transito dei
carri, per la crisi economica dello stato. Mi superò solo alla
soglia, accelerando con affanno, per introdurmi nella casa, con
un ultimo guizzo di rispetto per la mia età, la mia persona, e
il mio incarico in Senato. Poi andò a cercare i suoi temporanei
padroni.
Mi fecero attendere.
Un tempo indefinibile che a me parve quasi due terzi di una
intera ora.
Poi entrarono, loro due, senza Aminah. E quell’assenza della
schiava oggetto della transazione mi inquietò all’istante. E
fece contrarre oltre ai muscoli delle mie braccia anche il mio
costato.
Mi salutarono con un sorriso che a me, per diffidenza e
premonizione, parve subito strano e sottile. Mi fecero
accomodare nella stanza in cui il giorno prima avevamo avuto la
nostra discussione.
“Mio caro amico” esordì Militone, dopo una pausa che a me parve
eterna e interminabile.
“Mio caro amico” ripetè con voce ancora più sottile.
“Gaia ha pensato a lungo, e io pure.” Un’altra pausa e io avevo
sempre più dolore nei muscoli di ambo le braccia, tese per
tenerle ferme trattenendole, ai fianchi.
“Alla fine abbiamo convenuto che non esiste prezzo per i servigi
che Aminah rende a Gaia e a me” e dicendolo si trattenne a
stento dal ridere. Quell’ “a me” aveva un tono così viscido e
infame che mi dovetti forzare, a stento, per non levarmi dalla
panca, ove mi ero seduto per celare la tensione che avevo
dentro, e non saltare al collo dell’ uomo che giocava con me e i
miei pensieri e desideri.
“Abbiamo anche pensato se chiederti davvero la tua nuova
schiava, si chiama Rebecca se ricordo bene”,finse di ricordare a
mala pena,” da aggiungere al prezzo del riscatto, ma poi abbiamo
deciso che questo commercio in alcun modo è possibile da
realizzare”
“ Tu che hai conosciuto Aminah bene, scegliendo di farne dono a
Gaia proprio per le sue grazie e il suo piacere, converrai con
noi che separarcene sarebbe un imperdonabile peccato e che non
esiste prezzo per le sue arti amorose, le sue carni fresche, la
sua dedizione….” E rise.
Fu in quel momento che realizzai che la fuga a me di Aminah
lungo la strada il giorno prima, avvenuta in modo sin troppo
facile, era stata in realtà da loro favorita e agevolata, per
prendersi maggiormente gioco e vendetta su di me. E fu in quell’istante
che decisi.
Che non sarebbero tornati, né padre né figlia, a Gaeta vivi.
E che avrei avuto Aminah in qualsiasi modo. Anche abusando della
mia carica e del mio potere. In fin dei conti non sarei stato
certo il primo nobile o senatore a vedere ignorati e passati
sotto silenzio per rispetto del titolo, paura dell’influenza e
della vendetta i suoi crimini o reati. Né il primo né
probabilmente l’ultimo.
Avrei inventato,escogitato, realizzato il modo.
Ero uscito dalla casa senza replicare, con lo stomaco contratto
dall’umiliazione e dalla rabbia. Sotto gli sguardi loro che
sapevo, senza vedere, maligni e soddisfatti e compiaciuti del
risultato del loro agire. Avevo quasi corso, verso la mia casa,
sudando e rendendo fradicia la tunica mia migliore.
E ora, seduto, i piedi nell’acqua che avevo versato, lavandomi,
al suolo, mi sentii quasi perso e inerme di fronte all’ira e
alla sconfitta patita.
Rebecca mi raggiunse mentre sedevo, con la testa tenuta tra le
mani, e lacrime di rabbia all’angolo degli occhi che nemmeno
loro, rifiutandosi di uscire, si utilizzavano almeno a darmi
sfogo.
Trattai male Rebecca, entrata senza che io nemmeno la chiamassi.
La respinsi in malo modo.
Lei non si dette per vinta, e senza una parola slacciò la fibula
d’argento scura che teneva chiusa la sua veste, lasciandola
cadere al suolo.
In piedi, davanti a me, nuda, era bellissima. Coi capelli
sciolti perché non si era premurata di legarli come desideravo
fossero in mia presenza sempre.
La pelle coperta delle mille macchie piccole, il suo arcipelago
di nei. Su cui avevo perso occhi e dita nell’amore, percorrendo
rotte invisibili, e cercando, unendoli con la pressione delle
dita, facendo schiarire la sua pelle al loro passaggio, di
scrivere, come i bambini sulla sabbia, il mio nome. L’anello
d’oro alle labbra del suo sesso era lucido e spiccava, sul
candore della sua pelle così chiara, lì, dove mai, dal suo
arrivo a Roma almeno, era stata baciata da alcun sole.
Mi scivolò vicina, i piedi nudi nell’acqua che avevo sparsa
dappertutto e copiosa la suolo. L’anello era vicino alle mie
labbra, lei in piedi e io seduto.
Avevo liberato il capo dalle mani e rialzato il viso.
Lei allora sporse il pube, inarcò la schiena e offerse il
ricciolo d’oro, l’unico ricciolo di un pube rasato da Armida con
gran cura, alla mie labbra e al loro bacio.
Affondai il viso lì. Inebriando le narici del suo odore.
Morsi l’anello, lo tirai tra i denti. Cercai di penetrarne
l’asola con la punta della lingua, accorgendomi che, nel farlo,
lei si bagnava tra le labbra, densa e copiosa, e un rantolo le
usciva dalla gola.
Succhiai l’anello, cercando di trascinarmelo fino in fondo alla
gola. Il labbro del suo sesso si tese, seguì la forza della mia
suzione, mi scivolò docile tra le labbra e i denti. Lo strinsi.
Lei spinse il pube.
Mi ubriacai così.
Della sua fica, del suo anello, del suo sapore e del suo odore.
Persi la cognizione di dove finisse il piccolo anello d’oro e
dove cominciasse la sua carne. Labbra, denti e lingua si
profusero in mille capriole.
Poi allargò le gambe, scostò le cosce, appena si fu liberata dal
giogo della mia bocca, si mise a cavallo delle mie cosce e su di
me, seduto, si sedette. Facendomi scomparire, con una carezza
umida e stretta, caldissima, nel suo ventre. Fino a posare le
sue cosce fresche e nervose a cavallo delle mie, di fronte.
Salì e scese sui muscoli dei polpacci fino a farmi godere.
Poi attese che io l’allontanassi da me, dopo aver avuto da lei
il mio piacere.
Non dimostrò però stupore, né, d ‘altro canto, gratitudine
alcuna. Quando, invece di rimandarla alle sue stanze, io, ancora
dentro di lei, perdendo di tensione e raccogliendo sul mio pube
il perdersi caldo del mio stesso seme, che cominciava a scendere
e colare, la strinsi a me.
Aderì al mio corpo. Ne imitò il ritmo del respiro, adeguandosi
ad alternarsi al prendere vigore e svuotarsi dei miei polmoni.
Si lasciò stringere e mi strinse lei.
Mi leccò gli occhi.
Come un felino, rimosse con la lingua dai miei occhi quelle
lacrime di rabbia che non erano riuscite prima ad uscire.
Quelle che lei aveva trasformato in piccole gocce salate e calde
di piacere, libere di lavarmi, come nessuna acqua di orcio o
catino mai avrebbe potuto fare, finalmente davvero, cuore e
viso.
Poi si lasciò baciare sulle labbra, cosa che non ero uso fare, e
mi lasciò sentire, rubandolo alla sua lingua, il sapore liberato
del mio sale.
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